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Lavoro: l’analisi della FISH

Giovane donna lavora al computer su una panchinaIl diritto al lavoro delle persone con disabilità è condizionato da uno stigma sociale ovvero dalla percezione negativa che la società ha su tali persone, che è visibile nel pregiudizio dell’imprenditore che lo giudica sempre e comunque improduttivo o del gruppo che lo accoglie (responsabili di reparto, responsabili del personale, compagni di lavoro), sia in riferimento alla possibilità di comunicazione e di condivisione di temi di confronto con il lavoratore che si presenta “diverso”, sia per la presunta capacità produttiva di una persona che ha ritmi e orari diversi e può “produrre” con modalità differenti da quelle imposte dall’organizzazione del lavoro o adottate per consuetudine.
La discriminazione è tale dall’indurre il Consiglio dell’Unione Europea, con la Decisione del 3 dicembre 2001, che ha proclamato il 2003 Anno Europeo delle Persone con Disabilità, ad esplicitare che le prime politiche degli Stati membri dell’Unione debbano essere:
– la sensibilizzazione sui diritti delle persone con disabilità di essere tutelate dalla discriminazione e godendo di pieni e pari diritti;
– il miglioramento della comunicazione sulla disabilità e la promozione di una rappresentazione positiva delle persone con disabilità.

La Legge 68/99
Il pregiudizio nei confronti dei lavoratori disabili, a nostro parere, è dimostrabile non solo attraverso le testimonianze delle persone e dei loro familiari. Esso infatti si sostanzia in elementi fattuali riscontrabili nell’ultima relazione al Parlamento sull’attuazione della Legge 68/99 elaborata dal Ministero del Lavoro.
In particolare, gli esoneri di cui all’articolo 5, concepiti per non rendere effettiva l’aliquota d’obbligo per le aziende in stato di difficoltà, risultano essere praticati in maniera assai spregiudicata: su 149.648 unità di scoperture rilevate, solo 84.462 sono i reali posti disponibili.
Nel corso del 2004, abbiamo potuto constatare – su sua stessa esplicita dichiarazione – come un’impresa della dimensione di Telecom Italia abbia potuto ricorrere all’articolo 5, pur essendo in condizione di estrema redditività, tra le più alte del Paese.
Questo elemento indica come il collocamento al lavoro delle persone con disabilità sia vissuto come norma da evadere, come uno dei tanti “lacciuoli” che impediscono il pieno sviluppo economico dell’azienda. Non vi sarebbe la necessità di tale operazione se il lavoratore disabile non fosse ritenuto improduttivo e il suo collocamento una politica assistenziale.

A completamento del quadro vi è il capitolo delle sanzioni (articoli 15-17 della Legge 68/99). Nella citata relazione al Parlamento risultano poste sotto sanzione solo 779 aziende, dimostrando la scarsa efficacia dei controlli pubblici, che a nostro giudizio non può essere ascritta esclusivamente alle carenze di organico e di competenza: fin troppo spesso negli stessi operatori degli Ispettorati del Lavoro alberga il pregiudizio che genera superficialità e lassismo nella valutazione documentale delle inadempienze.

L’Unione Europea – attraverso la cosiddetta “Strategia di Lisbona” – indica il percorso dello sviluppo economico dell’immediato futuro verso un’economia e una società basate sulla conoscenza. Ai fini della competitività e dell’innovazione e completando il mercato interno, si intende investire nelle persone combattendo l’esclusione sociale.
L’intento programmatico porta alla piena occupazione, con l’obiettivo di giungere ad un tasso di occupazione al 70% nel 2010, con tappe intermedie. Se il 7-10% della popolazione europea è disabile, è di assoluta evidenza che essa sia coinvolta pienamente in questo processo a partire dall’inclusione sociale.

Persone giuste al posto giusto
Operaio con arto artificialeProprio in questo ambito si colloca la promozione della diversità umana che nel nostro Paese annovera buone pratiche e norme di avanguardia spesso sottovalutate.
Gli esiti positivi delle battaglie culturali degli ultimi trent’anni sull’integrazione scolastica e sull’inserimento pieno nella vita quotidiana delle persone con disabilità sono attestati dalla produzione di norme considerate oggetto di studio da parte dell’Unione e degli Stati membri.
Questo ha prodotto una maggiore qualificazione dei lavoratori con disabilità, che accedono anche a qualifiche alte (al 2004-2005 sono ben 8.500 gli studenti con disabilità iscritti all’università).
Grazie alle politiche di mainstreaming educativo di tutte le persone con disabilità, si è potuta superare la mera concezione dell’aliquota d’obbligo di assunzione, con l’approdo al collocamento mirato che si definisce come l’insieme «di strumenti tecnici e di supporto che permettono di valutare adeguatamente le persone con disabilità nelle loro capacità lavorative e di inserirle nel posto adatto», ovvero la persona giusta al posto giusto.
Il fulcro della Legge 68/99 è quindi nell’incontro tra domanda e offerta, basato sulla valorizzazione delle abilità e delle competenze delle persone, non sulla condizione fisica, intellettiva o sensoriale.

Appare quindi necessario caratterizzare il percorso e gli strumenti che superino le discriminazioni oggettive di comunicazione tra il lavoratore disabile e il “gruppo” in cui si trova ad operare, che può condurre persino ad un’autopercezione di differenziazione che induce il lavoratore a staccarsi dalla rete di relazionalità, con un conseguente aggravamento della stima di sé, in termini negativi, della propria capacità produttiva e di innesto nei ritmi e nei tempi di lavoro altrui.
Il percorso, quindi, va individuato:
– nell’accesso all’occupazione e al lavoro, sia autonomo che dipendente, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione;
– nell’accesso a tutti i tipi e livelli di orientamento e formazione professionale, perfezionamento e riqualificazione professionale, inclusi i tirocini professionali;
– nel mantenimento dell’occupazione e delle condizioni di lavoro, compresi gli avanzamenti di carriera, la retribuzione e le condizioni del licenziamento, oltre che l’accoglienza sul luogo di lavoro.

Altro elemento che segnala situazioni di discriminazione è relativo alle donne con disabilità: una ricerca del 2003 curata da un progetto del Ministero del Lavoro realizzato dalla CK di Potenza, ha fatto emergere per tutte le regioni “obiettivo 1” una sostanziale scarsità degli avviamenti al lavoro di donne con disabilità (solo un terzo dei lavoratori con disabilità avviati è di sesso femminile).
La doppia discriminazione penalizza fortemente questa fascia di disoccupati, sommando pregiudizi di genere con quelli legati alla disabilità.

In tal senso, le buone prassi che si sono consolidate nel nostro Paese risiedono nei servizi di inserimento lavorativo (denominati SIL, SILD, SILUS, SAL ecc.) collocati all’interno del distretto sociosanitario territoriale e posti in relazione funzionale, istituzionalizzata o meno, ai Centri per l’Impiego.
In sintesi, le competenze psicosociali del servizio sociosanitario si integrano con quelle di promozione dell’occupazione e della mediazione lavorativa istituzionalmente preposta, costituendo l’embrione del progetto di inserimento professionale da offrire all’azienda.
I professionisti del servizio affrontano le caratteristiche che causano le difficoltà di inserimento, l’eventuale attribuzione di mansioni di minor prestigio, la relazionalità limitata o condizionata perché paternalistica e infantilizzante, l’intolleranza per i ritmi di lavoro ed eventuali soluzioni di sostegno o di  accompagnamento.


Più quantità che qualità
Da questo punto di vista la relazione al Parlamento sullo stato di attuazione della Legge 68/99 registra importanti e decisivi incrementi sul piano quantitativo: i servizi competenti passano dall’essere prerogativa di alcune province (Genova, Torino, Milano, Vicenza) all’espansione su interi territori regionali che raggiungono il Centro-Sud del Paese (l’Abruzzo).
Nei fatti, l’efficacia dei servizi all’impiego e i supporti al collocamento mirato fanno la differenza in termini di percentuale e di avviamenti andati a buon fine. Il fatto che il 92% degli inserimenti avvenga per chiamata nominativa conferma la validità dell’approccio dei servizi del collocamento mirato perché risulta più proficuo in quanto l’azienda, sulla base di un progetto di inserimento personalizzato, ha la possibilità di scegliere la persona più adatta alle mansioni previste.

Sotto l’aspetto qualitativo, pur considerando positivamente l’opera di alcune agenzie nazionali (Italialavoro per il Ministero del Lavoro e Tecnostruttura per la Conferenza dei Presidenti delle Regioni), si annotano discrepanze di procedure e linguaggi che variano enormemente di zona in zona.
Infatti il 45% dei servizi per l’impiego non svolge ancora alcuna parte attiva per l’inserimento mirato: molti servizi per l’impiego, in prevalenza al Sud, svolgono compiti meramente burocratici, con errori paradossali come indicare mansioni manuali ad una persona con spasticità.
Il primo segnale della qualità espressa in questi casi è nell’inaccessibilità degli uffici che ospitano i servizi per l’impiego.
In questo quadro, l’alto numero di avviamenti per chiamata nominativa rileva anche il rischio di inserire la persona “meno disabile”, escludendo i più gravi o le persone con disabilità intellettiva, ovvero quelle a maggior rischio di esclusione.
Questo produce inoltre la difficoltà di molte regioni nello spendere le risorse disponibili. Il Legislatore ha istituito le convenzioni di cui all’articolo 11 della Legge 68/99 come strumento efficace proprio per queste tipologie di disabilità e ha assegnato risorse a questo scopo. La mancanza di servizi di mediazione dei Centri per l’Impiego (cioè strutture adeguatamente professionalizzate, capaci di favorire l’avvicinamento tra domanda e offerta di lavoro) non consente di utilizzare soprattutto nel Sud dell’Italia (ma non solo) le risorse finanziarie della legge.

Altri nodi delle pratiche discriminatorie emergono infine dallo spostamento in mansioni residuali, dall’invisibilità nella programmazione e valutazione del lavoro, che si trasforma in pesante visibilità al momento di valutare le assenze (per cura, per riabilitazione) o la limitazione nell’autonomia e nella capacità di sostenere i ritmi degli altri.
Tutto ciò comporta inevitabile maggiore precarietà nella conservazione del rapporto di lavoro. Una nuova pratica di importazione europea, il disability manager, è fattore di interessanti risultati su questo terreno, tanto da meritare attenzione nell’evoluzione normativa possibile e nelle politiche attive, al pari dei servizi di inserimento lavorativo territoriali che possano garantire l’eguaglianza delle opportunità nell’accesso al lavoro.

Leggi europee e difficoltà italiane
A quasi due anni dall’approvazione del Decreto Legislativo 216/03 di attuazione della Direttiva europea 2000/78/CE scarsa sembra la sua applicazione. L’ancora modesto ricorso alle opportunità ammesse da questa legge sembra dovuto al recepimento parziale di tale Direttiva Europea, sia per l’accomodamento ragionevole, sia per l’inversione dell’onere della prova, assente nella normativa italiana.
A tal proposito va richiamato che il Decreto Legislativo 216/03 non ratifica alcuni elementi sostanziali dell’impostazione comunitaria, malcelando la difficoltà italiana di farsi contaminare di nuova cultura giuslavoristica e che questa prenda conseguentemente corpo in politiche attive.
La norma europea afferma infatti che è il Legislatore e non il datore di lavoro (come sembra suggerire l’interpretazione dell’articolo 3, comma 3, del Decreto Legislativo 216/2003) a dover indicare in quali casi si possa far eccezione al principio di non discriminazione.
Allo stesso modo va interpretata la connotazione della fattispecie fortemente oggettiva, che non lascia alcun margine di discrezionalità al datore di lavoro, circa l’idoneità del lavoratore ad essere assunto o a continuare a svolgere le mansioni affidategli.

Sempre sullo stesso piano, desta qualche perplessità la riforma di fatto dell’articolo 15 dello Statuto dei Lavoratori: per un verso la norma risulta più ampia grazie all’allargamento delle fattispecie in cui può determinarsi una discriminazione; dall’altro, se l’articolo 3, comma 3 del Decreto Legislativo 216/2003 si estende a tale norma, che non contemplava nessuna eccezione al principio di non discriminazione, ciò vuol dire che la tutela del lavoratore precedente all’introduzione del Decreto stesso era più ampia. Di conseguenza, risulta violato l’articolo 8 della Direttiva Europea.
Inoltre, da un punto di vista sistematico, il testo del Decreto di recepimento rischia di bloccare, anziché favorire, l’evoluzione della dottrina e della giurisprudenza nel senso di un divieto generalizzato e tassativo di discriminare. E ciò in palese contrasto non solo con l’articolo 3 della Costituzione, ma altresì con il Trattato Europeo e con la Carta di Nizza.

Quanto a norme che provocano chiare discriminazioni, l’articolo 14 del Decreto Legislativo 276/2003 (attuativo della Legge 30/2003) richiama la mercificazione della persona, nel senso che l’azienda – senza verificare le reali capacità lavorative del lavoratore con disabilità – si libera dello stesso affidandolo alla cooperativa, toglie la libertà di lavorare in un’impresa qualsiasi alla pari con altri dipendenti e restituisce un approccio segregante e paternalistico solidarista all’occupazione del lavoratore disabile che rievoca l’improduttività e l’inabilità.
A fronte quindi di una norma – la Legge 30 – centrata sull’anagrafe delle competenze anziché sulla composizione di graduatorie fondate sull’anzianità di iscrizione e sullo svantaggio socio-economico, si è inserito un elemento distorsivo per le sole persone con disabilità. Un duro colpo, questo, al quadro delle politiche europee e, nonostante gli sforzi del Ministero del Lavoro, un fallimento applicativo perché introduce una sorta di nuova tassa per le imprese, priva di evidenti vantaggi, se non il ricorso all’elusione della Legge 68/99.

Una recente ricerca sulle cooperative sociali di tipo b), realizzata dal progetto Equal “Albergo via dei matti n. 0, ha fatto emergere che attualmente questa tipologia di impresa è in crisi e l’idea di applicare l’articolo 14 del Decreto Legislativo 276/2003 risulta sostanzialmente impraticabile.
Va segnalato a tal proposito che l’indicazione emersa dalla stessa ricerca per sostenere le cooperative sociali di tipo b) dovrebbe basarsi su sostegni diversi, valorizzando le capacità di impresa (crediti agevolati, sostegni alla progettualità, qualificazione, aggiornamento dei lavoratori ecc.). Senza contare che in sede di applicazione dello stesso articolo 14 del Decreto Legislativo 276/03 si corre il rischio che il lavoratore possa ritenersi a ragione discriminato e ricorrere al Decreto Legislativo 216/03, avviando un contenzioso oneroso.


Concorsi pubblici, corsi di formazione e risorse

L’attuale normativa per i concorsi pubblici richiede che gli aspiranti alle procedure concorsuali debbano essere in possesso del diploma di licenza media. Alcuni alunni con disabilità  non conseguono apprendimenti formalizzati richiesti da una visione tradizionale dell’esame di licenza media, pur acquisendo informazioni e apprendimenti empirici che consentono loro di inserirsi positivamente nel mondo del lavoro.
In tale situazione diviene quindi necessaria una disposizione di legge che precisi l’ammissibilità ai pubblici concorsi di grado  meno elevato per i disabili in possesso dell’attestato di adempiuto obbligo scolastico, con la certificazione dei crediti formativi acquisiti.

Analogo problema si pone poi per l’accesso ai corsi di formazione professionale. Infatti, sia l’accordo Stato-Regioni per l’adempimento dell’obbligo scolastico nella scuola superiore tramite corsi di formazione professionale, sia tutte le intese tra il Ministero dell’Istruzione e le Regioni – in applicazione  dello stesso – richiedono, come condizione di ammissibilità, il possesso del diploma di licenza media.
Ora, occorre anche qui una norma, forse amministrativa o negoziale, che stabilisca essere sufficiente il possesso dell’attestato di adempiuto obbligo scolastico con la certificazione dei crediti formativi maturati, al fine  dell’ammissione ai corsi di formazione professionale.
Una norma simile esiste già per l’ammissione alle scuole superiori ed è contenuta nell’articolo 14, comma 5 dell’Ordinanza del Ministero dell’Istruzione  n. 90 del 2001. Se il MIUR ritiene valido l’attestato per l’accesso alle scuole superiori, onde garantire le pari opportunità agli alunni con disabilità, perché la formazione professionale dev’essere ancora più intransigente, con palese violazione del diritto alla formazione e conseguentemente al lavoro?

Un’ultima questione riguarda le risorse per il collocamento mirato. Il Fondo di cui al comma 4, articolo 13 della Legge 68/99, per il cui finanziamento è prevista la somma di â?¬ 30.987.414 per ogni anno, mira a sovvenzionare le iniziative di sostegno dei percorsi di inserimento lavorativo delle persone con disabilità.
Oltre alla consueta segnalazione del fatto che non è stato incrementato da almeno due anni, si evidenzia che la ripartizione tra le Regioni tiene conto dell’effettiva attuazione delle iniziative regionali in materia d’inserimento dei lavoratori disabili e dei risultati concretamente conseguiti.
Alcune Regioni non sono destinatarie di finanziamenti perché le risorse assegnate nelle precedenti annualità non sono ancora state programmate. Le persone con disabilità in quei territori subiscono quindi una beffa oltre all’ordinaria discriminazione: non hanno servizi né amministrazioni pubbliche in grado di programmarli e per questa ragione vengono penalizzati, non essendo destinatari della ripartizione per l’anno successivo.
Si fa presente che il Fondo in questione è istituito al fine di sostenere gli avviamenti delle persone con disabilità in situazione di gravità attraverso la fiscalizzazione degli oneri sociali per cinque anni. In tal modo il gap si divarica tra Nord e Sud, allontanando l’inserimento delle persone con disabilità più grave.Uomo di fronte a un computer

Alcune proposte
Lo spirito della legge è la costruzione di un percorso formativo mirato il cui sbocco è un inserimento guidato e ottimale tra il superamento o l’attenuazione della disabilità e la valorizzazione delle capacità e le potenzialità. Occorrono operatori e tecnici con una seria professionalità per un’obiettiva valutazione della disabilità e in grado di enfatizzare le potenzialità.
Ciò che serve è quindi un piano di azione nazionale concertato tra Ministero del Lavoro, Conferenza dei Presidenti delle Regioni, Unione delle Province d’Italia (UPI) ed associazioni, con l’obiettivo di:
1. perimetrare le attività dei servizi, definendoli come livello essenziale di prestazione di competenza rispettivamente sanitaria, sociale e lavorativa, affinché possano divenire un diritto esigibile per la persona con disabilità e un’opportunità per il datore di lavoro;
2. adottare una o più metodologie di monitoraggio delle tendenze nella gestione delle pari opportunità per i lavoratori disabili, a partire dall’adozione del disability manager;
3. costruire procedure condivise e utilizzate omogeneamente sul territorio nazionale, a partire dai servizi informativi ICT (Information & Communication Technology), attraverso l’utilizzo dell’ICF, la classificazione delle disabilità emanata nel 2003 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS);
4. identificare un’unica agenzia nazionale in grado di coordinare le politiche su un piano tecnico e tecnologico, un motore di ricerca in grado di offrire formazione competente e consulenza tecnica;
5. promuovere una campagna di informazione e sensibilizzazione nazionale diretta ai datori di lavoro, ai direttori delle risorse umane, ai consulenti del lavoro e ai rappresentanti delle RSU (Rappresentanze Sindacali Unitarie);
6. prestare una particolare attenzione alle donne con disabilità, incentivandone l’occupazione con specifiche misure di sostegno e tenendone conto, con politiche di mainstreaming, all’interno delle iniziative di sostegno all’occupazione al femminile, a partire dal Disegno di Legge C4742 a firma dell’onorevole Elena Cordoni ed altri che giace presso l’XI Commissione Lavoro della Camera dall’11 settembre 2004.

La pressoché totale assenza di politiche nazionali in materia non deve però costituire un alibi per le parti sociali, che non devono mai perdere di vista le relazioni industriali a livello nazionale, locale e aziendale.
Si tratta di un’opera su più dimensioni su cui devono convergere risorse di differente natura e che deve presupporre non solo un clima di sereno dialogo sociale, ma anche un forte rapporto con le organizzazioni della società civile, prevedendo una partecipazione istituzionale delle associazioni delle persone con disabilità e dei loro familiari.
Vanno quindi rilanciate le dinamiche nel mondo del lavoro:
il ruolo della contrattazione collettiva ai diversi livelli, anche rivedendo le forme di rappresentanza dei lavoratori disabili;
l’azione concertativa per politiche adeguate a sostenere il percorso lavorativo della persona con disabilità e ad incentivare gli impegni delle realtà aziendali tesi a riorganizzarsi per accogliere lavoratori con esigenze diverse.


Riprendere il cammino

La legge di riferimento, la 68 del 1999, a distanza di sei anni dalla sua approvazione si dimostra lungimirante e avanzata in molti suoi passaggi, nonostante l’opera di graduale svuotamento della sua valenza politica e culturale: non solo inadempienza amministrativa, ma tolleranza strategica dell’elusione fino all’adozione di provvedimenti persino inattuabili che deviano l’attenzione amplificando l’intenzione elusiva dello spirito della norma.
Non si possono far altro quindi che evidenziare quelle proposte di intervento del Legislatore tese alla ripresa del cammino verso la piena inclusione sociale delle persone con disabilità, a partire dai già citati Decreti Legislativi 276/2003 (articolo 14) e 216/2003 di ratifica della Direttiva 2000/78/CE.
Nella fattispecie, vista la sperimentalità di diciotto mesi dell’istituto, sancita dall’articolo 86 del Decreto Legislativo 276/2003, una volta sopraggiunta la scadenza nel marzo del 2005, si ritiene inderogabile che il Governo riferisca al Parlamento entro il mese di giugno 2005 circa gli scarsissimi risultati anche sul piano quantitativo, dimostrandone la completa inefficacia e procedendo altresì all’abrogazione, come previsto dallo stesso articolo 86.
In via subordinata – ed esclusivamente in assenza delle necessarie condizioni politiche – si ritiene indispensabile limitare l’efficacia del disposto dell’articolo 14 al 20% della quota di assunzioni obbligatorie, oltreché garantire al termine del periodo della convenzione che il disabile trovi la sua collocazione all’interno dell’impresa che ha provveduto al conferimento di commesse, oppure, a sua scelta, che resti in organico nella cooperativa, ma senza più assolvere al ruolo di copertura di quota di assunzioni obbligatorie dell’impresa fino a quel momento conferente.
Tra le condizioni di operabilità dell’articolo 14, va garantita infine la priorità nell’assegnazione delle commesse alle cooperative sociali che impiegano persone in situazione di gravità.
In assenza poi di istituti valutativi e abrogativi, è indispensabile correggere senza indugi anche il Decreto Legislativo 216/03: vi sono ricorsi presso la Commissione Europea, la Corte di Giustizia, e appelli al Parlamento di Strasburgo affinché la discrezionalità delle eccezioni al principio di non discriminazione sia eliminata dall’atto di ratifica nazionale.


Legge 68/99 e nodi da affrontare

Allo stesso tempo, la pratica, sia pure in condizioni ostili, ha posto in evidenza la necessità di affrontare alcuni nodi della stessa Legge 68/99 rispetto a procedure, liste del collocamento, Fondo e servizi, a partire dalla necessaria revisione originata dall’innovativo approccio della Direttiva 2000/78/CE:
1. Per quanto attiene ai certificati di ottemperanza o di richiesta di esoneri, riteniamo obbligatorio identificare con estrema chiarezza, anche attraverso modifiche normative, la responsabilità della funzione del controllo dell’azienda partecipante ad un appalto pubblico (articolo 17) e di quelle che, pur avendo fatto domanda di esonero parziale e non avendolo ancora ottenuto, hanno o meno provveduto all’assunzione dei lavoratori disabili.
2. Per la costituzione delle liste di collocamento mirato, sarebbe poi utile aggredire il tema delle persone con disabilità che sono costrette ad iscriversi unicamente al fine di percepire le forme previdenziali di carattere assistenziale.  Le persone con gravissime disabilità nei fatti non hanno le potenzialità per garantire produttività nelle mansioni lavorative. Ovviamente la loro iscrizione alle liste contribuisce solo all’ingrossamento del numero statistico dei disabili disoccupati.
3. Le caratteristiche della ripartizione del Fondo (Legge 68/99, articolo 13, comma 4) vanno rimodulate affinché si contempli contestualmente il principio di salvaguardia degli interessi dei soggetti doppiamente svantaggiati, perché risiedono in aree con maggiore carenza di servizi, e l’effetto premiante della capacità di investimento del singolo territorio. Ciò detto, vanno riservate quote del Fondo, possibilmente incrementato, destinate a sostenere lo sforzo dell’Agenzia Nazionale per il Coordinamento delle Politiche per l’Impiego delle Persone con Disabilità (vedi sopra), prioritariamente da effettuarsi in aree di svantaggio sociale.
4. In accordo con la Conferenza Unificata, si devono inserire i principi dei livelli essenziali di prestazione della materia giuslavoristica come sopra descritto, per garantire adeguati livelli qualitativi e quantitativi di servizi per l’inserimento mirato.

Autoimprenditorialità
A completamento dell’analisi e delle proposte, si ritiene inderogabile prendere in esame l’area dell’autoimprenditorialità delle persone con disabilità, ovvero la cooperazione sociale di tipo B, evitando di trasferire nelle categorie dell’obbligo, con un’operazione forzosa e fallimentare, ciò che invece attiene ad una mera opzione personale o, al limite, familiare.
Indubbiamente i princìpi che danno vita alla cooperazione sociale possono rappresentare un luogo più affine per la flessibilità del ciclo produttivo in termini di accoglienza delle criticità delle disabilità, specie le più gravi. Le norme di settore nazionali, infatti, suggellano l’atipicità imprenditoriale, garantendo fiscalizzazione degli oneri sociali dei soci-lavoratori svantaggiati, priorità nelle commesse pubbliche, e nella progettualità europea.
Allo stesso tempo, alcuni provvedimenti locali hanno tentato di sostenere la debole iniziativa imprenditoriale.
Secondo recenti studi, realizzati da Confcooperative, Legacoop e specifiche progettualità Equal (come già detto, “Albergo via dei matti n. 0”), la fragilità dimora in vari fattori intrecciati fra di loro: la debolezza dei soggetti che sfocia solo nella capacità produttiva di beni e servizi a basso costo ed altrettanta bassa redditività (ad esempio la produzione di ceramiche e manutenzione del verde pubblico), la conseguente mancanza di investimenti per l’attrazione di risorse umane portatrici di innovazione imprenditoriale e di know-how tecnici e tecnologici e l’atavica impossibilità di accedere a forme creditizie dignitose per poter creare i piani finanziari necessari.
In presenza delle criticità brevemente esposte, si rende necessario uno specifico piano di sostegno all’autimprenditorialità non casuale né forzoso. Anche se, parzialmente, di tali esigenze si è fatto interprete il solo Disegno di Legge 3060 a firma dei senatori Giuseppe Specchia, Michele Bonatesta e altri, che giace dal 6 agosto 2004 alla X Commissione.

Appare quindi assiomatico che solo attraverso un’ampia discussione nel Paese di politiche di incentivazione dell’autoimprenditorialità centrate sul dibattimento parlamentare di un provvedimento legislativo, si potrà ambire a sostenere la cooperazione sociale, facendo emergere le concrete esigenze di realtà produttive e non già una serie di tentazioni discriminatorie basate sul pregiudizio.

FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap)
Segreteria e sede operativa: Via Gino Capponi, 178, 00179 Roma
Tel. 06 78851262, fax 06 78140308, E-mail:
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