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Non si risolvono i problemi di relazione di quei bimbi, isolandoli dai compagni

Immagine di bimbo in un puzzle, con le mani avantiMi chiedo come si possano risolvere i problemi di relazione di un bambino autistico isolandolo dai compagni e mi chiedo anche come si possa sentire quello stesso bimbo a stare sempre con i medesimi adulti, anche nei momenti di ricreazione.
Tanto meno, poi, è possibile pensare di avere un buon risultato partendo dalla didattica o avendo come priorità la letto-scrittura. Per capirci: la paginetta dell’ABC e le fotocopie in bianco e nero prese dai libri sono generalmente una vera e propria tortura e un ottimo metodo per aumentare la frustrazione.
Immaginate che vi presentino un compito fitto di geroglifici e vi chiedano, magari in arabo, di completarlo, mentre voi non siete in grado assolutamente di comprenderne il significato e lo scopo. Immaginate la frustrazione derivante dal non riuscire, dal non capire e dal non saper gestire la comunicazione, che è spesso alla base di quei comportamenti problematici che non pochi insegnanti (forse tutti) percepiscono come incomprensibili e privi di un’apparente causa scatenante.
Spesso si sente dire dagli insegnanti: «Non vuole scrivere», «Ha strappato il compito», «Se gli chiedo di fare qualcosa si butta per terra» e simili. Non si vuole accettare che l’obiettivo preminente sia quello di entrare in contatto con loro e che i coetanei possano essere “istruttori”, “insegnanti” e amici, nonché strumenti per costruire una relazione.
Non si vuole comprendere che proprio le attività educative di tipo “1 a 1”, con il bambino in classe o fuori, sono quelle che lo “isolano” dal gruppo dei coetanei. Sembra quasi offensivo e inutile sottolineare che l’isolamento porta inevitabilmente a innesti psicotici, indicativi di una chiusura al mondo esterno, specie se applicata a persone già segnate da sindromi patologiche le quali comportano, automaticamente, proprio il rinchiudersi in se stessi. E dunque la persistenza di questo stato di cose può solo determinare un rinforzo di questo stato di fatto. Perciò sarebbe consigliabile che il rapporto “1 a 1” fosse per lo più a casa e nel corso del setting riabilitativo.
Perché nello specifico caso dei bambini con disturbi pervasivi dello sviluppo (DPS), l’interazione tra loro e i compagni “tipici” non è fluida, come normalmente accade tra coetanei: il bambino con DPS, infatti, non capisce bene come interagire con un coetaneo e, d’altra parte, un bambino “tipico” può trovare laborioso interagire con il suo amico “speciale”. Laddove poi a questa difficoltà di interazione insita nella natura stessa del disturbo, si aggiunga l’interferenza di comportamenti disadattivi che possono rendere quel bambino affetto da DPS “diverso” agli occhi dei coetanei, si crea solitamente una “barriera” che impedisce ai coetanei stessi di relazionarsi con lui. E ciò nonostante, tali relazioni sono assolutamente vitali per lo sviluppo emozionale di un bimbo affetto da tale patologia.

Sicuramente, dunque, il principale obiettivo che si deve perseguire è proprio quello di introdurre il bimbo in un contesto di coetanei con i quali non può fare a meno di avere scambi socio-comunicativi. Ed è così che la scuola può realmente diventare la “palestra privilegiata” della sua capacità di relazionarsi con gli altri.
Senza dimenticare, per altro, che – come enfatizzato dalla più recente letteratura – spesso un bambino con disturbi pervasivi dello sviluppo, quando manifesta comportamenti disadattivi ad alta frequenza, finisce per essere “isolato dal gruppo”, che si limita a “prendersi cura di lui”, ma non lo coinvolge in attività che sono fondamentali per la crescita emozionale di qualunque persona, come feste, occasioni d’incontro e altro ancora.

*Genitore.

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