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Preparazione clinica o cinica?

Assistenza a bambino con disabilitàUn po’ in tutta Italia, in questi ultimi mesi, è in corso – in genere a livello di distretto sociosanitario – una rielaborazione dei servizi dedicati alle persone con disabilità. Al solito i servizi prestati sono molto disomogenei sul territorio, in alcune zone sono quasi inesistenti, in altre raggiungono livelli lodevoli, almeno sul piano concettuale.
Le famiglie con disabilità guardano con disincantata aspettativa a queste novità: in passato, infatti, troppo spesso, dopo il gran parlare degli addetti ai lavori e l’impiego di fondi anche rilevanti, il risultato utile e concreto per le famiglie è stato assai scarso.

Ma per quanto disincantata, l’aspettativa, generata dall’assoluta necessità di provvedere nel migliore dei modi possibile alle esigenze “dei più gravi”, permane elevata.
Si ha tuttavia la percezione che chi tratta il problema a livello legislativo e applicativo talvolta non conosca bene la realtà sulla quale intende incidere.
Un esempio? Il problema del cosiddetto “sollievo”.

Per “sollievo” si intende il proposito di alleviare, nei momenti di necessità assoluta o di maggior carico assistenziale e psicologico, la famiglia che attraversa un momento di eccessiva usura.
La risposta prevista è l’accoglienza della persona con disabilità grave in una struttura accreditata. Accoglienza naturalmente provvisoria, ma non priva di rischi sia per la persona che per la sua famiglia.
Talvolta una soluzione del genere è effettivamente l’unica possibile, ma le nostre famiglie preferirebbero essere aiutate a non raggiungere pericolosi livelli di crisi da usura assistenziale anziché essere aiutate a superarli.

E quante strutture accreditate sono davvero in grado di accogliere un disabile grave con lo stesso livello di assistenza e di umanità paragonabile a quello della famiglia? Temo nessuna.
Quali implicazioni psicologiche per una persona abituata – malgrado i suoi deficit motori, sensoriali e relazionali – a far parte di un mondo umano ricco e complesso, nel trovarsi immerso in una realtà vagamente segregazionale, ove il personale se ne occupa nei limiti del rapporto numerico operatori/pazienti?
E a “fine sollievo” la famiglia non si vedrà poi costretta ad un’azione, improba e improbabile, di recupero di quanto è andato perso nel breve soggiorno in una struttura?

Non ci stanchiamo di ripeterlo: non sarebbe meglio – ricordando che il congiunto disabile grave è sentito dalle nostre famiglie come elemento di forte coesione e come motivazione esistenziale – potenziare al massimo l’aiuto alla famiglia prima della crisi? Migliorare la qualità e l’intensità dell’assistenza domiciliare, eliminare le pastoie burocratiche che sottraggono tempo ed energie?
Detto in termini crudi: meno politica, meno “foraggio” al sistema, meno elemosine, più servizi, domiciliari e di qualità. Per quanto poi riguarda le necessità assolute di ospitalità breve “fuori casa”: strutture piccole, vicine alle famiglie, aperte, conrollabili.

Quanto detto, chiaramente, non esclude che esista la “buona politica”, che vi siano anche degli “addetti ai lavori” con una solida preparazione (possibilmente non cinica*) sul campo, che talvolta vengano consultate anche le famiglie. Ma purtroppo non accade spesso.

*Il termine cinica non è frutto di un errore di battuta. Intendiamo proprio “cinica” e non “clinica”. La “preparazione cinica”, che può essere anche di notevole spessore, è quella che porta a considerare la realtà come immutabile, del tipo: «Sei e resti disabile. Tutte le chiacchiere che facciamo intorno a te servono solo a far passare il tempo e possibilmente a ricevere qualche soldo in più»…

**Federazione Italiana ABC (Associazione Bambini Cerebrolesi).

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