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In declino la partecipazione del cittadino nella Sanità dell’Emilia Romagna

Nel 1972 – con il nome di Lega per i Diritti del Malato – iniziammo a Bologna l’attività associativa di difesa dei diritti della persona affetta da malattia e/o disabilità. La nostra associazione costituiva una prima forma di partecipazione dei cittadini alla gestione della sanità ed era particolarmente attiva nella difesa dei diritti dei malati cronici non autosufficienti, troppo spesso letteralmente “calpestati” dalle nostre Istituzioni.
La partecipazione dei cittadini – esercitata tramite le loro associazioni e i sindacati dei pensionati attivi nel comparto sanitario e sociosanitario – era già sviluppata nella Regione Emilia Romagna, quando nel 1992 iniziammo col professor Achille Ardigò la prima esperienza dei Comitati Consultivi Misti, che divenne Legge Regionale nel 1994 [Legge Regionale Emilia Romagna n. 19/94, N.d.R.], come applicazione dell’articolo 14 del Decreto Legislativo 502/92.

Particolare del volto di un uomo anziano - fotografato in bianco e nero - con espressione perplessa e mani sulla boccaEbbene, a distanza di sedici anni si deve constatare in Emilia Romagna un declino della partecipazione dei cittadini e delle loro associazioni, non a caso seguita all’eclissi della presenza dei rappresentanti politici e all’affermarsi del potere dei funzionari, sia in Regione che nelle AUSL. L’assessore regionale alla Sanità, ad esempio, da molti anni non partecipa più alle riunioni del Comitato Consultivo Regionale per il controllo della qualità (CCRQ) da parte dei cittadini e degli utenti.
La priorità che si afferma è il pareggio del bilancio e ogni mezzo è utile pur di raggiungere lo scopo. I dirigenti medici e non medici sono giudicati su questa base e perciò seguono con diligenza la politica dei tagli, a partire dal massimo dirigente che riduce i posti letto, fino all’assistente sociale che propone alla famiglia di pagare in proprio tutte le spese dell’RSA [Residenza Sanitaria Assistita, N.d.R.] per molti mesi, almeno finché l’AUSL non sarà in grado di cominciare a prendersi carico della metà dei costi totali, mentre la legge prescrive che ciò debba avvenire da subito. Si direbbe che i dirigenti e gli operatori temano che i cronici ritardi nei pagamenti delle AUSL, che fino ad ora hanno riguardato soltanto i fornitori esterni, possano domani toccare anche i loro stipendi sicuri, non soggetti ai licenziamenti della crisi.

Ma non vi sono soltanto i noti problemi economici che riducono i diritti del malato, vi è anche un ritorno di fiamma del paternalismo medico. Fra i diritti dei malati più recentemente calpestati, dobbiamo infatti annoverare anche quello a conoscere la diagnosi della propria malattia. La Delibera di Giunta Regionale dell’Emilia Romagna n. 107 del 1° febbraio 2010, concernente lo screening delle malattie metaboliche rare nei neonati della Regione, contro l’esplicito parere delle associazioni dei malati espresso nell’aprile del 2008 e riaffermato nel novembre del 2009, segue pedissequamente le indicazioni dei suoi “medici paternalisti”. Questi ultimi hanno impiegato ben diciannove mesi per discutere – ovviamente escludendo deliberatamente la partecipazione delle associazioni e del CCRQ – e rispetto allo screening che avviene da ben sei anni in Toscana su quaranta patologie metaboliche rare, ne hanno tolte diciassette. La motivazione addotta è stata che in questo modo si risparmierebbe ai genitori un dolore diagnostico inutile, in quanto per quelle diciassette patologie (quasi sempre mortali o gravemente invalidanti) non esiste la cura.
Si dimentica però che il primo diritto del malato o di chi lo rappresenta (i genitori) è quello di conoscere la patologia da cui è affetto, anche prima che i sintomi si manifestino. Si ricorda a tal proposito che una coppia di genitori con un figlio di due giorni di vita potrebbe essere molto interessata a conoscere la diagnosi in vista di procreare altri figli con alte probabilità di avere la stessa malattia; e anche che il Servizio Sanitario Nazionale non spende un centesimo in più, allargando la diagnostica ad altre diciassette patologie, ma anzi risparmierà in futuro, quando la malattia sicuramente si manifesterà e l’ignaro pediatra dovrà effettuare mille esami prima di arrivare a scoprire che si tratta di quella patologia rara.

La tendenza a nascondere ai genitori la diagnosi di malattie che non hanno ancora una cura risolutiva si manifesta anche in altri casi, quando ci sono già gravi sintomi: ad esempio in tutti i casi con sindromi autistiche si dovrebbe effettuare il protocollo di esami che la stessa Regione Emilia Romagna ha ufficialmente approvato nel 2004, comprendente la carenza enzimatica dell’adenilsuccinatoliasi; ma nessuno in Regione ha mai fatto questo semplice esame delle urine.
Di recente, poi, è stato scoperto un gene – il CDKL5 – che provoca una sindrome autistica, ma nessuno esegue neppure questo esame. In questo modo si impedisce che i genitori possano associarsi e adoperarsi perché inizino le ricerche anche in questi settori orfani, quelli delle malattie molto rare.

Se nel 2003, Anno Europeo delle Persone con Disabilità, uscì lo slogan Nulla su di Noi Senza di Noi, oggi, dunque, sentiamo tradito questo che dovrebbe essere un principio intoccabile.

*Presidente del Tribunale della Salute di Bologna. Testo prodotto in occasione del Convegno Sanità è partecipazione, organizzato il 17 aprile 2010 a Bologna da Italia Futura.

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