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Una petizione per evitare classi speciali mascherate e per ridar fiato all’integrazione

Ragazzo con sindrome di Down a scuolaMaria Chiara e Giuseppe (18 anni), Chiara (16 anni), tutti e tre con sindrome di Down, si sono visti in breve tempo privati del loro diritto di sentirsi parte – nonostante la diversità che il loro danno genetico comporta – della scuola di tutti. E ciò che fa ancora più male è che questo loro diritto sia stato negato in totale contraddizione con lo stesso operato della scuola che fino a quel momento aveva favorito e reso possibile un percorso formativo perfettamente integrato nel curricolo delle varie classi di appartenenza. Ecco la loro storia in breve.

Fin dai primi anni di frequenza della Scuola Primaria e poi della Secondaria di Primo Grado, famiglie e insegnanti avevano lavorato di comune accordo, con l’obiettivo di individuare e mettere in pratica tutte le possibili strategie in grado di mettere in luce e valorizzare le loro capacità di apprendimento.
La sindrome di Down – come diverse altre patologie che comportano una disarmonica integrazione delle funzioni neuropsicologiche e cognitive – compromette notevolmente in chi ne è affetto la relazione con la realtà esterna, a partire dalla comunicazione verbale, che risulta – in mancanza di opportune strategie alternative di supporto – povera, frammentaria, ripetitiva e disorganizzata. Tutto ciò viene spesso interpretato come sintomo di scarsa intelligenza, di ritardo mentale medio-grave, che “giustifica”, nelle persone “normali”, l’atteggiamento di “benevolo” paternalismo nei confronti dei disabili.
Ma la storia dei tre ragazzi era cominciata appunto in modo diverso. Grazie infatti alla collaborazione di scuola e genitori, avevano potuto avvalersi – Chiara fino al termine della Secondaria di Primo Grado, gli altri due sino alla fine del biennio del Liceo Scientifico di Gorizia – della strategia alternativa di comunicazione, denominata Comunicazione Facilitata, mediante la quale, riuscendo a riorganizzare le funzioni neuropsicologiche compromesse dalla loro sindrome, hanno potuto dimostrare di possedere capacità di pensiero e di rielaborazione dei contenuti trasmessi dalla scuola.

La Comunicazione Facilitata, per chi non la conosce, è certamente un approccio all’handicap sconvolgente, perché in netto contrasto con il senso comune. È difficile, per un “normale”, credere che la persona che appare così palesemente handicappata, che non sa esprimersi autonomamente, abbia poi un mondo interiore ricco anche di “pensieri” e non sia solo in grado di manifestare emozioni a livello infantile.
Per questo motivo la Comunicazione Facilitata è spesso avversata a priori, senza entrare nel merito del suo funzionamento e senza conoscere minimamente i risultati che ha permesso di ottenere in molti casi (sia nella Scuola Superiore che all’Università), che un tempo sarebbero stati reputati irrecuperabili, senza alcuna possibilità di accesso a studi superiori.
Ma, ripetiamo, la storia dei tre ragazzi era cominciata sotto i migliori auspici: i docenti di sostegno si erano resi disponibili a sperimentare la Comunicazione Facilitata e i docenti delle diverse discipline avevano valutato molto positivamente il profitto raggiunto, tanto da orientare Chiara al Liceo Scientifico di Monfalcone (Gorizia) e da certificare – nel caso di Giuseppe e Maria Chiara – la loro idoneità ad affrontare il triennio.

I problemi sono cominciati per i ragazzi più grandi lo scorso anno, all’inizio della classe terza, e per Chiara soprattutto nell’attuale secondo anno del biennio, quando la scuola – nonostante i buoni risultati conseguiti in precedenza – su indicazione dell’Ufficio Scolastico Provinciale (che tra l’altro non ha alcuna competenza per entrare nel merito dell’autonomia didattica), ha deciso di non continuare nell’applicazione della Comunicazione Facilitata, creando notevoli difficoltà ai ragazzi, non più messi in condizione di esprimere i loro saperi.
L’anno scorso, dunque, di fronte alle chiusure degli insegnanti del triennio, le famiglie avevano deciso di ritirare Maria Chiara e Giuseppe dal liceo che frequentavano a Gorizia, per iscriverli allo Scientifico di Cervignano (Udine), scuola che si era dichiarata disponibile ad avviare una sperimentazione sulla Comunicazione Facilitata con l’appoggio dell’Azienda Sanitaria.
Ma con il nuovo anno le cose sono cambiate in modo radicale, riproducendosi inspiegabilmente nel Liceo di Cervignano le stesse chiusure dell’anno precedente e peggiorando sensibilmente la situazione già precaria di Chiara nella scuola che continuava a frequentare.
Il fatto è che l’Ufficio Scolastico Provinciale – sia quello di Gorizia che quello di Udine, diretti all’epoca dalla stessa persona, il professor Pietro Biasiol – e la Direzione Scolastica Regionale, non sappiamo quanto sollecitati o meno dagli stessi Dirigenti Scolastici, sono intervenuti con proprie comunicazioni e in un ambito – è il caso di ribadirlo nuovamente – di mera competenza delle singole scuole, dichiarando che la Comunicazione Facilitata non può essere utilizzata in sede di valutazione, contraddicendo in questo una precisa norma nazionale che discende dalla Legge 104/92 e che dichiara esplicitamente che «per gli alunni handicappati sono consentite prove equipollenti e tempi più lunghi per l’effettuazione delle prove scritte o grafiche e la presenza di assistenti per l’autonomia e la comunicazione» [articolo 16, comma 3, N.d.R.].
Ogni verifica è diventata pertanto un fallimento, una sequela di voti pesantemente negativi che lede l’autostima dei ragazzi, ciò che naturalmente viene imputato dalle scuole alle famiglie, “colpevoli” di non riconoscere l’handicap dei propri figli, quasi che queste avessero rifiutato la certificazione e il conseguente sostegno, ovvero come se il sostegno equivalesse tout-court alla differenziazione del programma e non appunto alla messa in atto di tutti quei supporti necessari a colmare il gap che l’handicap comporta.
Ma oltre ai voti negativi, ciò che è peggio è che i ragazzi hanno iniziato a sentire attorno a sé un clima di sospetto, ad avvertire che per compagni e insegnanti le loro capacità cognitive sono reputate il risultato di un “trucco“, ciò che li ha fatti precipitare in uno stato di sofferenza fino alla depressione.

Perché non si vuole permettere a questi studenti di continuare il corso di studi prescelto, supportati da strategie che consentano loro di superare le difficoltà dovute alla loro disabilità? Hanno forse osato troppo? Questo almeno per un ambiente culturale e sociale di scarse vedute. Certo, la scuola li ha iscritti e accettati, ma a patto che rimangano nel loro “ghetto”.
Valeva dunque la pena di abolire le classi differenziali se poi esse vengono comunque replicate, con l’ipocrita aggravante che sono mascherate all’interno di una classe normale? Che sia la fine di un sogno?

Per cercare di risolvere queste scandalose situazioni e consentire non solo a questi tre ragazzi, ma anche a tutti quelli che necessitano di tecniche alternative per comunicare e svolgere il lavoro scolastico, l’Associazione Diritto di Parola di Gorizia ha pensato di attivare una petizione a livello nazionale, assieme alla rete di Centri e Associazioni specializzati nella Comunicazione Facilitata, cui le persone sensibili possono aderire per tutelare i diritti di chi non può esprimere i propri bisogni.
All’8 aprile scorso, solo on line, erano già più di 1.600 le persone che avevano aderito, fra le quali molti docenti di varie Università italiane, da nord a sud, insieme ad esponenti del mondo culturale e letterario.
La discriminazione che oggi tocca a noi può colpire domani qualunque persona che per un qualsiasi motivo sia difforme dal senso comune: infatti, quando è leso il diritto di uno, è tutto l’edificio della giustizia ad essere incrinato.

*Per l’Associazione Diritto di Parola di Gorizia (dirittodiparola@libero.it).

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