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Per cominciare a parlare di uomini e non di malati cronici

Persona in carrozzina che esce da un labirintoInterviste come quelle a Pietro Barbieri (Le associaizoni e la tutela dei Cittadini con disabilità) e a Giampiero Griffo (È la società che va riabilitata a rispettare i diritti umani delle persone!) o interventi come quello di Franco Bomprezzi (Questa è oggi l’Italia dell’informazione. E della politica) – tutti testi da noi recentemente presentati (e disponibili cliccando rispettivamente qui, qui e qui) – sono destinati a far riflettere e discutere, stimolando ulteriori proposte di analisi sui problemi e la visibilità delle persone con disabilità (e delle loro famiglie) nella società di oggi.
Qui di seguito ben volentieri diamo spazio alle seguenti considerazioni, elaborate da un “tecnico delle leggi”, interessato però ad osservare con altrettanta attenzione le varie evoluzioni sociali che potrebbero portare a formulare un nuovo “diritto della disabilità”. (S.B.)

Parlare di disabilità come di un elemento estrinseco al contesto sociale è come parlare del numero tre senza inserirlo nel contesto dei numeri!
Non ha più senso parlare di disabilità come di una fenomenologia estranea alle politiche sociali perché un dato è certo: la disabilità è un fenomeno che può colpire tutti senza avvisi, un fenomeno sociale, un fenomeno di massa. Il “diritto alla disabilità”, pertanto, non può riguardare una nicchia di persone bensì è un fenomeno esteso, che oltretutto diventa ogni giorno numericamente più importante.
Non si tratta pertanto di parlarne come si può fare parlando di religione o di scelte personali, ma si tratta di salvaguardare gli uomini dall’esclusione sociale che ancora oggi è il “male oscuro” della disabilità.
Si deve cioè parlare di disabilità partendo da un presupposto inscindibile che un mondo che include il disabile è sicuramente un mondo con una società evoluta e pertanto organizzato e proiettato verso il fututo. Un mondo escludente – come quello attuale – è invece ancora un mondo “barbaro e primitivo”, che nonostante il progresso scientifico non riesce a guardare lontano.
Creare l’inclusione sociale al disabile diviene quindi una battaglia sociale contro l’imbarbarimento e contro il rischio di sprofondare in un periodo buio – come la storia ci ha già insegnato – dove il progresso scientifico non supportato dal pensiero sociale diventa un privilegio di pochi e non una vittoria comune, una nicchia privata e non un bene sociale. La disabilità, inoltre, dev’essere imperniata intorno all’uomo, al fine di rendere omogenea la società, facendo diventare il diritto alla disabilità stessa come un fattore di crescita sociale e non di distinguo particolare.

Alla luce di queste osservazioni, si può già affermare che il problema del diritto alla disabilità è un problema organico alla società e non può diventare una questione che coinvolga esclusivamente l’interessato, anche perché spesso – proprio a causa della sua disabilità – la persona non ha le capacità, la forza e la costanza di affrontare le problematiche giornaliere.
Foto in bianco e nero di persona in carrozzina che guarda il mareUn gran lavoro è stato fatto in questi anni dalle associazioni che gravitano intorno alla disabilità. Ora occorre che i concetti base diventino un patrimonio comune e condiviso, al fine di rendere effettiva l’uguaglianza e la non discriminazione.
La stessa lotta di emancipazione della donna è passata da un iniziale momento di idea esclusiva delle stesse donne a un’affermazione condivisa socialmente. Da soli non si riuscirà mai a cambiare le vere dinamiche: l’unico mezzo è la condivisione del problema, partendo dal presupposto che, come si diceva all’inizio, la disabilità è una perfida compagna che colpisce tutti senza mai avvertire nessuno. E contro questo “spettro” che si aggira per il mondo occorre che i princìpi del diritto alla disabilità siano estesi e diventino collettivi, princìpi del comune pensare che pongano le basi per creare un mondo meno egoistico e più partecipativo.

Proprio per questi motivi generali spesso le norme particolari, come la Legge 67/06 sulla non discriminazione, possono diventare un motivo di critica e non di esaltazione. Questa norma, infatti, che permette a una persona con disabilità di difendersi dalle discriminazioni, in realtà diventa essa stessa discriminante, poiché conferisce al disabile un potere soggettivo e non oggettivo. Lo pone da solo davanti al “nemico”, facendo emergere le proprie potenzialità, e quindi i propri privilegi, a discapito delle potenzialità di tutti.
Il problema, pertanto, non può essere posto in termini di procedura civile, il problema deve diventare un modo quotidiano di agire.
È ovvio, per altro, che si dovrebbe trovare il coraggio di porre elementi nuovi e una nuova riformulazione della questione. La stessa Legge 104 [la Legge Quadro 104/92, N.d.R.]  può essere considerata superata, soprattutto nella mancata distinzione degli elementi che caratterizzano la gravità. Non si può continuare a parlare, in modo vecchio, di disabilità e diagnosi: si tratta di schemi “antichi” che soprattutto continuano a caratterizzare il disabile come malato. Si dovrebbe cominciare a parlare di gravità come di “termometro all’inclusione sociale”, termometro dell’autonomia personale, scolastica, lavorativa, ovvero in base a criteri esclusivamente sociali e non più di carattere medico.
Che senso ha parlare di ipovedenti, non deambulanti, disabili psichici, se a monte di queste terminologie strettamente diagnostiche non si sviluppa l’idea dell’inclusione sociale? Se non si sviluppa il grande tema dell’emarginazione “non scelta, ma patita”, che è il male oscuro della disabilità? E quel coraggio di riformulare la questione su cui prima ci soffermavamo è l’unico modo per cominciare ad affrontare le problematiche della disabilità in modo coerente e nuovo, per cominciare a parlare di uomini e non di malati cronici, per cominciare a costruire nuove metodologie.
Già questo cambiamento radicale porterebbe a una nuova definizione del problema, allontanando le strutture sanitarie dalla vita quotidiana della disabilità, per costruire un percorso che già in tenera età diventi un progetto includente.

Giovane in carrozzina sulla riva del mare a braccia alzateOvvio, quindi – vale la pena ribadirlo – che si devono considerare dei nuovi criteri, ma la questione più complessa diventa quella di costruire un’unità di misura della gravità distaccata dalla diagnosi, accentuando invece la valenza sociale. A mio modesto parere, infatti, solo questa riformulazione della disabilità stessa consentirebbe di trasformare anche i Centri Diurni in “scatole in cui vivere” e non in percorsi in cui al massimo si sopravvive.
Tutti noi quotidianamente leggiamo di scandali legati ai Centri e la terribile vicenda di Serra d’Aiello in Calabria [il nostro sito se n’è occupato in numerose occasioni, la più recente delle quali con il testo disponibile cliccando qui, N.d.R.] è purtroppo un esempio, non è certo una eccezione. Per uscire da questa attuale stagnazione occorre dunque riconsiderare i cardini iniziali della materia, per costruire sulle esperienze (e le ideologie) del passato una nuova frontiera. La strada pertanto non potrà essere solo quella giudiziaria, con nuove procedure come la legge sulla non discriminazione.

E tuttavia anche questo concetto dovrebbe essere ampiamente dibattuto poiché per chi scrive la non discriminazione supera ampiamente in positivo il concetto di uguaglianza. La non discriminazione, infatti, pone al centro dell’universo giuridico il diritto della persona contro tutte le imposizioni culturali e sociali, mentre il concetto di uguaglianza, così come storicamente pervenutoci, si muove nel rispetto delle convinzioni  sociali, etiche e religiose.
Ovvio che il distinguo tra non discriminazione e uguaglianza meriterebbe ampie valutazioni che in questa sede non possono essere approfondite; mi preme però sottolineare che il concetto di non discriminazione – così come si sta evolvendo giuridicamente – rappresenta a mio parere un superamento del principio di uguaglianza, ovvero un’estensione in avanti del nostro stesso articolo 3 della Costituzione.
Certo, ci si attendeva di più dal Legislatore, ci si attendeva uno strumento compatibile con le gravissime discriminazioni che quotidianamente subisce un qualsiasi disabile. Ci si attendeva più profondità e più interesse verso una problematica nuova ed emergente come potrebbe essere quella del diritto alla disabilità.
Il cammino sicuramente è impervio, ma il dato consolante è che oggi molte famiglie e/o persone colpite dalla disabilità hanno cominciato ad affrontare le problematiche relative all’autotutela giudiziaria. Il dato è nuovo e impressionante: sino a dieci anni fa la parola disabilità nelle raccolte giurisprudenziali era un termine sconosciuto; oggi invece, con una semplice ricerca, si scoprono tantissime sentenze che nel bene o nel male hanno affrontato questo tema.
Questa prima vittoria di alcune famiglie rappresenta sicuramente il primo passo che doveva essere compiuto e anche le associazioni che si occupano di disabilità hanno cominciato ad intraprendere questa strada: basti considerare la costituzione di parte civile della FISH nei processi penali relativi ai fatti di Serra d’Aiello e soprattutto basti leggere le requisitorie del Pubblico Ministero che ricorda quotidianamente il lavoro di denuncia fatto sin dall’inizio dalla FISH Calabria.

Fatto questo primo passo, ora – come si diceva all’inizio – occorre “che il tre sia inserito nel contesto dei numeri”, che il diritto alla disabilità divenga un percorso condiviso.
Ognuno di noi, disabile o meno, potrà essere protagonista di questa avventura, protagonista di una storia che è destinata ad essere vinta e a migliorare l’umanità.
Scusandomi subito per la retorica affermazione, mi piace ricordarmi e ricordare che il “popolo della disabilità” rappresenta la “terza nazione” di questo pianeta – dietro solo alla Cina e all’India – e che immettendo in detto popolo tutte le famiglie dei disabili, si superano ampiamente anche quelle nazioni: pertanto credo che il programma possa sembrare retorico e ambizioso, ma che esistano i numeri per la sua effettiva realizzazione.

*Avvocato. Consulente della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap).

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