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Quando Arthur Miller rifiutò il figlio Down

Un'immagine giovanile di Arthur Miller«Una storia vecchia e sconcertante, che dimostra tutti i suoi quaranta e più anni, ma che già allora, in pieni anni Sessanta, con un po’ di coraggio in più avrebbe potuto prendere una piega diversa».
Commenta così, Giuseppe Cutrera, presidente dell’AIPD (Associazione Italiana Persone Down, le rivelazioni sulla vita privata del celebre scrittore e commediografo americano Arthur Miller, morto nel febbraio del 2005.
La storia è quella del figlio “segreto” che Miller ebbe dalla terza moglie, la fotografa austriaca Inge Morath, sposata dopo il divorzio da Marilyn Monroe: un bambino – Daniel – con sindrome di Down, che lo scrittore ha sempre rifiutato, facendolo rinchiudere in un istituto e negandone perfino l’esistenza. Non andò mai a trovarlo, né lo menzionò nel necrologio della moglie, per poi incontrarlo, solo in un’occasione, durante un dibattito pubblico organizzato da un’associazione di persone con disabilità.
Oggi Daniel è un uomo di più di quarant’anni e dal padre che lo aveva sempre rifiutato ha avuto solo un riconoscimento postumo, quello del testamento: c’è anche lui, infatti, fra coloro che ne erediteranno il patrimonio, e lo Stato americano del Connecticut (che in questi anni ha assistito gratuitamente Daniel come se fosse povero) è già in fila per ottenere un risarcimento.

«Si tratta di una storia sconcertante che racconta in tutta la sua essenza l’amara realtà dei decenni passati, quando opinione dominante era che la presenza delle persone Down costituisse un marchio di infamia per le famiglie e dunque andasse accuratamente nascosta», argomenta Cutrera. «Un atteggiamento che con il tempo è cambiato anche e soprattutto grazie alla cura e alla passione delle mamme: sono loro che a partire dalle rispettive storie private hanno contribuito a far comprendere a tutti che bisognasse comportarsi in modo diverso».

Bambino con la sindrome di DownPer capire meglio la vicenda, non si può prescindere, secondo il presidente dell’AIPD, dal valutare i progressi compiuti dalla medicina in questi decenni, che hanno contribuito a far lievitare l’aspettativa di vita delle persone Down dai 12 anni degli anni Quaranta del Novecento fino ai 62 dei nostri giorni, con tendenza a crescere: «Si è capito con il tempo che le persone Down sono portatrici di enormi potenzialità e che, se supportati al meglio attraverso l’educazione della famiglia, sono in grado di raggiungere mete inimmaginabili. E allora non solo non devono essere nascosti, ma vanno messi in vetrina, perché lo meritano e perché la società civile deve ancora di più abituarsi a guardarli con simpatia e sorriso, e non con atteggiamenti cupi e tristi».

Dunque, la famiglia come luogo principale di cura e affetto. «Miller formulò ipotesi, espresse dei giudizi e credette di difendere la propria famiglia allontanando il figlio Down. Ma ragionò e agì sulla base di ipotesi false, perché mancava di una storia. Invece, nelle famiglie in cui è presente una persona Down – secondo Cutrera – accade spesso il contrario, e cioè che non solo non si avverta alcun disagio ad avere un figlio o un fratello o una sorella Down, ma che questo sia avvertito come un punto di onore e di orgoglio. La mia esperienza personale di padre di un bambino Down è proprio questa: con mia moglie ci siamo spesso preoccupati che l’altra nostra figlia non soffrisse, ma col tempo ci siamo resi conto che si trattava di una preoccupazione inutile, perché lei provava nei confronti del fratello un amore infinito. Capita molto spesso tra fratelli e sorelle, al punto che nella nostra associazione è sorto perfino un gruppo costituito solo da fratelli e sorelle di persone con sindrome di Down, che avevano la nuda necessità di condividere una parte così importante della loro esperienza familiare».

Naturalmente, nella condizione delle persone Down le difficoltà ci sono e non vanno nascoste: «Il problema – afferma Cutrera – esiste certamente, loro sono portatori di una disabilità che si caratterizza con ritardo mentale e negarla sarebbe controproducente. Come tutti, neppure i Down sono fatti con lo stampino e si commette un errore a pensarli come tutti uguali. Sono uguali per il loro cromosoma in più, ma le potenzialità, il carattere, il modo di essere sono diversi in ciascuno. Fondamentale è il ruolo della famiglia, ma altrettanto lo è quello della società intera: il nostro appello è alla scuola perché sia un esempio di integrazione, aiutando ciascuno di loro a scoprire le proprie potenzialità, e al mondo del lavoro, perché gli inserimenti lavorativi mirati delle persone Down sono possibili e devono essere ricercati attivamente».
Foto di Luca Nizzoli (per gentile concessione dell'AGPD - Associazione Genitori e Persone con Sindrome di Down)Un investimento, quello lavorativo, che assicura autonomia economica e che risulta fondamentale sul lungo periodo, quello caratterizzato dal cosiddetto “dopo di noi”, successivo cioè alla perdita dei genitori.
«Come padri vorremmo vivere mille anni, essere immortali, per poter seguire sempre i nostri figli. Ma oggi, in via generale, per le persone Down ci sono buoni motivi per sperare che il futuro non riservi tristi sorprese».

Per chi nasce Down, dunque, non c’è più da disperarsi. Eppure la paura è ancora tanta, come dimostra il recente caso di cronaca avvenuto a Milano, dove ad una madre in attesa di due gemelli – uno sano e uno con sindrome di Down – è stato praticato per errore l’aborto selettivo sul bambino sano, e anche l’altro poi ha avuto la stessa sorte [sulla vicenda il nostro sito ha pubblicato la nota di Giorgio Genta, intitolata Meglio tenere l’ombrello aperto, N.d.R.].
«Accettare un bambino Down – sostiene Cutrera – significa assumersi la responsabilità di dare al proprio figlio ciò di cui ha bisogno: noi non abbiamo dati statistici sul tema e non possiamo purtroppo escludere che la scoperta di una sindrome di Down comporti quasi come una routine il ricorso all’interruzione della gravidanza: personalmente mi distanzio nel modo più assoluto da questa mentalità. Non possiamo che rispondere con le armi che abbiamo, il nostro orgoglio di essere riusciti a dare ai nostri figli sensibilità e affetto e il nostro ringraziamento per aver ricevuto da loro altrettanto amore. Occorre incoraggiare chi decide di mettere alla luce bambini Down, e farlo non è un’impresa, perché i motivi ci sono e sono molti».

E allora, spazio anche alla sensibilizzazione: infatti, in questi giorni di dibattito sul caso dell’ospedale di Milano, uno dei punti di accordo fra il ministro della Salute Livia Turco e l’intera opposizione è quello di dar corso ad una campagna di comunicazione volta a mostrare all’opinione pubblica i tanti progressi compiuti dalle persone Down negli ultimi anni.
«Già ai tempi della prima Conferenza sulla Disabilità [Roma, dicembre 1999, N.d.R.], quando Livia Turco era ministro della Solidarietà Sociale nel governo D’Alema – ricorda il presidente dell’AIPD – si parlò di un programma simile: siamo d’accordo sulla sua necessità, ogni gesto di amicizia e di sorriso contribuisce a migliorare la condizione dei Down e l’intera nostra società».

*Testo già proposto dal sito Superabile.it e qui pubblicato per gentile concessione di quest’ultima testata.

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