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Altro che compassione: bisogna denunciare le responsabilità della società!

Fotomontaggio di cartello stradale che indica «divieto di disabili»«Quando le persone con disabilità acquisiscono uguali diritti, dovrebbero anche avere uguali doveri» (Regole Standard per l’Eguaglianza di Opportunità per le Persone con Disabilità, Nazioni Unite 1993): è da questo principio che bisogna partire per analizzare l’episodio raccontato qualche giorno fa nella testata «la Repubblica.it» da Shulim Vogelmann [e ripreso anche in questo sito, come si può leggere cliccando qui, N.d.R.], giovane scrittore israeliano, testimone di un trattamento discriminatorio nei confronti di un viaggiatore con disabilità in treno.
La lettera – sulla cui esattezza già sono intervenuti altri passeggeri e giornalisti [si legga ad esempio, sempre nel nostro sito, l’intervento di Franco Bomprezzi disponibile cliccando qui, N.d.R.] e sulla quale non mi dilungherò – racconta di un passeggero, con la diversità umana di essere senza braccia e di avere le mani con alcune dita direttamente attaccate alla spalla, salito sul treno senza il biglietto. Non parlando correttamente l’italiano (forse perché straniera), la persona non sarebbe riuscita a spiegare chiaramente ai controllori perché non avesse il biglietto, affermando solo di essere “handicappata”. Nella lettera dello scrittore si evidenziava anche che un controllore avrebbe redarguito il passeggero, sostenendo che quest’ultimo avrebbe potuto fare il biglietto in una macchinetta automatica di stazione.

In realtà, nessuno si è chiesto se la macchinetta automatica consentisse di fare il biglietto a una persona con le sue caratteristiche. Infatti, come afferma la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità delle Nazioni Unite, recentemente ratificata dallo Stato Italiano (Legge 18/09), «la disabilità è il risultato dell’interazione tra persone con menomazioni e barriere comportamentali ed ambientali, che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri».
Purtroppo questa visione della condizione delle persone con disabilità è ancora lontana dall’essere percepita dalla società italiana. Sia nella lettera che negli articoli a commento, infatti, si è data per scontata una visione caritativa e assistenziale dell’episodio. È quello che a livello internazionale viene chiamato il modello medico/individuale della disabilità, che vede le persone che hanno una limitazione funzionale come malate, incapaci, inadeguate, disabili perché non “normali”, per cui hanno bisogno di essere compatite, curate, assistite.
In realtà, siamo stati esclusi per secoli dalla società, rinchiusi in istituto senza nemmeno chiedere il nostro consenso, soggetti a una vera e propria “cancellazione sociale” (la visione sociale imponeva infatti che le famiglie si vergognassero dei loro figli e li istituzionalizzassero, confortate dall’idea che dovessero essere riabilitati, spesso per tutta la vita, prima di essere re-inseriti nella società).
E così milioni di persone nel mondo – solo perché portatrici di caratteristiche socialmente indesiderabili – hanno subìto negli istituti trattamenti inumani e degradanti, vere e proprie torture, come ha fatto emergere un seminario internazionale organizzato dall’Alto Commissario sui Diritti Umani delle Nazioni Unite nel dicembre del 2007.
Oggi sono circa mezzo milione nell’Unione Europea le persone con disabilità segregate in 2.500 megaistituti. In realtà  la società si è dimenticata di loro e non è più in grado di trattare le persone che hanno una limitazione funzionale, rispettando i loro diritti umani. Questo impoverimento sociale di saperi e competenze è risultato evidente nel momento in cui queste persone sono ritornate in società. Si è scoperto così che la società stessa aveva creato ostacoli, barriere e discriminazioni, che impedivano loro di godere degli stessi diritti degli altri cittadini. Ostacoli che quel viaggiatore ha incontrato quando ha cercato di utilizzare una biglietteria automatica.

Non è più tempo di gogna come in passato, ma le persone con disabilità restano ancora sin troppo spesso «cittadini invisibili»Per questo la Convenzione ONU impegna gli stati a «vietare ogni forma di discriminazione fondata sulla disabilità e garantire alle persone con disabilità uguale ed effettiva protezione giuridica contro ogni discriminazione, qualunque ne sia il fondamento». E le discriminazioni cui siamo sottoposti nell’utilizzo del trasporto ferroviario – per citare solo un esempio – sono pesanti: non è una discriminazione poter prendere solo alcuni treni, dove vi è un solo vagone attrezzato con solo due posti riservati? E poter salire e scendere dai treni solo in circa 240 stazioni su 2.400, pur pagando il biglietto?
Dopo anni di lotte del movimento associativo italiano – in particolare della FISH, la Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap – siamo riusciti a fare attrezzare dei vagoni con gli ascensori incorporati per consentire di salire e  scendere dai treni  in qualsiasi stazione, anche in caso di emergenza, ma Trenitalia non li mette in servizio. La tanto pubblicizzata linea veloce Freccia Rossa ha alcuni vagoni attrezzati con questi elevatori, ma i treni viaggiano ormai da un anno senza che queste dotazioni siano messe in funzione: cosa direbbero i viaggiatori se un treno consentisse loro di salire in autonomia sulle carrozze, ma dovessero poi essere assistiti da un servizio di accompagnamento che li costringe ad essere in stazione almeno quaranta minuti prima? Non è questa una discriminazione? Un trattamento differente senza giustificazione? Una violazione di diritti umani? Perché viaggiatori come gli altri sono trattati come “passeggeri di serie B”, con risorse pubbliche utilizzate per attrezzare treni con dotazioni mai messe in funzione?

Per cui, se si vuole intervenire sulla vicenda di quel viaggiatore focomelico (orribile parola “scientifica” e che significa “arto da foca”, ovvero simile alla foca, a testimoniare come la visione negativa che la società ci sottopone abbia contagiato anche la scienza medica), non si devono usare toni caritativi e patetici, bensì interrogarsi sulle responsabilità della società, che ci ha resi “cittadini invisibili”, soggetti a discriminazioni e mancanza di pari opportunità rispetto agli altri cittadini.
La “banalità del male” citata in un articolo della «Repubblica» dei giorni scorsi è che in tutti i campi della vita sociale, dall’accesso ai beni e ai servizi, così come nel godimento di diritti e libertà fondamentali, la società ci limita nella nostra partecipazione, assegnandoci uno stigma negativo che essa stessa ha prodotto.
Non dobbiamo e non vogliamo più essere trattati come se fosse nostra la colpa di muoverci in sedia a rotelle, di comunicare senza l’uso della parola, di orientarci con un cane guida, di relazionarci al mondo a cuore aperto!
Oggi tecnologie, saperi e conoscenze offrono la possibilità di rimuovere situazioni disabilitanti. Il paradosso di Oscar Pistorius, l’atleta che corre con due arti amputati, con l’ausilio di protesi appropriate, dimostra che la disabilità è un prodotto sociale, determinato storicamente. In questo i mass media hanno una responsabilità pesante, perché usano un linguaggio pietistico, obsoleto, bandito dal linguaggio internazionale, che ci dipinge come incapaci e inadeguati a vivere in società, oscurando le reali responsabilità sociali per la nostra condizione di cittadini dei quali vengono violati ogni giorno e in ogni ambito sociale i diritti.
Il primo modo per superare la “banalità del male” è dunque proprio quello di descrivere in maniera culturalmente corretta e competente la nostra condizione e segnalare quanto la società continui a renderci disabili.

* Membro dell’Esecutivo mondiale di DPI (Disabled Peoples’ International).

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