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La mente è come un paracadute

Bambini kenyani in carrozzina«Perché non vieni in Kenya con me? Conosco una suora che gestisce un centro per bambini disabili…». «E perché no?»…
Così è iniziata la nostra avventura e, quasi senza accorgercene, dopo qualche mese eravamo già immersi nei caldi colori dell’Africa, circondati da paesaggi affascinanti, meravigliosi, ma allo stesso tempo pieni di povertà. Immagini che ci trasmettevano gioia e serenità, ma che contemporaneamente ci facevano provare rabbia e impotenza.
Dopo una prima notte ospiti delle Sorelle di Nairobi, abbiamo raggiunto il Centro di Riabilitazione per Bambini Disabili di Ol’Kalou, dove siamo rimasti per più di due settimane. Qui abbiamo incontrato Sister Stefana, responsabile del Centro, che ci ha fatto conoscere i bambini, presentato la struttura e tutte le figure che vi lavorano (le altre sister, i terapisti, l’infermiera, le volontarie, i tecnici ortopedici, i meccanici, gli autisti e i giardinieri).

Il Centro di Ol’Kalou
The Disabled Children’s Home è un centro gestito da un gruppo di suore (le Piccole Figlie di San Giuseppe) che accoglie circa 180 bambini di età compresa tra i due e i diciotto anni.
Questi piccoli pazienti sono affetti da patologie quali paralisi cerebrali infantili, osteoartriti e osteomieliti e presentano di volta in volta deformità congenite, amputazioni ed esiti di poliomielite. Ci siamo trovati però di fronte anche a casi molto complessi, con caratteristiche non riconducibili ad alcuna delle patologie conosciute in Italia.
In questo Centro i bambini vengono ospitati per tutto l’arco di tempo necessario alla riabilitazione, un’organizzazione, questa, che li tiene lontani dalla famiglia, dal loro villaggio per anni (generalmente due, per un semplice problema di piede torto…), ma che al contempo offre loro un letto, dei pasti regolari, dei vestiti, un’assistenza infermieristica e la possibilità di andare a scuola, che si trova all’interno dello stesso Centro e che è aperta anche ai bambini dei villaggi vicini.
Inoltre, offre loro un ambiente accogliente in cui si sentono accettati nonostante la disabilità, coinvolti nelle varie attività ludiche e sportive organizzate dal Centro e capaci di fare e di essere anche d’aiuto a chi è più in difficoltà.
Una giornata al mese viene poi dedicata all’incontro con i genitori e questo è sempre un momento molto atteso dai bambini.

La presa in carico dei bambini
La presa in carico avviene attraverso una prima valutazione da parte dei terapisti locali (su dieci solo due sono regolarmente diplomati a Nairobi, gli altri sono stati formati da suore infermiere o da terapiste italiane missionarie). Questi ultimi selezionano i bambini che dovranno essere visitati dai medici dell’équipe di Genova che ogni anno, in gennaio e febbraio, si recano in Kenya per valutare e decidere quali casi sottoporre a interventi chirurgici, per effettuare gli interventi programmati e per dare indicazioni riguardo alla fisioterapia.
Bambina del Kenya senza gambeAd Ol’Kalou è presente anche un laboratorio dove dei tecnici ortopedici realizzano all’occorrenza e con tempismo ausili, protesi e ortesi per i bambini. Il materiale utilizzato non è specializzato, soprattutto quello usato per le ortesi, che le rendono poco confortevoli, ma le soluzioni trovate sono a volte davvero sorprendenti!
Un aspetto della riabilitazione cui viene data importanza riguarda il fatto che ad Ol’Kalou, per il successo della fisioterapia, si favorisce il coinvolgimento dei genitori nel percorso riabilitativo e per questo vengono programmati con loro degli incontri nei quali vengono illustrati gli obiettivi raggiunti e quelli da conseguire e viene comunicata l’importanza che il proprio figlio esegua gli esercizi nel periodo in cui torna a casa per le vacanze o quando viene dimesso dal Centro.
Dopo la dimissione, il bambino, con scadenze stabilite, ha la possibilità di tornare nella struttura per dei controlli.

Una cultura diversa
Ad Ol’Kalou lo spazio dedicato alla fisioterapia si compone di due palestre e di una stanza in cui vengono svolte le terapie fisiche e le valutazioni dei pazienti esterni.
Ciò che più ci ha colpito nell’arco della prima giornata trascorsa nelle due palestre è stata l’assenza del gioco nelle proposte riabilitative fatte ai bambini. I trattamenti, infatti, si basavano principalmente su manovre di allungamento muscolare, su esercizi di rinforzo e sul riavvio al cammino attraverso proposte che non tenevano a volte molto in considerazione i bisogni dei bambini.
Bambina del Kenya in carrozzinaLe palestre erano sempre molto affollate: spesso il terapista vi portava più di un bambino contemporaneamente, senza riuscire ad  organizzare adeguatamente il tempo da dedicare al trattamento di ciascuno.
La prima cosa che avremmo voluto fare appena entrati in contatto con questa realtà era di stravolgerla e di portare al suo interno le nostre conoscenze, i nostri ritmi, la nostra mentalità… Abbiamo così cominciato a tenere delle piccole “lezioni” sulla lombalgia e a preparare del materiale scritto sul trattamento dei bambini con paralisi cerebrale infantile. Ma ci siamo presto resi conto che non era certo questo il modo più corretto per instaurare con i terapisti del luogo una collaborazione costruttiva: ci trovavamo di fronte a una cultura diversa, una cultura che dovevamo imparare a conoscere e soprattutto a rispettare.
Il tempo che avevamo a disposizione per restare con loro era poco, abbiamo quindi messo da parte le nostre mille idee e abbiamo affiancato i terapisti locali durante le terapie, aiutandoci a vicenda nel capire e impostare il trattamento.
Questa realtà ci trasmetteva stupore, incredulità. Bambini che non si lamentano mai della monotonia e a volte anche del dolore causato dai trattamenti. Faceva tutto parte dell’opportunità che veniva data loro di tornare a casa con qualche abilità in più!

La mente è come un paracadute
I terapisti del Centro di Ol’Kalou, a differenza di quelli italiani, erano in grado di realizzare e sostituire i gessi che i bambini dovevano indossare dopo interventi ai piedi torti o in caso di allungamenti muscolari resi necessari da situazioni di paralisi cerebrali infantili. Erano molto abili nel confezionare questi gessi, e puntuali nel rimuoverli o sostituirli, manovre insegnate loro dai medici della già citata équipe di Genova che ogni anno si reca in Kenya.
Rapida ed efficace era poi la collaborazione con i tecnici ortopedici che, nel laboratorio situato vicino alle due palestre, realizzavano con prontezza ortesi, ausili e protesi, a seconda delle diverse necessità. In tal modo molti di quei bambini riuscivano a raggiungere un’autonomia seppur grossolana negli spostamenti.
«La mente è come un paracadute: se non si apre non funziona»: è proprio questo lo spirito che si deve avere quando si va nei Paesi in via di sviluppo, perché solo così si può essere veramente d’aiuto a queste popolazioni e tornare sorpresi di aver ricevuto forse più di quanto si credeva di aver donato!Peter e la sua matita
Bambino del Kenya si appoggia da un ausilio rudimentaleUna mattina ci venne chiesto di partire assieme a Suor Margharet per accompagnare Peter, un bambino di sei anni, presso l’ospedale di North Kinanghop, dove avrebbe dovuto essere sottoposto ad un intervento chirurgico eseguito da un medico olandese.
Peter era partito per rimanere ricoverato un mese in ospedale, da solo. Aveva con sé soltanto una piccola matita che teneva stretta in una mano, nessuna borsa con vestiti, giocattoli o qualcosa da mangiare… Avrebbe indossato la stessa maglietta e gli stessi pantaloncini per un mese intero.
Era difficile comunicare con lui perché non capiva l’inglese e così non siamo riusciti a rassicurarlo come ci veniva spontaneo fare in una situazione così triste e ogni volta che incrociavamo il suo sguardo era come se dentro di noi si aprisse una voragine. Ma ciò che più ci sbalordiva era che nemmeno Suor Margharet, che riusciva a farsi capire da lui, si preoccupava di tranquillizzarlo.
Il viaggio è durato due ore e quando siamo arrivati, sono stati i drivers ad accompagnarlo a fare gli esami del sangue e le radiografie.
Al momento del ricovero gli hanno consegnato una bacinella e un sacchetto con dentro un asciugamano, un rotolo di carta igienica e un bicchiere di plastica e con queste cose un’infermiera l’ha accompagnato nella sua stanza, una camerata composta da sei letti.

Non sarà un “diverso”
Appena entrati, Peter si è diretto verso l’unico letto libero e resosi conto che era arrivato il momento di salutarci, ha iniziato a piangere, un pianto silenzioso; cercava di trattenere le lacrime come se piangere fosse segno di debolezza. Lo abbiamo lasciato lì con la speranza che le mamme e i bambini dei letti vicini lo accogliessero e non lo facessero sentire solo.
È difficile di fronte a una situazione come questa non provare rabbia, impotenza e una profonda tristezza. Soprattutto è impossibile non fare i confronti con la realtà italiana, dove si parla e si ricerca tanto la “presa in carico globale del paziente”. Ma è proprio qui che si sbaglia, nel momento stesso, cioè, in cui si fa questo confronto! Perché se si osserva la storia di Peter da un altro punto di vista, da quello africano, si può arrivare a capire che in fondo anche il suo problema è stato preso in considerazione “in maniera globale”. Dopotutto, in seguito all’operazione (si trattava di un intervento di scollamento del braccio dal torace), Peter potrà tornare nel suo villaggio, giocare con gli altri bambini ed essere d’aiuto nel lavoro dei campi, senza essere considerato “diverso” e per questo rischiare di essere trascurato.

L’importanza della comunità
L’ultima settimana della nostra permanenza in Kenya l’abbiamo trascorsa a Nyahururu presso il Saint Martin Centre. «Il Saint Martin nasce dalle persone, è per le persone e continua con le persone»: questo il motto di tale organizzazione d’ispirazione religiosa che opera cercando di coinvolgere l’intera comunità.
Bambina del Kenya con stampelleTutti i progetti partono dalle comunità cristiane e sono gestiti da comitati che le rappresentano. In questo modo è la comunità stessa che si fa carico dei bisogni dei suoi membri, attraverso i mezzi di cui dispone. La comunità viene infatti stimolata, formata, incoraggiata e sostenuta affinché si prenda cura dei suoi soggetti più vulnerabili e cerchi, al proprio interno, di trovare le soluzioni più adeguate. Tutto questo è reso possibile grazie al servizio gratuito di più di seicento volontari che, sparsi sul territorio, mettono a disposizione tempo, risorse, esperienza e formazione.
Gran parte di quella settimana l’abbiamo trascorsa, ad esempio, assieme a Luca, fisioterapista italiano, che con la sua famiglia ha deciso di vivere e lavorare lì per un paio d’anni.
Con la sua grande professionalità, ma soprattutto con la sua freschezza e la sua gioia, tutti i giorni Luca ci ha scarrozzato con la jeep, assieme a volontari del Centro istruiti all’attività rieducativa, fino a raggiungere zone lontanissime ed estremamente affascinanti.
Lì lo aspettava sempre qualche volontario del Saint Martin che organizzava in luoghi insoliti (capanne, chiese, prati) delle visite per valutazioni, controlli o consulenze su persone, soprattutto bambini, portatori di handicap, per lo più gravi.
Lì venivano raccolti i dati della persona e distribuiti consigli alla famiglia su come operare per affrontare la patologia, anche con l’aiuto di ausili costituiti da materiale povero, cercando cioè di utilizzare le risorse che si possono facilmente trovare, come il legno, il cuoio, le pelli o pezzi di biciclette vecchie…

L’applicazione dei terapisti locali
Alle volte – nei nostri viaggi insieme ai volontari del Saint Martin Centre di Nyahururu – la parte più difficile del lavoro era proprio quella di riuscire a trovare il villaggio, la capanna, spesso ubicati in luoghi sperduti e senza punti di riferimento.
Lì abbiamo potuto vedere persone colpite dalle più svariate e talora insolite patologie: paralisi cerebrali infantili, poliomieliti, esiti molto gravi di ustioni, distrofie muscolari, malformazioni congenite, tumori, amputazioni, osteomieliti.
L’obiettivo del progetto condotto dal Saint Martin – vista anche l’impossibilità di impostare un trattamento riabilitativo costante nel tempo – è proprio quello di dare alla comunità di appartenenza la formazione e gli strumenti per occuparsi delle persone con disabilità.
Particolarmente importante, poi, è garantire la formazione dei fisioterapisti locali. Per questo motivo, in alcune mattinate riservate all’insegnamento, ci è stato chiesto, nell’ambito dell’attività di formazione della UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare) di Padova, di illustrare le malattie neuromuscolari attraverso una parte teorica e una più ampia e molto apprezzata parte pratica, alla quale i terapisti locali si sono molto interessati, dimostrando grande applicazione.

Un grande insegnamento
La nostra “avventura” si conclude qui. Abbiamo conosciuto persone straordinarie che vivono esclusivamente al servizio degli altri, gratuitamente, e persone povere che amano la vita solo perché è bella. «How are you?», «Come stai?», chiedevamo a tutte le persone, quando le incontravamo. «Very fine, thank you», «Molto bene, grazie», ci sentivamo rispondere sempre, anche da persone veramente disperate, ammalate o con dolori o situazioni personali e familiari allucinanti.
E con questo grande insegnamento siamo tornati a casa, salutando e ringraziando Sister Stefana, Sister Norberta, K’ngori, David, Blessi, Susan, Tabida, Luca, Laura e i loro meravigliosi figli, Claudia, Laura, don Gabriele, don Raffaele, don Mariano, Sister Ida e tutti gli altri. Con un abbraccio particolare al “piccolo grande” Peter e alla sua matita… 

*Fisioterapisti della UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare) di Padova. Testo tratto dai numeri 159, 160 e 161 di «DM», periodico nazionale della UILDM e qui riprodotto, per gentile concessione di tale testata.

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