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La vera cecità è quella che circonda Sergio

Copertina del libro «I colori del buio»Non è un romanzo sulla cecità, I colori del buio di Laura Boerci e Filippo Visentin, ma al contempo lo è. Per gli autori non si trattava di mettere in scena – magari con accenti buonisti fin troppo tipici del carattere italico (e utili spesso solo per sentirsi con la coscienza a posto) – la storia di un ragazzo cieco. Che certo resta uno dei perni della narrazione, ponendosi in primo piano nella seconda metà del libro. La vera cecità, però, è quella che circonda Sergio. Intorno a lui, infatti, si fa palese la cecità delle figure che non riescono a vedere oltre i propri pregiudizi. Sia che si tratti di Fausto, che manifesta un senso di inferiorità di fronte alla ricchezza interiore che vagamente intuisce nel suo rivale mediante le parole di Marta, sia che si tratti della madre di Sergio, che per eccesso di apprensione mantiene il figlio prigioniero in una gabbia di isolamento e solitudine. E ancora, è cecità collettiva di cui fa le spese Susanna, la ragazza ribelle che, nell’indifferenza generale, consuma una tragedia personale che le lascia addosso una cicatrice indelebile.
È una società dalla doppia morale, quella di Badile [borgo situato a una decina di chilometri di Milano, N.d.R.], capace da un lato di stringersi attorno alle famiglie del paese in occasione dei matrimoni, dei funerali o degli incidenti, dall’altro di insinuare malizia dove non v’è altro che sincerità dei sentimenti. Nell’armonia e nella placidità della vita contadina, scandita dai ritmi naturali e religiosi, non si trova una lode dei tempi andati. Lungo tutto il romanzo sono disseminati segni di critica, affidati specialmente alla viva voce di personaggi come Susanna, Sergio, lo zio Lino, e anche il piccolo Giuseppe. E fa pensare il fatto che questo paese del ’48 ricordi certe realtà ancora presenti e vive ai giorni nostri, pregiudizi che fanno fatica ad abbandonare la mentalità delle piccole comunità di paese, ma non solo. La difficoltà a rapportarsi con l’altro da sé è forte e diffusa un po’ ovunque e scatena tendenze conservative, di chiusura, che nascondono solo debolezza e paura.

Tutto questo è reso, nel romanzo, mediante una freschezza che rende la lettura un vero piacere, dalla prima all’ultima pagina, dove sopraggiunge immediato il solo rammarico di aver già divorato (così in fretta!) una storia gustosa, capace di accompagnarci anche dopo che il volume è stato riposto sullo scaffale. I personaggi prendono corpo e vita fin dalle prime battute, ben definiti nel loro carattere e nelle loro aspirazioni.
Bellissimo, per l’estrema delicatezza che lo contraddistingue, il capitolo 24, poco più di un frammento: «Le mani di un ragazzo lambivano il profilo degli oggetti quasi a cercarne l’anima. Erano mani delicate e curiose. Toccavano le ante di legno della finestra con la vernice sfogliata dal tempo, il davanzale in marmo liscio e freddo, i vasi di terracotta intiepiditi dal sole. Quel ragazzo era Sergio, il figlio del dottor Bramanti. Sotto di lui un fischiettare allegro. Fausto, sì, gli sembrava si chiamasse così il giovane che si sarebbe occupato del giardino. Sorrise fra sé pensando a quante sua madre gliene avrebbe fatte passare…».
Se ne vorrebbe sapere di più, di questa ricerca sensoriale che, ai più, sfugge. Anche la vista può trasformarsi in una forma di cecità, come ben spiega Sergio a Marta, cercando di illustrarle il modo in cui un cieco vede, percepisce il mondo che lo circonda. Le sue parole restituiscono la magia dell’universo percettivo di chi non si serve degli occhi per vedere, ma dell’intero suo corpo, e fanno scoprire questa condizione come risorsa e ricchezza, più che come menomazione. Poche, azzeccate parole per riflettere.
Riuscita è senz’altro anche la conclusione, per niente scontata, della vicenda che vede protagonisti Marta, Sergio e Fausto. Ha il sapore lontano di certi romanzi ottocenteschi, con le loro eroine d’amore capaci di rinuncia esteriore, ma in fondo sempre fedeli al loro cuore.

Un’attenzione particolare merita anche il ruolo della musica, come linguaggio che scavalca le barriere fisiche e sociali, nonché come mezzo per realizzare i propri sogni. E non tanto per ansia di riscatto, bensì per intima esigenza, per un bisogno di arte, di bellezza, di pienezza di vita che va oltre i limiti del corpo e della società.
C’è tutto questo, nei Colori del buio, e molto altro ancora. Lo si può leggere ad esempio come storia del passaggio dall’inquietudine dell’adolescenza all’età adulta, con le implicazioni, talvolta, crudeli, che ciò comporta. Come ritratto di una società solo apparentemente immobile, ma in realtà in trasformazione, con l’affacciarsi di generazioni disposte a lottare per affermare il diritto a realizzare le proprie aspirazioni, uscendo dal tradizionale immobilismo della realtà rurale. È un romanzo dinamico, dunque, vivace. Un esordio per gli autori (inteso come lavoro di coppia, ché Laura Boerci è già nota ai lettori per il suo L’aura di tutti i giorni), che lascia ben intuire l’armonia di un sodalizio che va oltre la scrittura.

E poiché un libro non è solo testo, ma esperienza che coinvolge più sensi, va spesa qualche parola sull’immagine di copertina, uno scatto del fotografo Ettore Visentin, padre di Filippo, assai evocativo. Un ragazzo a piedi nudi sul terreno ricoperto di chicchi dorati tiene in mano un rastrello, ma di lui si scorgono solo le gambe e l’ombra. È prima di tutto un richiamo alla realtà contadina, che offre lo scenario alla vicenda narrata, ma crea anche un gioco con il titolo, I colori del buio, e attiva l’immaginazione, impegnandola a costruire ciò che viene svelato solo dall’effimera impronta dell’ombra, di per sé priva di colore e di sostanza. Buona lettura!

*Germanista e lettrice.

– Laura Boerci è nata nel 1969 a Milano. Laureata in Scienze Politiche (indirizzo sociologico), dal 1997 ha dato inizio alla sua carriera di autrice e regista teatrale, fondando la Compagnia “I Legamani” per la quale ha scritto quattordici commedie rappresentate in diverse Regioni d’Italia (nel nostro sito ci siamo occupati a suo tempo di Tra il bianco e il nero, come si può leggere cliccando qui). Nel 2007 ha pubblicato il suo primo romanzo L’aura di tutti i giorni (Ibiskos Editrice Risolo), giunto alla sua terza edizione. Affetta da amiotrofia spinale, malattia assai invalidante, ama affrontare le sfide con grinta e scoprire ogni giorno i colori della vita, che poi immortala nei suoi quadri dipinti a bocca. È assessore agli Affari Generali, alla Biblioteca, al Tempo Libero e all’Accessibilità presso il comune di Zibido San Giacomo (Milano), dove risiede. Il suo sito è www.lauraboerci.com.
– Filippo Visentin è nato nel 1970 a Padova, dove vive e lavora presso il Settore Comunicazione della Provincia. Non vedente, è laureato in Storia Contemporanea e ha pubblicato nel 1997 il volume L’opera di Carlo Rosselli (Unipress). È musicista e tiene recital pianistici in italia e all’estero, collaborando anche con scrittori e attori teatrali. Il suo sito è www.filippovisentin.com.

Laura Boerci, Filippo Visentin, I colori del buio, Empoli, Ibiskos Editrice Risolo, 2009 (collana “Anthurium”), 202 pagine, 15 euro.

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