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Ti racconto la mia storia

Locandina di una conferenza del 2004 dedicata al fine vita e promossa dal NIH (National Institutes of Health), celebre Centro di Ricerca degli Stati UnitiIn questi anni gli organi d’informazione hanno spesso affrontato il tema del fine vita nelle malattie degenerative soprattutto in riferimento al dibattito bioetico, parlando ad esempio di testamento biologico, eutanasia e rapporto tra libertà personale e norma dello Stato nello stabilire il momento della morte quando, per l’introduzione di macchinari e cure invasive, la sua evidenza naturale non è più un limite chiaro. Qui, invece, vogliamo affrontare il tema della morte uscendo dal confronto ideologico, etico, politico e sociale ed entrando invece – con più delicatezza possibile – nella sfera intima delle persone che si apprestano a morire. Infatti, anche se si tratta di un argomento che la nostra società tende ad evitare, vale invece la pena guardarlo in faccia e trattarlo per quello che è, e cioè per una parte, importante e imprescindibile, della vita di ognuno di noi.
Ed ecco la domanda che ci siamo posti: di cosa ha bisogno una persona che si avvicina alla morte al termine di una malattia degenerativa? Consideriamo questa volta solo le persone in stato cosciente e chiediamoci che cosa significa per loro la parola benessere.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) dice che il benessere non può essere misurato solo attraverso un indice corporeo e che bisogna invece considerare anche la sfera mentale, emotiva, sociale e spirituale. Garantire il maggior benessere possibile a un malato terminale significa allora provvedere non solo alla cura del suo corpo?
Lo abbiamo chiesto a Nicola Martinelli che ha dedicato una parte importante della sua vita alla riflessione su questi temi. Assistente sociale, tra il 2003 e il 2004 Martinelli ha lavorato al CRO (Centro di Riferimento Oncologico) di Aviano. Recentemente, per il suo Comune che si trova in provincia di Treviso, ha seguito la fase terminale di un uomo quarantenne affetto da SLA (sclerosi laterale amiotrofica). Inoltre, ha accompagnato alla morte diverse persone e ritiene che questo percorso non si possa limitare alla dimensione della cura del corpo. Nel 2009, insieme a Patrizia Lisi, Rita Floridia e Ugo Albano, tutti assistenti sociali, ha pubblicato il libro intitolato La dignità del morire. Intervento sociale, bioetica, cura del fine vita (Molfetta – Bari -, Edizioni La Meridiana).

In base alla sua esperienza, di che cosa avrebbe bisogno un malato terminale, al di là delle cure materiali?
«Di qualcuno che lo ascoltasse. Un ascolto empatico, intendo, di chi è capace di sintonizzarsi profondamente. Non un ascolto fatto di risposte, che non ci sono, quanto di rispetto del tempo lento. Chi si trova alle soglie della vita ha bisogno di un testimone del proprio passaggio. Morire in solitudine credo sia un’esperienza più difficile».

Perché un testimone?
«Ho notato che quando una persona sa che sta per morire può reagire in due modi diversi. Ci sono persone che non accettano la fine e tirano fuori una grande aggressività, che a un certo punto poi si trasforma in rabbia. Verso la malattia, verso la struttura che li accoglie o il sistema sanitario in generale, verso i familiari eccetera. A dire il vero sono molte le persone che si comportano così. In questi casi non c’è davvero bisogno di un testimone, forse piuttosto di qualcuno che ascolti almeno qualcuno dei loro sfoghi.
Ci sono però anche persone che invece, a un certo punto, accettano la loro condizione e si “rilassano”. Allora ho visto accadere qualcosa di molto particolare. Il loro sguardo cambia e iniziano a vivere intensamente questo ultimo periodo della loro vita. È in tale situazione che cercano un testimone, perché hanno bisogno di qualcuno cui raccontare la propria vita, per trovare un senso a quello che hanno vissuto e, infine, lasciarlo andare».

Copertina del libro «La dignità nel morire»È il ruolo che di solito nella nostra cultura spetta al sacerdote?
«Non tutte le persone sono cattoliche e praticanti, però. Certo, chi ha fede apprezzerà la presenza di un ministro del suo culto, ma quello che si apre qui è un percorso spirituale, di ricerca di senso universale.
C’è una differenza tra spiritualità e religione. La seconda offre delle risposte, dei contenuti. La prima apre delle domande, senza risposte, sul senso della vita e sulle ragioni della sofferenza. Sono convinto che un sistema di welfare non possa prescindere da questi argomenti. E debba affrontarli in termini spirituali, appunto, non religiosi, visto che le scelte religiose sono personali. Secondo me i medici e gli operatori dovrebbero essere formati anche su questi aspetti relazionali».

Perché una persona “ai confini della vita” ha spesso il desiderio di raccontarsi?
«Per il motivo che ho appena detto. Perché cerca un senso profondo da attribuire alla propria vita. Il momento della morte può essere un momento di grande verità. Certo, anche di grande finzione…».

Di grande finzione?
«Una sera con un mio collega, prima di staccare dal turno, siamo passati a salutare una paziente. Lei ci ha detto: “Questa è l’ultima volta che ci vediamo”. Io sono rimasto zitto. Il mio collega ha scherzato: “Ma no, dai, perché deve dire così? Domani ci vediamo e ci facciamo una bella chiacchierata”. Quella notte la donna è morta. Ecco, questo è un buon esempio di verità e di finzione. La donna era nella verità. Sapeva che sarebbe morta nel giro di poche ore e non aveva paura di dirlo. Il mio collega lo sapeva anche lui, ma recitava la parte di chi finge che la morte non esista. L’ho visto accadere molte volte. I familiari fingono di credere che il parente ammalato si riprenderà e si mostrano ottimisti con lui, per paura di deprimerlo. A sua volta, il malato, per timore di intristire i suoi cari, finge di credere in una guarigione. Anche il personale sanitario partecipa a questa “recita”».

E se invece ci si dice la verità?
«Si risponde, credo, a un bisogno esistenziale più profondo. Una persona che sta per morire non ha più niente da perdere».

Un familiare può essere il “testimone” oppure occorre un estraneo?
«Se la relazione è di verità, il familiare è la persona più indicata per questo tipo di ascolto intimo. Ma se la relazione tra il malato e la persona cara è basata sulla finzione, allora è più probabile che il morente cerchi in qualcun altro, forse un operatore, la figura del “testimone”. Sono cose che non si improvvisano all’ultimo momento. Dipende da come si è vissuto.
Ho assistito a una coppia, lei era malata terminale, che è riuscita a rafforzare in quegli ultimi mesi l’amore che li aveva tenuti insieme. Ma tra loro c’era un linguaggio di verità. In questi casi quello che emerge non è tanto la morte, ma una vita di qualità, vissuta con pienezza».

Come può essere così sicuro di quello che dice?
«La Fondazione Zancan di Padova sta conducendo una ricerca su una decina di strutture e i primi dati dimostrano che se nella cura si aggiunge l’elemento spirituale si ottiene un valore aggiunto.
Mani che stringono quella di un'altra personaMi baso anche su un’esperienza personale. Nel 1995 ho avuto un incidente stradale e del periodo vissuto in ospedale ricordo bene due cose. La sovrastruttura mentale con cui ero cresciuto è saltata all’improvviso ed è sorto in me un atteggiamento nuovo, genuino, onesto. Riesco a riconoscere questo stesso passaggio anche in molte delle persone che ho accompagnato alla morte. Per questo, quando attorno a loro c’è una situazione di finzione, di negazione della morte, per loro la sofferenza aumenta. Perché avrebbero bisogno di guardare in faccia la verità e invece, magari per non turbare chi sta loro accanto, si sforzano di distrarsi.
Inoltre, in quei giorni, ho sperimentato anche un’altra cosa. Per lottare contro la mia morte, avevo tirato fuori tutte le mie risorse. Nei malati terminali vedo accadere anche questo».

Mettono in campo tutte le capacità?
«Tutte le energie, tutte le risorse personali. Per raggiungere gli obiettivi più profondi. Ho visto persone cercare la riconciliazione con familiari con cui non si parlavano da anni. Non erano mai riusciti ad affrontare la questione e ora, improvvisamente, trovavano la forza di chiamarli, incontrarli, scegliere le parole da dire».
Come si muore in ospedale?
«Morire in un ambiente estraneo non è facile. Alcuni hospice si stanno attrezzando anche dal punto di vista dell’arredamento. Scelgono colori caldi in modo da creare un ambiente più accogliente. Offrono al familiare un letto accanto a quello del paziente e anche la possibilità di frequentare la struttura senza vincoli di orario e di rimanere a cucinarsi qualcosa da mangiare. Sono tentativi, ancora non ben strutturati, di superare la frattura ambientale che è inevitabile».

In ospedale c’è chi muore da solo?
«Certo. Accade ed è tremendo. Ci sono persone che trascorrono le giornate in solitudine e il tempo per loro diventa interminabile. Per questo ritengo sia tanto importante il percorso introspettivo al cospetto di un testimone. Allora anche quei giorni assumono un significato fondamentale nella vita della persona. La psicologa Marie de Hennezel sostiene ad esempio che le persone che raccontano a qualcuno la loro vita prima di morire poi sono in grado di “mollare la presa e morire in pace”». (Barbara Pianca)

*Assistente sociale. Autore del libro La dignità nel morire, scritto insieme a Patrizia Lisi, Rita Floridia e Ugo Albano (Molfetta – Bari -, Edizioni La Meridiana).
La presente intervista è apparsa anche – in versione ridotta – in «DM», periodico nazionale della
UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare), n. 172 (dicembre 2010) e viene qui ripresa – in versione integrale – per gentile concessione.

Su temi vicini a quelli trattati nella presente intervista, segnaliamo anche – sempre nel nostro sito – il testo curato da Barbara Pianca, con il titolo Perché ci fa paura parlare della morte, disponibile cliccando qui.
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