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La spesa sociale in Italia: 1990-2005

Guanto con un dito bucatoQuelli presentati qui di seguito, in forma discorsiva, sono alcuni interrogativi che meritano certamente approfondimenti, offerti come spunto di riflessione nell’ultimo paragrafo di questo studio:
– Ma non li avevano chiusi gli istituti per via dell'”integrazione”?
– Ai “nonni” pensano le badanti ucraine?
– Allora funziona l’assicurazione malattia per le casalinghe?
– I disoccupati prendono più soldi o sono aumentati?
– Finito l’incubo o la “pacchia” dei prepensionamenti?
– Sarà per via che si fanno pochi bambini?
– Meno infortuni, lavoro più a norma o solo più lavoro nero e illegale?
– Pensioni di guerra: sindrome irachena, balcanica? Uranio impoverito?
– Ma quanto “mi costa” ogni disabile che esiste in Italia?
Li riprenderemo tutti al termine del nostro percorso.

1. Preliminare: accessibilità reale dei documenti sui siti pubblici
Questo testo contiene cifre e osservazioni basate sul numero zero del Rapporto di monitoraggio sulle politiche sociali, curato dalla Direzione Generale per la Gestione del Fondo Nazionale per le Politiche Sociali e Monitoraggio della Spesa Sociale, pubblicato nel settembre 2005, alla cui stesura hanno contribuito funzionari ed esperti delle seguenti amministrazioni: Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali; Banca d’Italia; Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca; Presidenza del Consiglio dei Ministri; INPSIstat; Agenzia per i Servizi Sanitari Regionali.
Tale documento mira a fornire un contributo conoscitivo in tema di politiche sociali, basato su un approccio quantitativo e comprensivo dell’intero spettro di interventi oggetto delle politiche molto spesso settoriali, nella prospettiva della definizione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni Sociali (LEP), da garantirsi su tutto il territorio nazionale e della costruzione del Sistema Informativo dei Servizi Sociali (SISS). Oltre che sul sito del Ministero del Welfare, il rapporto è disponibile anche in www.edscuola.it/archivio/handicap/politichesociali_05.pdf.
Ebbene, il documento è online unicamente nel formato pdf della Adobe e questo è divenuto nei siti pubblici quasi uno standard di esposizione dei documenti sul web, per la sua facilità di riproduzione su carta.
Voglio perciò sollevare un problema, a partire proprio da tale documento e dalla mia interazione con esso.
Da disabile visivo, infatti, non avendo installato Adobe Reader, ho aperto il file con uno dei più popolari software di riconoscimento carattere OCR e precisamente Fine Reader. Qui nessun problema fino alle tabelle, risultate non solo incomprensibili nella loro struttura, ma anche poco affidabili nel contenuto: si parla di cifre, di soldi, di percentuali, di incidenze e gli errori di riconoscimento rischiano di falsare all’infinito elaborazioni e conclusioni, alla faccia dell’articolo 1 della Legge 4/2004 o “Legge Stanca” che trascrivo:
«1. La Repubblica riconosce e tutela il diritto di ogni persona ad accedere a tutte le fonti di informazione e ai relativi servizi, ivi compresi quelli che si articolano attraverso gli strumenti informatici e telematici. 2. È tutelato e garantito, in particolare, il diritto di accesso ai servizi informatici e telematici della pubblica amministrazione e ai servizi di pubblica utilità da parte delle persone disabili, in ottemperanza al principio di uguaglianza ai sensi dell’articolo 3 della Costituzione».
In realtà, io disabile non avrei potuto accedere ed utilizzare proprio quell'”informazione” che mi si garantisce per legge e per giunta su una materia che mi riguarda direttamente. Ma costava poi così tanto metterlo anche in normale html e magari pure in formato testuale, come appunto è normale nelle produzioni del tanto invocato WC3, di cui per inciso è membro anche la nostra Presidenza del Consiglio?
Se posso quindi pubblicare questo scritto, nonostante i gravi problemi di accessibilità, ciò è dovuto alla provvidenziale collaborazione di Chiara Bonanno, vera e propria “mamma di fuoco” del sociale, che mi ha trascritto e inviato per posta elettronica alcune tabelle e descritto la loro struttura, permettendomene di fatto la comprensione, riaggregazione e comparazione.Cavo per computer

Oltre che all’amica Chiara, voglio poi esprimere la mia gratitudine anche al team diretto da Sonia Prevedello, direttore generale del Fondo Nazionale delle Politiche Sociali del Ministero del Welfare, per aver redatto questo Rapporto, che considero uno strumento utile, se non addirittura indispensabile, di informazione e comprensione di cui da tempo ho letteralmente “urlato” in rete il bisogno urgente.
Questo contributo vuole essere uno sguardo panoramico sul mare (di denaro) che riguarda la spesa sociale, prologo di un’ulteriore esplorazione nel delta dei servizi socioassistenziali, alla scoperta delle paludi e dei canali degli enti di assistenza e di beneficenza, case di riposo, convitti, istituti per disabili ecc., oggetto di un prossimo studio.
La sincera gratitudine non esime per altro dall’evidenziare una lacuna abissale nel Rapporto, in parte discendente dalla sua impostazione (focus), in parte causata dalla scarsa collaborazione e interazione tra ambiti ministeriali, che produce indisponibilità di dati e di informazioni, a tutto svantaggio del governo dei problemi e che in questa sede viene evidenziata solo per chiarire che la spesa sociale cui si fa riferimento – compresi i suoi rapporti con altre grandezze – deve considerarsi approssimata per difetto, in quanto non prende in esame i conti di gestione di tutti soggetti erogatori dei servizi totalizzati.
In altre parole l’INPS, l’INAIL e le ASL hanno dei costi di gestione per mantenere un’organizzazione territoriale che vanno aggiunti alla spesa sociale – ancorché non considerati in questo Rapporto – dal quale risultano altresì omesse le redistribuzioni di reddito attuate tramite agevolazioni fiscali e tariffarie.
Sottolineo trattarsi di un grave buco di informazione e di conoscenza perché più dei due terzi della spesa sociale considerata si riferiscono a prestazioni monetarie (pensioni, assegni, sussidi, contributi, imborsi) che certo non possono essere tagliati, per cui la razionale e corretta, e di questi tempi anche parsimoniosa gestione del sistema, impone di monitorare e rendere più trasparenti i costi di gestione dei servizi perché è su quel piano che si gioca il recupero di competivitità e da quello dipende il livello qualitativo e quantitativo dell’offerta di servizi, ovvero il livello di economicità ed efficacia delle prestazioni e dei loro costi.

2. La spesa sociale in Italia nell’ultimo quindicennio
Se si assume il Prodotto Interno Lordo (PIL) come misura convenzionale della ricchezza prodotta in un anno in Italia, la spesa sociale sostenuta dal settore pubblico ha assorbito una quota compresa tra un quinto e un quarto della ricchezza complessiva prodotta, assestandosi, con i 304,860 miliardi di euro del 2003, al 22% dello stesso PIL.
Poiché la pressione fiscale complessiva si aggira intorno al 40% del PIL, bisogna subito dire che la spesa sociale considerata in questo rapporto assorbe più della metà degli introiti derivanti allo Stato e agli enti territoriali dalle tasse e dalle imposte dei cittadini. Se, come detto in precedenza, ad esso si sommano i costi di esercizio dell’INPS, dell’INAIL e delle ASL, nonché le altre partite non considerate nel rapporto, possiamo sicuramente concludere che lo Stato sociale assorbe circa i due terzi degli introiti del fisco.
Restano esclusi da questo Rapporto sia i finanziamenti di servizi sociali attraverso fondi e programmi CEE, sia il ricorso a fondi strutturali, nonché gli esborsi a carico degli utenti.
Se invece si assume il reddito pro capite come misura convenzionale della ricchezza individuale equamente distribuita, l’ammontare  complessivo della spesa sociale equivale al reddito pro capite di circa 13 milioni di italiani, il che significa che essa grava per circa 5.300 euro annui sul reddito pro capite di ogni italiano, ovvero, stante che i contribuenti costituiscono meno della metà della popolazione, per circa 12.000 euro all’anno su ciascun contribuente.
Se si considera il lasso temporale di una Legislatura, da un’elezione all’altra, la spesa sociale nel quinquennio corrisponde in pratica al Prodotto Interno Lordo di un intero anno. Allargando l’arco temporale, si può dire che nel quindicennio 1990-2003 essa ha assorbito ben 3.000 miliardi di euro – 6 milioni di miliardi delle vecchie lire – vale a dire il PIL di circa tre anni.
Nel Rapporto, poi, non viene analizzata la percentuale di spesa sanitaria finanziata con tributi regionali o con dotazioni dai bilanci regionali, ma anche lì è preponderante l’apporto dal bilancio statale.

Sul piano gestionale, invece, il sistema si articola su almeno tre livelli decisionali. Infatti, la modifica dell’articolo 117 della Costituzione nel 2001 ha trasferito alle Regioni la potestà esclusiva di legiferare in materia, prerogativa prima anche del Parlamento. Allo Stato centrale rimane solo un potere amministrativo di supporto e di indirizzo, di definizione dei livelli essenziali delle prestazioni, il minimo cioè che dev’essere garantito su tutto il territorio nazionale e che in realtà resta ancora da definire.
Le Regioni dunque legiferano in materia sanitaria e assistenziale e amministrano la spesa sanitaria attraverso le ASL, mentre ai Comuni è demandata dalla Legge 328/2000 l’amministrazione dei servizi assistenziali e territoriali.
Esiste quindi una “scollatura” tra chi detiene le risorse finanziarie (lo Stato), chi decide (le Regioni) e chi amministra (i Comuni), cui si fa fronte attraverso una macchinosa serie di trasferimenti dallo Stato verso le Regioni e i Comuni stessi.
Lo Stato, dal proprio bilancio, ripartisce e trasferisce alle Regioni il Fondo Sanitario Nazionale (FSN) e queste lo destinano alle ASL, aggiungendovi fondi provenienti da propri tributi e proprie dotazioni. Analogamente trasferisce il Fondo Nazionale per le Politiche Sociali, ripartendone una parte in un paio di tranche alle Regioni e destinando l’altra direttamente ai Comuni.
Appare a questo punto evidente che tale sistema di trasferimenti implica duplicazione di iter, adempimenti e procedure, difficoltà di programmazione degli interventi, incertezza nel poter assolvere agli impegni, fornendo una “botte di ferro” all’atavico scaricabarile.
Quando dicono «non ci sono soldi», «dovrebbero arrivare dei fondi», c’è da crederci e per questo è ancora più facile levarsi d’impaccio, manovrare cambi di destinazione, non portare a termine progetti.

A dimostrazione di ciò anticipiamo qui qualche considerazione sulla spesa socioassistenziale dei Comuni che costituisce il 15-20% di tutta la spesa degli stessi.
Nel 2003, essa, con i suoi 8 miliardi di euro (0,6 punti del PIL), ha assorbito meno del 3% della spesa sociale considerata nel Rapporto.
L’analisi prende in considerazione i certificati di bilancio dei Comuni, aggregando i dati relativi ai seguenti codici di spesa:
4165 Assistenza, beneficenza pubblica e servizi diversi alla persona, cresciuta del 28% dal 1999, che ha assorbito il 42% della spesa assistenziale complessiva dei Comuni: ovvero 3,4 miliardi di euro.
4075 Assistenza scolastica, trasporto, refezione e altri servizi, cresciuta dal 1999 solo del 7,5%, assorbendo un altro 30% (2,3 miliardi).
4155Asili nido, servizi per l’infanzia e per i minori (1,4 miliardi).
4160Strutture residenziali e di ricovero per anziani (771 milioni).
Circa il 15%, più di un miliardo, è a carico degli utenti dei servizi.
A finanziare il resto affluiscono:
– meno del 10% direttamente dallo Stato attraverso la quota di Fondo per le Politiche Sociali erogata direttamente ai Comuni;
– una quota ancora minore, sempre dal Fondo, ma dalla quota ripartita alle Regioni e da queste in parte ritrasferita poi ai Comuni;
– un altro 15% proveniente dai bilanci regionali;
– tributi e tasse comunali;
– finanziamenti del Fondo Sociale Europeo (FSE);
– finanziamenti da fondi strutturali CEE;
– finanziamenti da programmi regionali CEE.
Questi “spiccioli”, rispetto all’insieme della spesa sociale considerata, sono attivati e contabilizzati in più di 8.000 centri decisionali e attingono a una siffatta congerie di risorse finanziarie, di modelli e standard di riferimento, atti legislativi e amministrativi, ovvero una giungla quasi impossibile da controllare e monitorare, onde l’urgenza da un lato di definire standard minimi di livelli essenziali (LEP), garantiti su tutto il territorio e dall’altro di creare un sistema centralizzato per la raccolta di dati e il monitoraggio dei servizi sociali (SISS).
Forse è lecito malignare sull’importo di megacommesse per la realizzazione di quest’ultimo sistema perché credo che l’infrastruttura per gestire non solo il monitoraggio, ma anche la trasparenza e l’informazione ai cittadini, esistano già e si chiamino RUPA (Rete Unitaria della Pubblica Amministrazione). Senza dimenticare che siamo nell’era delle reti…
Dunque, da cittadino, spero presto di poter usufruire di tale sistema informativo e di monitoraggio della spesa sociale.

Tornando al rapporto sulla spesa sociale complessiva, essa è classificata secondo la procedura ESSPROS (European System of Integrated Social Protection Statistics) dell’ufficio statistica della CEE, l’Eurostat, nelle seguenti voci principali: malattia – invalidità – famiglia – vecchiaia – superstiti – disoccupazione – abitazione – esclusione sociale a fronte di situazioni varie (dalla tossicodipendenza all’alcolismo e all’indigenza).
Considerando la spesa per settore nel periodo 1990-2004, risulta che la quota più consistente è dedicata alla previdenza che ha assorbito dal 1990 al 1999 quote crescenti delle risorse disponibili e decrescenti negli ultimi due anni (65,8% nel 1990, 70,5% nel 1995, 69,5% nel 2000 e 67% nel 2004), attestandosi in media intorno ai 15 punti di PIL.
Persona con disabilitàLe prestazioni sanitarie hanno invece assorbito quote decrescenti di spesa fino al 1995 per poi aumentare nella seconda metà degli anni Novanta, arrivando a una quota di spesa del 25,7% nel 2004, assorbendo una quota di PIL intorno al 5,5%.
Per quanto poi concerne l’assistenza, essa ha registrato livelli stabili per tutto il periodo (7,7% nel 1990, 7,4% nel 1995 e 7,3 nel 2001), assestandosi circa all’1,7% del PIL e assorbendo nel quindicennio più di 200 miliardi di euro di cui oltre 20 nel solo 2003, mentre, come giustamente espresso da organizzazioni di disabili come la FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap), le condizioni delle persone con disabilità segnano un complessivo arretramento perfino rispetto alle epoche precedenti.
Si sottolinea in particolare che nel quindicennio considerato la spesa sociale è nominalmente più che raddoppiata, passando dai 146,447  miliardi di (equivalenti) euro del 1990 ai 304,860 del 2003 e questo è solo parzialmente compensato dall’incremento decrescente del reddito pro capite e dalla lievitazione generalizzata dei prezzi, in conseguenza del passaggio all’euro.
Si intende qui richiamare l’attenzione sul fatto che di per sé la maggiore disponibilità di risorse non si traduce automaticamente in un elevamento qualitativo e/o quantitativo delle prestazioni. Un classico esempio di ciò è costituito dalla Sicilia che nel 2005, a fronte di una spesa sanitaria tra le più alte d’Italia, ha consegnato alle cronache una serie impressionante di decessi ospedalieri colposi che quanto meno parlano di inefficienza negligenza, oltre che di degrado e fatiscenza di strutture, mezzi e risorse umane.
Dal punto di vista delle categorie dei rischi coperti, la quota più consistente di spesa è destinata ad assicurare gli eventi vecchiaia e superstiti. Queste due funzioni espresse sul totale della spesa hanno mostrato un trend crescente fino al 1997, anno in cui il rapporto è stato pari al 64,1%, e una successiva flessione fino al 2004, con un’incidenza del 61%.
Le quote di spesa riservate alle altre funzioni mostrano un andamento piuttosto stabile nell’arco di tutto il periodo.
Indipendentemente dai governi che si sono succeduti, le pensioni di vecchiaia e superstiti assorbono nella seconda parte del periodo quote decrescenti delle risorse complessive, a fronte invece di una popolazione la cui aspettativa di vita media è aumentata di più di tre anni nella stessa epoca, facendo registrare un numero crescente di anziani rispetto ai bambini, numero che si prevede triplo tra due generazioni, ovvero nel 2050.
Essendo quindi l’aritmetica degli interi una “scienza esatta”, ne consegue che molte più persone anziane vengono ricacciate nella fascia sociale a basso reddito, che cioè vive con meno di 900 euro al mese o anche al di sotto della cosiddetta “soglia di poverta” (meno di 700 euro), che tocca oggi il 12% della popolazione con circa 3 milioni di famiglie.Signora anziana con occhio bendato
Per converso cresce la spesa sanitaria che solo in piccola parte si traduce in aiuti monetari ai singoli, essendo per sua natura basata sull’erogazione di servizi spesso specialistici. “In soldoni”, pertanto, essa  si traduce in convenzioni, concessioni, appalti, forniture a vantaggio di soggetti economici come case farmaceutiche, elettromedicali, consulenti, fornitori di ausili per i disabili ecc. ecc.
Si può dire, per concludere, che ci sia stato un trasferimento di risorse dalle tasche dei pensionati all’economia di questo business.

3. Prospetto riassuntivo della spesa sociale nel 2003
Qui le cifre sono espresse in milioni di euro e si riferiscono al Bilancio Statale del 2003. L’aggregazione – come detto – è quella di Eurostat:

MALATTIA
Farmaci, assistenza medicospecialistica, assistenza ospedaliera, assistenza protesica e balneotermale, altri servizi sanitari: 75.694
Indennità di malattia e infortunio: 2.603 (2.094 nel 1990)
Sussidi: 184
TOTALE: 78.481 (40.899 nel 1990)

INVALIDITA’ (DISABILITA’)
Pensioni d’invalidità e rendite, trattamento base: 6.173 (4.118 nel 1990)
Eventuale integrazione: 1.072
Equo indennizzo: 19
Pensioni di guerra: 734 (657 nel 1990)
Pensioni a invalidi civili, ciechi e sordomuti, indennità a invalidi civili, ciechi e sordomuti: 11.595 (5.671 nel 1990)
Sussidi: 223 (230 nel 1990)
Servizi socioassistenziali (convitti, ricoveri): 675 (189 nel 1990)
TOTALE: 20.491 (11.675 nel 1990)

FAMIGLIA
Indennità di malattia: 2.146 (694 nel 1990)
Assegni familiari: 5.470 (3.908 nel 1990)
Altri sussidi e assegni: 1 (5 nel 1990)
Sussidi: 387 (147 nel 1990)
Assegno al terzo figlio e assegno di maternità concesso dai Comuni: 608
Servizi socioassistenziali (asili nido, colonie, convitti, assistenza domiciliare, case famiglia): 2.738 (1.091 nel 1990)
TOTALE: 11.348 (5.844 nel 1990)

VECCHIAIA
Pensioni di vecchiaia e di anzianità, trattamento base: 123.899 (52.652 nel 1990)
Integrazione: 21.528
Liquidazione di fine rapporto: 4.081 (2.294 nel 1990)
Liquidazioni in capitale: 470
Pensione sociale: 3.195 (1.639 nel 1990)
Sussidi: 63
Servizi socioassistenziali (case di riposo, convitti, ricoveri, assistenza domiciliare, case famiglia): 1.036 (676 nel 1990)
TOTALE: 154.272 (67.292 nel 1990)

SUPERSTITI
Pensioni ai superstiti, trattamento base: 28.160 (13.221 nel 1990)
Eventuale integrazione: 4.893
Pensioni di guerra ai superstiti: 554 (641 nel 1990)
Sussidi: 39
TOTALE: 33.646 (16.272 nel 1990)

DISOCCUPAZIONE
Prepensionamenti favoriti od obbligati: 1.343 (1.691 nel 1990)
Indennità di disoccupazione: 3.960 (1.448 nel 1990)
Assegno di integrazione salariale: 626 (1.071 nel 1990)
Servizi di assistenza alla disoccupazione (Uffici di Collocamento): 79
TOTALE: 6.008 (3.328 nel 1990)

ABITAZIONE
Sussidi per integrazione canone: 279
TOTALE: 279 (51 nel 1990)

ESCLUSIONE SOCIALE
Sussidi, reddito minimo d’inserimento: 140 (30 nel 1990)
Servizi socioassistenziali (convitti, ricoveri, mense, centri per alcolisti e tossicodipendenti, centri per profughi e immigrati, distribuzione viveri e vestiario): 195 (65 nel 1990)
TOTALE: 335 (86 nel 1990)

4. Considerazioni sull’andamento di alcune sottovoci
Confrontando i totali per le singole aree di spesa e tenendo conto del fatto che la spesa sociale è più che raddoppiata (108% rispetto al 1990), risulterebbe un considerevole aumento delle spese della funzione vecchiaia, in contraddizione con quanto dichiarato nel rapporto e qui riportato in precedenza.
Forse sarà il caso di attuare ulteriori approfondimenti, con particolare riguardo ai 169.000 anziani non autosufficienti ospitati in case di riposo e strutture residenziali, convenzionate e a pagamento.
Sono in proporzione aumentate anche le spese per l’abitazione e l’esclusione sociale; stabile la spesa sanitaria, per la famiglia e per i superstiti, in leggera flessione quelle per la disabilità e la disoccupazione.

E torniamo ai quesiti iniziali con cui avevamo aperto questa analisi. Essi si riferiscono all’andamento di alcune particolari sottovoci da cui comprendere nei fatti la reale valenza sociale accordata a tali bisogni e anche per capire se esista un decalage tra essa e gli enunciati, i discorsi, gli approcci degli operatori e degli utenti.

Ma non li avevano chiusi gli “istituti” per via dell'”integrazione?
Più che triplicata – rispetto al 1990 – è infatti la spesa per servizi socioassistenziali a favore dei disabili (convitti, ricoveri): esattamente 675 milioni di euro contro i 189 del 1990. In pratica l’ammontare dei finanziamenti per queste strutture nel 2003 è dello stesso ordine di grandezza dei contributi statali all’editoria tutta!
Quasi triplicata è anche la spesa per i servizi socioassistenziali a favore della famiglia (asili nido, colonie, convitti, assistenza domiciliare, case famiglia), passata da 1.091 a 2.738 milioni di euro e quella a favore dell’esclusione sociale (convitti, ricoveri, mense, centri per alcolisti e tossicodipendenti, centri per profughi e immigrati, distribuzione viveri e vestiario): da 65 a 195 milioni di euro

Ai “nonni” pensano le badanti ucraine?
Meno che raddoppiata è la spesa per questo tipo di servizi socioassistenziali (case di riposo, convitti, ricoveri, assistenza domiciliare, case famiglia):  1.036 milioni di euro (676 nel 1990).
Abbiamo anche visto che, a livello dei Comuni, il codice di spesa 4160, Strutture residenziali e di ricovero per anziani (771 milioni) era buon “fanalino di coda” con meno dell’8% del totale.

Allora funziona l’assicurazione malattia per le casalinghe?
Più che triplicata, nella voce famiglia, è la spesa sociale di tipo previdenziale, cioè assicurativo, per indennità di malattia: 2.146 milioni di euro (694 nel 1990). 

I disoccupati prendono più soldi o sono aumentati?
Aumentata del 160% è la spesa per l’indennità di disoccupazione: 3.960 milioni di euro contro i 1.448 del 1990. Lasciata poi alle spalle la “cassa integrazione”, l’assegno di integrazione salariale dà un totale di 626 milioni di euro (1.071 nel 1990). 

Finito l’incubo o la “pacchia” dei prepensionamenti?
La cifra relativa ai prepensionamenti favoriti od obbligati (prepensionamenti per motivi legati alle politiche del mercato del lavoro) è nel 2003 di 1.343 milioni di euro (1.691 nel 1990).

Sarà per via che si fanno pochi bambini?
In quindici anni sono aumentati solo del 50% gli assegni familiari: 5.470 milioni di euro, contro i 3.908 del 1990. 

Meno infortuni, lavoro più a norma o solo più lavoro nero e illegale?
Le indennità di malattia e infortunio vanno a 2.603 milioni di euro (2.094 nel 1990).

Pensioni di guerra: sindrome irachena, balcanica? Uranio impoverito?
A sessantun anni dallo sbarco in Normandia e a ottantasei da Vittorio Veneto è lecito attendersi un andamento decrescente della spesa per le pensioni di guerra, come del resto è confermato alla voce superstiti.
Tale andamento decrescente appare evidente nei primi anni Novanta, ma subisce un’improvvisa impennata nel 1994, in contemporanea con la missione italiana in Somalia, mantenendosi poi all’incirca agli stessi livelli fino al 1997 e scendendo quindi a  toccare il minimo nel 2000 – quando si è sotto perfino del 20%, rispetto al 1990 – per poi risalire progressivamente nei tre anni successivi, aumentando di 200 milioni.
Se si considerano tuttavia i tempi delle cause di servizio e per il riconoscimento della pensione – solitamente qualche anno – si deve concludere che l’impennata 1994-97 sia effetto della Prima Guerra del Golfo, oltre che della missione in Somalia e in Bosnia. Questo spiegherebbe anche la crescita dal 2001, effetto della guerra del Kosovo e poi in Afghanistan.
In ogni caso, dato il numero piuttosto esiguo di militari impegnati (al massimo 10.000), vien da chiedersi come facciano a incidere sulla spesa pensionistica, inducendola a lievitare di un quarto in tre anni (734 milioni di euro, contro i 657 del 1990 e i 540 del 2000).
Si è letto di “sindrome irachena” che avrebbe colpito 20.000 militari nella Prima Guerra del Golfo, si è sussurrato di benzene e di uranio impoverito. Sarebbe forse il caso di approfondire.

Ma quanto “mi costa” ogni disabile che esiste in Italia?
Dividendo i 20 miliardi di euro conteggiati per la disabilità nel Rapporto preso in esame per i 2,8 milioni di disabili censiti, si ottiene che la spesa analizzata incide per 7.000 euro annui per ogni persona disabile.
A questa, però, bisogna aggiungere:
– gli stipendi per 80.000 insegnanti di sostegno, tra l’altro del tutto insufficienti allo stato attuale;
– parte delle 235.000 entità no-profit, da cui dipendono circa 500.000 retribuiti e 3,5 milioni di volontari, una presenza massiccia nel campo della disabilità.
Esiste altresì un mondo profit che “si alimenta” sui disabili: tutto il settore delle forniture speciali, protesi, ausili, tecnologie assistive, per finire con le badanti – extracomunitarie o meno – gli autisti accompagnatori, le autoambulanze eccetera, fino agli interventi di messa in sicurezza e ai sensi della Legge 104/92.
A tale riguardo un utile riferimento è il testo intitolato Costruire l’autonomia, di Carlo Giacobini, nella rivista «Mobilità» (n. 41).
Su tale “indotto” della disabilità qualcuno ha calcolato che in Italia sono occupate per ogni disabile quasi due persone (1,7) e qualcun altro ha stimato che a Bologna il rapporto sale a 2,5 lavoratori per disabile.

Con il medesimo spirito del presente scritto, tenterò in seguito di esplorare questo che ho definito il delta, per far emergere intanto  la “scala di priorità” cui di fatto nella pratica si opera e verificarne l’aderenza o meno alla sensibilità e alle scelte politiche, nonché tentare una macroscopica mappatura dei flussi economici e finanziari che la sottendono.
In assenza di conclusioni, chiudo quindi su questo: preludio e apertura della prossima puntata.

*Con la collaborazione di Chiara Bonanno.

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