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Quando l’immagine denuncia

In questa intervista abbiamo l’onore di ospitare due importanti esponenti della fotografia mondiale, come Luciano D’Alessandro e Gianni Berengo Gardin.
D’Alessandro ha 73 anni, Berengo Gardin 76. Rispondono tutti e due alle nostre domande con vitalità, determinazione e gentilezza. Li abbiamo contattati perché volendo analizzare la rappresentazione fotografica della disabilità di oggi, occorre certamente confrontarsi con quella di ieri.
Un'immagine scattata nel 1965 al Manicomio di Materdomini di Nocera Superiore (Salerno), tratta da «Gli esclusi» di Luciano D'AlessandroIeri, quando i fotografi cominciarono a immortalarla, era più o meno il 1968. In quel periodo di subbuglio culturale e sociale, lo psichiatra Franco Basaglia voleva chiudere i manicomi (la sua proposta si concretizzò nella Legge 180/78), mentre l’opinione pubblica era ancora all’oscuro della situazione.
D’Alessandro e Berengo Gardin pubblicarono allora due libri fotografici che per primi in Italia aprivano le porte dei manicomi, rispettivamente Gli esclusi e Morire di classe, entrambi del 1969, dove l’impegno di denuncia civile che caratterizza gli scatti coincide con il periodo storico che tali opere rappresentano.
I due fotogiornalisti, attivi dalla seconda metà del Novecento, hanno collaborato con le principali testate italiane ed estere. D’Alessandro è stato anche redattore fotografico del «Mattino» di Napoli, ha realizzato numerosi libri e campagne fotografiche in Francia, Stati Uniti, Cuba, Russia e nel nostro Paese.
Berengo Gardin, invece, considerato dalla rivista «Modern Photography» tra i trentadue migliori fotografi del mondo, ha collaborato con l’industria, ma si è principalmente dedicato alla realizzazione di libri, pubblicandone oltre duecento.
Le loro opere sono conservate nei più importanti centri culturali del mondo, tra cui il Museum of Modern Art di New York, la Bibliothèque Nationale e la Maison Européenne de la Photographie di Parigi.

D’Alessandro: cerco un uomo solo

Com’è nato il desiderio di raccontare la disabilità in un periodo in cui quasi nessuno ancora ne parlava?

«Nel 1956 fotografai un disoccupato di Napoli. Da allora ho fatto sempre la stessa foto, il tentativo di fissare in uno scatto la solitudine profonda dell’uomo.
Una decina d’anni dopo stavo cercando altre immagini per rappresentarla. Avevo pensato a carceri, caserme, finché ho incontrato il professor Sergio Piro che mi ha introdotto alla vita nei manicomi. Per il professore, la presenza di un artista tra i pazienti era una sorta di “ergoterapia”. Per me, una volta iniziato il reportage e frequentati assiduamente gli ospiti, la questione non è stata più solo quella di rappresentare la solitudine. Si è aggiunto, forte, il desiderio di riscattare l’esclusione sociale, denunciando le condizioni inumane in cui versavano i malati. Stavo facendo un lavoro politico».

Cosa si pensava a quel tempo della disabilità psichica?
«Non se ne parlava. La gente ignorava la situazione. Mi sono trovato di fronte un “deposito” di uomini e di donne. Regnavano l’abbandono, la sopraffazione, la violenza, le camicie di forza, l’elettroshock».

Qual è stata la sua prima reazione?
Un'altra immagine del 1965, tratta dal libro «Gli esclusi» di Luciano D'Alessandro, scattata al Manicomio Materdomini di Nocera Superiore (Salerno)«Ho dovuto affrontare un sentimento di rifiuto, perché mi identificavo con loro e mi faceva male accettare che una situazione del genere fosse vera. Poi la professionalità ha vinto. Li ho osservati a lungo prima di sentirmi pronto a scattare immagini che rappresentano lo star solo dell’uomo e allo stesso tempo fanno denuncia politica dell’ambiente in cui egli vive la solitudine. Un luogo di sporcizia e bruttura».

Quale accoglienza ebbe Gli esclusi?
«Quando il libro uscì non passò inosservato. Fui il primo al mondo a mostrare i manicomi. Guadagnò in breve un centinaio di recensioni, le foto terrorizzavano o interessavano molto, si gridò allo scandalo, come se dalle mie immagini fosse sorto il problema. Certo, stiamo parlando di un periodo storico in cui il sentire sociale era molto vivo, le persone si identificavano nel gruppo e reagivano alle ingiustizie».

Oggi i manicomi non ci sono più. Però lei ha scritto che Gli esclusi sono coloro che rimangono ai margini del meccanismo produttivo perfetto della nostra società. In questi termini ci sarebbero ancora foto di denuncia da fare oggi?
«C’è l’immigrazione che non riesce a trovare pace, il Sud che vive senza fabbriche, la camorra… Una fotografia non risolve un problema ma lo svela, aiuta a capire. Io faccio sempre la stessa foto, cerco un uomo solo. Tutto poi dipende da come mi metto di fronte a quell’uomo, se per un attimo sono lui che soffre».

Oggi gli scatti de Gli esclusi sono solo una testimonianza o hanno ancora una propria modernità?
«Le due cose insieme. Cambiano le situazioni e gli uomini, ma non la condizione umana – morte vita amore. La scommessa della fotografia è quella di tentare di essere un linguaggio universale, dalla Patagonia al Polo Nord. La grande difficoltà è nel creare le sintesi: con uno scatto provi a raccontare tutto…».

Condivide questa riflessione: «Oggi siamo bombardati da immagini shock televisive e non proviamo più emozioni forti di fronte ad esse»?
«La comunicazione è sempre la stessa se chi la fa rispetta l’evento che racconta, ma oggi è cambiata la ricezione. Pochi si indignano di fronte alla condizione umana. Probabilmente la colpa è degli anziani che hanno lasciato un mondo terribile. Credevo che le cose potessero cambiare, ho vissuto l’agio di un’identità collettiva, di una speranza di cambiamento insieme».

Che effetto fanno oggi le immagini degli Esclusi a chi le guarda per la prima volta?
«Mi viene in mente di aver notato che gli operai che hanno montato una mia recente mostra personale a Roma [Luciano D’Alessandro, 1952-2002, 7 novembre-18 dicembre 2006, Villa Medici di Roma, N.d.R.] hanno per lo più ignorato le fotografie del manicomio e si sono soffermati su delle altre. L’argomento è duro, è un atto d’accusa della nostra ignavia».

Berengo Gardin: non cambia l’atteggiamento

Com’è nato il desiderio di realizzare il libro Morire di classe?
L'Istituto Psichiatrico di Firenze nel 1968, da «Morire di classe» di Gianni Berengo Gardin«La mia amica Carla Cerati [che firma il libro con Berengo Gardin, N.d.R.] doveva fotografare i primi cambiamenti avvenuti nei manicomi ad opera di Basaglia. Non si sentiva di andare da sola e l’ho accompagnata. Doveva essere un semplice servizio fotografico, ma, una volta realizzato, sentendone il peso, ho convinto Basaglia a farne un libro, edito da Einaudi».

Qual è stata la sua prima reazione?
«Uno shock terribile. C’erano malati legati al letto o con la camicia di forza, anche se era proibito. E poi venivano tutti rapati a zero, quello che all’epoca era forse il peggior affronto».

Come vi hanno accolto i pazienti e i medici?
«Siamo stati a Gorizia, Parma e Firenze. Per non provocare violenze in più ai malati, prima di fotografarli organizzavamo un’assemblea in cui spiegavamo loro cosa volevamo fare. Quelli che non volevano, non li fotografavamo. Per quanto riguarda i medici, in molti ospedali ci vietavano l’accesso. A Firenze siamo entrati la domenica con i parenti, fingendoci dei familiari. I responsabili non c’erano e gli infermieri erano dalla nostra parte».

Che fotografie ha scattato, insieme alla Cerati?
«Abbiamo descritto l’ambiente. Forse è questa la differenza principale con D’Alessandro, che ha raccontato anche le persone. Noi volevamo raccontare solo il luogo, per convincere gli italiani che era necessario chiuderlo».

La sua sensibilità verso le persone con disabilità non si è fermata a quell’episodio…
«Mi sono sempre interessato di sociale, ho lavorato per lAISM (Associazione Italiana Sclerosi Multipla), ho realizzato due libri sugli zingari a Firenze e in Sicilia (1995 e 1998) e l’anno scorso ho fotografato la Casa del Sole di Mantova, che accoglie bambini con cerebropatie. Ho sempre chiesto solo il rimborso di una parte delle spese vive».

Ci racconti un po’ meglio di queste esperienze.
L'Istituto Psichiatrico di Parma nel 1968, da «Morire di classe» di Gianni Berengo Gardin«Per l’AISM ho fotografato malati in terapia, gite collettive e la giornata di una professoressa sarda in carrozzina, che lavora mentre il marito si occupa della casa. L’obiettivo era quello di documentare ciò che l’associazione fa per i malati e mostrare che anche in carrozzina si può avere una vita quasi normale. Con gli zingari ho coabitato invece per un mese e mezzo. Il reportage combatte il pregiudizio che li vuole ladri. A Firenze la maggior parte era organizzata in cooperative di pulizia, giardinaggio e artigianato. Nell’estate del 2006, poi, ho fotografato il carcere di Bollate, vicino a Milano. Nessuna denuncia qui, si tratta infatti di un carcere modello che ci invidia l’Europa, con sala cinema, campi da tennis, orto e serre».

E l’esperienza alla Casa del Sole?
«Due anni fa avevo fatto un libro sui mantovani e la Casa del Sole è appunto di Mantova. Mi hanno chiesto loro se li aiutavo a farsi conoscere. Durante la giornata ospitano centocinquanta ragazzi che la sera tornano a casa per mantenere un rapporto con la famiglia. Di giorno i bambini vengono sottoposti a cure mediche e fisioterapiche e terapie di tutti i generi: piscina, equitazione e altro. Ho vissuto con loro per qualche giorno e li ho fotografati. Nei bambini con sindrome di Down emerge il bisogno di dare e ricevere affetto. E l’ho raccontato».

È diverso raccontare la disabilità oggi rispetto agli anni di Morire di classe?
«Cambia il contesto ma non l’atteggiamento. Per me il lavoro del fotografo non è artistico, ma culturale e soprattutto sociale e civile. È una scelta precisa che vale per tutto il reportage e implica senz’altro delle rinunce».

Condivide questa riflessione: «Oggi, a differenza che negli anni Sessanta, siamo bombardati da immagini shock televisive e non proviamo più emozioni forti di fronte ad esse»?
«Ci sono situazioni in cui si sta esagerando. Non è un’idea mia ma della scrittrice Susan Sontag. Sono d’accordo. L’inflazione di foto, per esempio sui bambini africani, ha portato l’abitudine a guardarle e non fanno più effetto. Sarebbe meglio produrre meno immagini e poi, quando ci sono, che siano forti».

Oggi gli scatti di Morire di classe sono solo una testimonianza o hanno una loro modernità? E che effetto fanno a chi le guarda per la prima volta?
«Questo tipo di fotografia è sempre una testimonianza, del presente prima e del passato poi. Chi le vede oggi per la prima volta è interessato e incredulo. Alcuni mi chiedono se si tratti di un montaggio, incapaci di concepire che la situazione dei manicomi fosse davvero quella».

*Testo apparso nel n. 160 di «DM», periodico nazionale della UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare) e qui riproposto per gentile concessione di tale testata.

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