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La comunicazione sociale deve emozionare e creare partecipazione

René Magritte, Falso specchio, 1928Nell’autunno del 2006 è andato in onda su RaiSat il programma Uno spot per la vita, dedicato alle campagne di informazione sociale.
Alla tappa bolognese del Progetto Nazionale Street – Strategie europee e territori [il nostro sito ha presentato tale evento con il testo disponibile cliccando qui, N.d.R.], ha partecipato anche Umberto Rondi, autore di tale programma e abbiamo avuto dunque l’occasione di rivolgergli alcune domande.

Come è venuta l’idea del programma Uno spot per la vita?
«Si è trattato di un’esperienza nata dalla volontà di rintracciare e divulgare alcune centinaia di campagne sociali realizzate in tutto il mondo su temi particolarmente urgenti, quali la povertà, la violenza, lo sviluppo, la difesa dell’ambiente, l’uso dell’acqua, la tratta delle persone, le difficili condizioni di vita nelle metropoli, i diritti dei soggetti più deboli come le donne, i bambini e i rifugiati.
Tutto questo con due principali obiettivi».

Quali?
«Prima di tutto informare e, possibilmente, emozionare, cioè creare e trasmettere dei piccoli anelli di conoscenza su questi temi, facendo capire che ognuno di noi ha un potere di intervento e di incisione sulla realtà molto più grande e creativo di quanto pensiamo.
L’altro obiettivo è stato cercare di comprendere come le più diverse e distanti culture esprimono con linguaggi diversi le rispettive priorità in campo sociale. Non sempre, purtroppo, in modo efficace. Tra i numerosissimi spot selezionati, infatti, diversi sono stati scartati».

Quali erano i loro difetti?
«Per comunicare bene, soprattutto quando tratti temi socialmente importanti e delicati, non sono sufficienti le buone intenzioni. Alcuni degli spot selezionati erano di stile grossolano, miopi sul piano psicologico e comunicativo e quindi inadatti a raggiungere gli scopi prefissi».

Può fare qualche esempio?
«Molti spot dedicati alla sicurezza stradale, provenienti dal Nord Europa, sono incentrati su immagini violente e spesso macabre; è stato però dimostrato dagli psicologi che un tale linguaggio può suscitare un forte coinvolgimento iniziale, ma che in genere il messaggio comunicato diventa poi oggetto di rimozione.
Un altro linguaggio ormai superato e in ogni caso sbagliato è quello che prevede la colpevolizzazione di chi guarda lo spot, tipico delle campagne sociali degli anni Settanta, ma presente in alcuni casi anche oggi, come accade, ad esempio, per i temi dell’infanzia nei paesi africani».

Quali sono, invece, i requisiti per una buona comunicazione su temi d’interesse sociale?
«Una comunicazione è efficace e utile in campo sociale quando si basa su due tecniche particolari, quella della partecipazione amichevole e non obbligata e quella che lascia intravedere la possibilità di una meta comune realmente raggiungibile».

A che punto è la comunicazione sui temi sociali in Italia?
«Purtroppo è tristemente chiaro che c’è un divario abbastanza forte tra alcune stringenti realtà presenti in Italia e nel mondo e il sistema della comunicazione, in particolare, ma non solo, quello dell’informazione. Basti pensare alle quasi 40.000 persone che ogni giorno muoiono di fame nel mondo e che sono completamente ignorate, direi “silenziate”. Dobbiamo cercare al più presto di comprendere quali sono le forme di comunicazione più efficaci per raggiungere il maggior bacino possibile di comunicazione, ma non solo».

Cosa servirebbe ancora?
«Rispondo con una domanda, che spero, come recita un vecchio proverbio giornalistico, possa aprire altre domande. Quando vedremo nei telegiornali RAI in prima serata, con le debite proporzioni, il drammatico e crescente affacciarsi di una tragedia come quella della fame? Forse si conoscono già in molti casi le forme comunicative adeguate, mentre a mancare sono spazi altrettanto adeguati per esse».

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