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I trattamenti di fine vita*

Edvard Munch, Death in the Sickroom (La morte nella stanza della malata), 1893Con i progressi nel tempo della scienza medica, uno degli effetti principali è stato l’allungamento progressivo della vita media degli esseri umani e nei Paesi occidentali, dove il benessere economico è diffuso, è sempre più consistente la percentuale di cittadini anziani.
La tecnologia, inoltre, riesce oggi ad allungare anche l’aspettativa di vita dei malati terminali, grazie allo sviluppo di tecniche di rianimazione che hanno imposto persino la revisione delle precedenti prassi per l’accertamento della morte. Persone in coma in stato vegetativo persistente, pazienti senza ragionevoli speranze di miglioramento, persone private di funzioni vitali principali vengono tenute in vita grazie a terapie farmacologiche e tramite l’utilizzo di determinate apparecchiature.
Si tratta dunque di una situazione del tutto moderna, di fronte alla quale gli Stati si interrogano. È lecito tenere in vita una persona cosciente, che si trovi in una delle situazioni descritte, quando questa non lo voglia? E che fare poi con i pazienti privi di coscienza? La questione, sostanzialmente, ruota attorno al concetto di volontà e la domanda fondamentale è: chi ne è titolare? Il paziente? Il medico? I familiari? Lo Stato?
Se fino a non molto tempo fa vigeva il cosiddetto modello “paternalistico” secondo cui il medico era considerato l’unico ad avere le conoscenze necessarie per prendere decisioni riguardo la salute altrui, oggi è largamente condiviso, anche a livello legislativo, quello del consenso informato del paziente, per cui lo specialista deve mettere a disposizione di quest’ultimo le proprie conoscenze in modo che costui possa, infine, decidere per la propria salute.
In questo nuovo inquadramento, la volontà del malato terminale acquista una rilevanza che acuisce i termini del dibattito.

Il dibattito italiano
In Italia, il dibattito politico e pubblico sui trattamenti di fine vita si è sviluppato soprattutto nel 2006 attorno alle richieste di Piergiorgio Welby che scrisse al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, invocando l’apertura di un dialogo parlamentare sulla legalizzazione dell’eutanasia.
Tale confronto si è caratterizzato – non solo ma soprattutto – per una netta contrapposizione tra istanze laiche e istanze religiose di matrice cattolica.
La Chiesa Cattolica è infatti intervenuta nel dibattito italiano, proponendo un’interpretazione della fine della vita come evento escluso dalla determinazione umana. L’essere umano, insomma, può intervenire per prolungare la vita, ma mai per porvi fine. La Chiesa, quindi, in questo ambito sostiene il principio di eterodeterminazione, chiedendo allo Stato italiano di assumersi la titolarità della volontà di prolungare la vita del malato.
La visione laica, invece, inquadra la fine della vita come evento in gestione del titolare della stessa, secondo il principio di autodeterminazione. In sostanza, lo Stato dovrebbe garantire a ogni cittadino, in specifiche condizioni terminali, la possibilità di scegliere se determinare o meno la fine della propria vita, secondo convincimenti personali insondabili da parte dello Stato stesso.

Fuori dal nostro Paese
All’estero, il dibattito sui trattamenti di fine vita si è sviluppato non solo nella contrapposizione tra etero e autodeterminazione, ma, in modo consistente, anche da parte di chi condivide quest’ultimo principio.
Il confronto dialettico verte allora, in questo caso, sulle applicazioni e sulle violazioni di esso. In sostanza, da una parte c’è chi sostiene che lo Stato debba tutelare il diritto del cittadino ad affermare la propria scelta di continuare o meno a vivere nelle condizioni estreme sopra descritte, riconoscendo al singolo la titolarità esclusiva di tale volontà e procedendo quindi con la legalizzazione di pratiche eutanasiche, del testamento biologico e, prima ancora, del divieto di accanimento terapeutico.
Il dibattito politico e pubblico sui trattamenti di fine vita in Italia si è sviluppato soprattutto alla fine del 2006, intorno alla vicenda di Piergiorgio WelbyLa controparte nel dibattito, invece, sostiene che l’autorizzazione statale a tali interventi rischierebbe involontariamente di tutelare azioni di “omicidio selettivo”. Il timore, cioè, è che la regolamentazione di queste pratiche favorisca proprio la lesione di quello stesso principio di autodeterminazione della propria vita e della propria morte proclamato dai fautori della legalizzazione, permettendo casi di cessazione della vita di persone che non abbiano in realtà espresso alcun consenso.
Si tratterebbe, com’è ovvio, di fattispecie di reato (omicidio), ma, secondo i sostenitori di questa tesi, più difficile da individuare nell’ambito di legislazioni permissive.
Queste delicate discussioni, che stimolano le parti a trovare un accordo sulle modalità di maggiore effettiva tutela del principio di autodeterminazione, prendono probabilmente le mosse, almeno in parte, dall’assimilazione del concetto di eutanasia con quello di “omicidio selettivo” adottata e praticata dal regime nazista.
Considerando il tema del consenso estremamente importante e delicato, ci proponiamo di trattarlo prossimamente con uno specifico approfondimento.

Viaggio in Europa
L’Unione Europea non dispone di una disciplina univoca in ambito di trattamenti di fine vita. Infatti, dopo un lungo e polemico dibattito, nel 2005 l’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa ha bocciato – con 138 voti contrari, 26 favorevoli e 5 astenuti – una raccomandazione svizzera, conosciuta come Rapporto Marty, che avrebbe aperto la strada alla legalizzazione dell’eutanasia.
Di fatto, ad oggi, ogni Stato Membro possiede una regolamentazione propria, per nulla dialogante con quella degli altri Paesi, o non ne possiede alcuna, includendo tendenzialmente nella fattispecie dell’omicidio gli interventi rientranti nelle figure dell’eutanasia, del suicidio assistito e, talora, anche della cessazione dell’accanimento terapeutico.
Prendendo in considerazione in particolare alcune nazioni europee, cercheremo ora di indicare quali, tra queste, abbiano mostrato un’apertura verso queste nuove vicende di ambito bioetico, tenendo conto che in Italia nessuna delle pratiche che qui analizzeremo è stata ad oggi autorizzata.

Testamento biologico
L'uomo e gli altri animali: creazione grafica di Lorenzo RavascoPer risolvere il problema della volontà di pazienti in stato di incoscienza, è stato individuato l’istituto giuridico del testamento biologico.
Si tratta di un atto scritto con cui un cittadino, cosciente e capace di intendere e volere, esprime anticipatamente la propria volontà nel caso in cui si venisse a trovare in condizioni terminali e in stato di incoscienza. In tal modo egli potrà rifiutare che il proprio corpo venga tenuto in vita tramite apparecchiature mediche vitali, quando non vi siano ragionevoli prospettive di miglioramento (i termini specifici entro cui il cittadino può esprimersi vengono poi individuati in modo diverso all’interno di ogni singolo Stato).
Attualmente in Italia esiste una proposta di legge, secondo la quale, per altro, il medico potrebbe sempre agire anche in contrasto con le volontà testamentarie, se lo ritenesse giusto.
Il testamento biologico, dunque, è legale in Danimarca (dal 1992), Olanda (dal 2001), Belgio (dal 2002, a durata quinquennale) e Francia (dal 2005, sotto alcune condizioni).
Per quanto riguarda la Germania, nel 1998 la Corte d’Appello di Francoforte lo ha ammesso per i soggetti in coma irreversibile e con l’approvazione dei tribunali tutori, mentre in Gran Bretagna non vi è una legge che lo autorizza, ma una forte giurisprudenza a suo favore.
In Spagna, infine, nel 1989 la Conferenza Episcopale aveva proposto, senza riscontro, la legalizzazione del testamento biologico, con disposizioni a favore della cessazione dell’accanimento terapeutico e contro l’eutanasia attiva.

Suicidio assistito
Si parla di suicidio assistito quando il medico si limita a fornire un farmaco mortale al paziente in fase terminale. A quest’ultimo spetta poi l’autosomministrazione.
Attualmente esso è legale in Olanda (dal 2001), in Germania – se il malato è capace di intendere e volere e ne fa richiesta esplicita – e in Svizzera, se chi aiuta il suicida non lo fa per motivi «egoistici» che gli portino un vantaggio, quale ad esempio un’eredità. Nella Confederazione Elvetica ad occuparsi del suicidio assistito sono associazioni private quali Exit e Dignitas e ad esso segue obbligatoriamente un’inchiesta del Procuratore.
Il suicidio assistito, infine, è stato depenalizzato in Spagna e Svezia.

Eutanasia attiva
In questo caso il paziente chiede e ottiene dal medico che gli venga somministrato un farmaco letale.
L’eutanasia attiva è stata depenalizzata in Spagna ed è legale in Olanda dal 2001 (per pazienti con più di 12 anni e con autorizzazione dei genitori fino al compimento dei 16, in presenza di una dichiarazione di volontà della persona manifestata più volte e valutata da un’apposita commissione) e in Belgio dal 2002, per pazienti maggiorenni, informati e capaci di intendere e volere, in presenza di una dichiarazione di volontà scritta, libera, consapevole e reiterata, se la patologia è «grave e incurabile» e reca sofferenze fisiche o psichiche insopportabili e costanti. Un’apposita commissione valuta la correttezza procedurale del comportamento del medico.

Eutanasia passiva
Ovvero quando le cure per il prolungamento della vita vengono interrotte. Essa è legale in Olanda, in Francia dal 2005, se il malato terminale che ne fa richiesta è stato informato dal medico sulle conseguenze della sua scelta, ciò che porta alla sospensione o al “non avviamento” degli atti medici inutili, sproporzionati o senz’altro effetto che il mantenimento artificiale della vita, non è perseguita penalmente in Svezia, mentre in Gran Bretagna è ammessa dalla giurisprudenza dal 1996.

*Testo tratto dal n. 163 (settembre 2007) di «DM», periodico della UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare) e qui riprodotto, per gentile concessione di tale testata. 

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