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Diritto alla pensione di reversibilità e diritto al lavoro della persona inabile*

Donna con sindrome di Down al lavoroCon il dettato dell’articolo 46 del Decreto Legge 248/07, il Legislatore ha fornito risposta a un’esigenza da diverso tempo avvertita e manifestata dalle persone con disabilità (e dai loro familiari) e nel contempo ha sostanzialmente rivoluzionato il sistema precedentemente vigente, con riguardo al diritto del soggetto inabile alla pensione di reversibilità di familiari superstiti, anche se si svolge un’attività lavorativa.
La norma afferma: «All’articolo 8 della legge 12 giugno 1984, n. 222, dopo il comma 1 sono aggiunti i seguenti: «1-bis. L’attività svolta con finalità terapeutica dai figli riconosciuti inabili, secondo la definizione di cui al comma 1 con orario non superiore alle 25 ore settimanali, presso le cooperative sociali di cui alla legge 8 novembre 1991, n. 381, o presso datori di lavoro che assumono i predetti soggetti con convenzioni di integrazione lavorativa, di cui all’articolo 11 della legge 12 marzo 1999, n. 68, non preclude il conseguimento delle prestazioni di cui al citato articolo 22, comma 1, della legge 21 luglio 1965, n. 903».
Il Decreto Legge in commento è stato convertito dalla Legge 28 febbraio 2008, n. 31, dal titolo Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 31 dicembre 2007, n. 248, recante proroga di termini previsti da disposizioni legislative e disposizioni urgenti in materia finanziaria. Legge che non ha modificato il comma in commento, mentre, invece, ha introdotto e modificato alcuni successivi commi del medesimo articolo.

Risulta evidente come si tratti di una sorta di “rivoluzione copernicana”. Occorre ricordare, infatti, che fino ad oggi taluni soggetti pur affetti da una tipologia di disabilità (si pensi, ad esempio, alle persone affette da sindrome di Down, trisomia 21) e seppur potenzialmente capaci di svolgere talune mansioni lavorative, venivano inevitabilmente indotte a rinunciare all’ingresso nel mondo del lavoro per evitare la perdita del diritto alla pensione di superstite (reversibilità).
Oggi, invece, ciò risulta “evitabile” a determinate condizioni. Si legge infatti nella Circolare INPS n. 15 del 6 febbraio 2009 che «le disposizioni previste dall’articolo 46 del decreto-legge n. 248 modificano radicalmente la disciplina del riconoscimento o del mantenimento del diritto alla pensione ai superstiti nei confronti dei soggetti inabili, ovvero dell’incompatibilità esistente tra l’inabilità riconosciuta ai figli inabili con il conseguente diritto alla reversibilità della pensione del genitore deceduto, e l’attività lavorativa svolta dai figli inabili presso datori di lavoro, diversi dai laboratori protetti e dalle cooperative sociali, che abbiano stipulato le convenzioni di cui all’articolo 11 della legge n. 68 del 1999».

Mentre in passato, dunque, lo svolgimento di attività lavorativa determinava la perdita del diritto alla pensione ai superstiti (cosiddetta reversibilità), oggi ciò può non più accadere a condizione della sussistenza di determinati presupposti.
La disposizione introdotta e in commento prevede, infatti, che gli interessati mantengano il diritto alla pensione ai superstiti, purché siano rispettati i seguenti requisiti (comma 1 bis aggiunto all’articolo 8 della Legge 222/84):
– che l’attività lavorativa abbia finalità terapeutica;
– che l’attività lavorativa sia svolta presso i laboratori protetti, ovvero le cooperative sociali disciplinate dalla Legge 381/91, nonché presso datori di lavoro che abbiano stipulato le convenzioni di integrazione lavorativa di cui all’articolo 11 della Legge 68/99, assumendo i predetti soggetti con contratti di formazione e lavoro, con contratti di apprendistato o con le agevolazioni previste per le assunzioni di disoccupati di lunga durata;
– che la durata dell’attività lavorativa non sia superiore alle 25 ore settimanali.
Allorché sussistano le sopracitate condizioni, quindi, il soggetto con inabilità potrà beneficiare dello svolgimento di un’attività lavorativa (con finalità terapeutica certificata), senza perdere il diritto all’erogazione della pensione ai superstiti.
Risultano evidenti le ragioni a fondamento della norma in commento:
– finalità di integrazione sociale della persona inabile;
– di inclusione lavorativa;
– e finalità terapeutica.
Ovviamente è onere dell’ente verificare la sussistenza di tutti i requisiti e presupposti, così come indicato nella citata Circolare INPS n. 15 del 6 febbraio 2009.

A questo punto si ritiene opportuno, seppur succintamente, approfondire due questioni, la prima delle quali riguardante la natura del datore di lavoro, la seconda la finalità terapeutica dell’attività lavorativa.
Giovane con sindrome di Down al lavoroLa stessa Circolare INPS chiarisce infatti che la natura del lavoro deve rientrare tra le categorie dei «laboratori protetti» o «delle cooperative sociali disciplinate dalla legge 8 novembre 1991, n. 381»; oppure ancora presso datori di lavoro che abbiano assunto l’inabile «con convenzioni di integrazione lavorativa, di cui all’articolo 11 della legge 12 marzo 1999, n. 68» o che l’abbiano assunto «con contratti di formazione di lavoro, con contratti di apprendistato o con le agevolazioni previste per le assunzioni di disoccupati di lunga durata».
E poco oltre: «La verifica che il datore di lavoro rientri tra le cooperative sociali, ovvero i laboratori protetti, nonché il tipo di contratto sottoscritto con il lavoratore inabile (contratto di formazione lavoro, contratto di apprendistato), nonché l’ipotesi che l’inabile sia stato assunto con le agevolazioni previste per le assunzioni di disoccupati di lunga durata dovrà essere effettuata attraverso la consultazione della dichiarazione e-mens riferita al lavoratore. Nei casi in cui l’inabile sia stato assunto per effetto di una convenzione di cui all’articolo 11 della legge n. 68 del 1999 dovrà essere acquisita copia della citata convenzione. Dalla stessa denuncia mensile e-mens può altresì essere acquisito il dato in merito all’orario settimanale del lavoratore che come previsto espressamente dalla norma in esame non può eccedere le 25 ore settimanali». Non, quindi, un qualunque lavoro a qualunque condizione.

Il secondo aspetto, invece, riguarda la finalità terapeutica dell’attività lavorativa.
Ovviamente si condivide la finalità che il Legislatore ha voluto esaltare, ponendola in apertura dell’articolo 46 della legge in commento. D’altra parte, ha fornito così risposta alle numerose e risalenti nel tempo indicazioni del mondo dell’associazionismo e delle scienze mediche che evidenziano come un’adeguata ed efficace integrazione sociale (e, anche, lavorativa) delle persone con disabilità, conducono solo a miglioramenti della qualità di vita (e delle condizioni psico-fisiche) del soggetto inabile.
Elementi di riscontro quotidiano, di impegno e di concentrazione nella realizzazione dell’opera o del servizio prestato, di apprezzamento del lavoro fatto, del piccolo riconoscimento (anche economico) che ne deriva, la produttività di esso ecc. sono tutti elementi che, in sé, hanno finalità terapeutica per il soggetto con disabilità.
Ecco che la stessa Circolare n. 15 dell’INPS prevede come «necessario acquisire la documentazione comprovante che il collocamento sia avvenuto nell’ambito della realizzazione di un Programma di ergoterapia predisposto dal Centro di Riabilitazione».

Il tutto mi richiama alla mente (ancora una volta), il disposto dell’articolo 14 della Legge 328/00 [la cosiddetta “Riforma dell’Assistenza”, N.d.R.] il quale afferma:
«1. Per realizzare la piena integrazione delle persone disabili di cui all’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, nell’ambito della vita familiare e sociale, nonché nei percorsi dell’istruzione scolastica o professionale e del lavoro, i comuni, d’intesa con le aziende unità sanitarie locali, predispongono, su richiesta dell’interessato, un progetto individuale, secondo quanto stabilito al comma 2.
2. Nell’ambito delle risorse disponibili in base ai piani di cui agli articoli 18 e 19, il progetto individuale comprende, oltre alla valutazione diagnostico-funzionale, le prestazioni di cura e di riabilitazione a carico del Servizio sanitario nazionale, i servizi alla persona a cui provvede il comune in forma diretta o accreditata, con particolare riferimento al recupero e all’integrazione sociale, nonché le misure economiche necessarie per il superamento di condizioni di povertà, emarginazione ed esclusione sociale. Nel progetto individuale sono definiti le potenzialità e gli eventuali sostegni per il nucleo familiare».
Non sussiste dubbio alcuno che se il disposto di questa norma venisse davvero rispettato – redigendo progetti individualizzati di vita richiesti dalle persone con disabilità ai Comuni di residenza – gli Enti (e le persone con disabilità) coinvolti nella procedura di inserimento lavorativo – ai sensi e per gli effetti dell’articolo 46 della Legge 31/08 – potrebbero chiaramente beneficiare di uno strumento “personalizzato” delle esigenze e delle condizioni di vita, di salute, di autonomia e di bisogno della persona con disabilità stessa. Strumento che certamente si appalesa più completo del programma eventualmente (e all’interno di esso) predisposto dal Centro di Riabilitazione.
Il tutto, tra l’altro, sarebbe ad ulteriore garanzia del datore di lavoro e del lavoratore con disabilità, posto che entrambi ben conosceranno finalità (terapeutica) e capacità (cognitive, comportamentali, fisiche, di vita, di salute, attività terapeutiche, capacità di autonomia, servizi alla persona ecc.) cui potranno tendere e che potranno garantire.

*Testo pubblicato da «Diritto & Diritti – Il Portale Giuridico Italiano» e qui ripreso per gentile concessione dell’Autore e della suddetta testata.
**Avvocato.

Sulla questione suggeriamo anche la lettura della scheda pubblicata dal Servizio HandyLex.org, cliccando qui.
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