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Gli eretici profeti

Immagine in bianco e nero di un bambino chinatoLeggendo in Superando.it il commento dei responsabili della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap) all’articolo 26 della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità – che sarà oggetto di dibattito nel prossimo convegno del 30 maggio a Genova [il riferimento è all’articolo intitolato Riabilitarsi secondo la Convenzione, disponibile cliccando qui, N.d.R.] – abbiamo riscoperto, pur con l’utilizzo di un lessico più moderno, le idee e le azioni che dieci-quindici anni fa hanno portato le nostre famiglie negli Stati Uniti, a scoprire “le gioie e i dolori” di un approccio riabilitativo (privo di solide basi scientifiche, come tutti gli approcci per la (ri)abilitazione dei bambini) “intensivo, precoce, domiciliare, olistico”, i cui lati migliori sono basati più sul ruolo attivo e sulle “scoperte dei genitori” (l’insegnamento precoce della lettura, ad esempio) che sulle intuizioni del caposcuola.

Allora eravamo considerati “quei disperati che vanno in America”, quelli che non si rassegnano all’evidenza, quelli che buttano i soldi dalla finestra, facendo viaggi inutili e costosi: seguivamo il cosiddetto “Metodo Doman“.
Oggi non abbiamo alcuna intenzione di riaccendere sterili e inutili polemiche, alimentate soprattutto da coloro che – come dipendenti pubblici – dovrebbero preoccuparsi di dimostrare l’efficacia del loro operato (anche se ancora adesso ci assale il dubbio che tali polemiche siano state finalizzate più a distogliere l’attenzione dal “nulla” offerto dai servizi sanitari che a orientare le scelte corrette delle famiglie).
La nostra lunga esperienza ci permette infatti di affermare con convinzione che nella riabilitazione pediatrica la scelta è un diritto sacrosanto e inalienabile della famiglia che, naturalmente, dovrebbe poter accedere a tutte le informazioni necessarie per decidere.
Constatiamo solo che il citato articolo 26 della Convenzione ONU contiene tutto “il nostro credo” di allora il quale sostanzialmente, tranne una più ampia visione prospettica derivata dall’esperienza, è ancora quello di oggi.

In sostanza le nostre famiglie tentavano ogni via per migliorare la situazione psicofisica dei loro ragazzi (il miglior recupero funzionale possibile), si impegnavano all’inverosimile sacrificando l’oggi per un domani migliore (abilitazione come paradigma delle politiche di inclusione), operavano “nelle fasi più precoci possibili”, basandosi su una “valutazione multidisciplinare” (effettuata da uno staff di cinque-sei persone assieme alla famiglia), utilizzando molti volontari che facilitavano “la partecipazione e l’integrazione nella società” anche nei casi più estremi (è la famiglia del “gravissimo” che “apre le porte” alla società la quale accoglie con entusiasmo il bambino, entrando in diretto contatto con il mondo dell’handicap).
Infine, queste famiglie costruivano dei percorsi riabilitativi nel luogo “più vicino possibile alla propria comunità, comprese le aree rurali”, cioè a casa loro, anche a casa di chi viveva in campagna o in montagna.

Da eretici a profeti? Sinceramente non lo sappiamo né ci interessa molto saperlo. Quello di cui siamo consapevoli riguarda i progressi dei nostri figli, l’impensabile risorsa di energie, di forza di volontà e di tenacia che quegli anni di impegno hanno fatto emergere dal nostro carattere. Impegno che, seppure in modo diverso, continua ancora oggi, nelle nostre famiglie e nella società.

*Federazione Italiana ABC (Associazione Bambini Cerebrolesi).

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