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Come andare oltre il «pianeta delle paure»

Emilia NapolitanoIl “pianeta donna” è sempre considerato misterioso, complesso e insondabile. Immaginiamoci quando ad esso si aggiunge la condizione di disabilità. In Emilia Napolitano, psicologa, psicoterapeuta, consulente alla pari, donna con disabilità, già presidente di DPI Italia (Disabled Peoples’ International), abbiamo trovato una guida fantastica per esplorare queste dinamiche. (Gaia Valmarin)

Nonostante la sua disabilità, lei è diventata una donna molto conosciuta e richiesta nell’ambito sociale, contesa come partecipante a molti convegni e seminari. Come ha sviluppato il suo percorso di vita per arrivare a questi livelli?
«Intanto, grazie per le cose che ha detto e che prendo come un complimento! Sì, è stata una bella avventura! Molto dura! Ripercorrendo un po’ tutta la mia vita, ricordo che gli anni dell’infanzia fino alla quinta elementare sono stati bellissimi! C’era l’inconsapevolezza e c’erano le mille attenzioni da parte della mia famiglia. In particolare, mio padre è stata una figura molto importante per la mia formazione in ambito scolastico. Con lui ho avuto da sempre un legame quasi simbiotico e gli devo molto per le continue sollecitazioni alla sfera cognitiva. Questo ha fatto sì che ora, in età adulta, rivendico la mia intelligenza e la mia sensibilità verso tutto ciò che è conoscenza, come aspetti che più mi piacciono di me stessa; mia madre, donna molto semplice, è una figura che sai che c’è e su cui ti puoi adagiare quando chiedi un po’ di “morbidezza alla vita”; i miei fratelli che amo, ma che purtroppo non vivo quanto vorrei, data la differenza di età e il fatto che, essendo maschi, sono usciti presto da casa. Purtuttavia, sono persone molto presenti e vicine quando ce n’è l’esigenza. Inoltre, un’altra figura importante in questa fase è stata la mia insegnante unica delle elementari, che con molta professionalità ha accolto la mia persona e con essa i miei tempi e le mie modalità, senza che io sentissi minimamente la differenza con i miei compagni di classe.
E qui viene il bello! L’età adolescenziale! Come si sa, questa è l’età critica per antonomasia, per tutti! Per le persone con disabilità, in particolare per me, è stata l’età della consapevolezza. Preciso che ritengo che la consapevolezza sia l’optimum per la nostra crescita, purtroppo, però, tutto dipende dalle emozioni che ruotano attorno ad essa. E in questo, penso che la mia famiglia, senza volerlo, non sia riuscita a darmi la serenità giusta nell’affrontare le difficoltà quotidiane e, credendo di farmi del bene, ha un po’ negato la mia disabilità, scambiandola per “specialità”, cosi come fanno quasi tutti i genitori.
Ed ecco quindi, che nell’età del confronto con i miei pari (scuole medie inferiori e superiori), la mia “specialità-disabilità” è venuta fuori con tutta la sua dirompenza, facendo vacillare la mia forza interiore. E da lì la mia autostima è calata! Era molto forte la paura che era in me quando scorgevo anche negli altri questo sentimento nei confronti della mia persona. Da qui i momenti e i vissuti di esclusione che ho attraversato perché poche erano le persone con cui potevo permettermi di essere me stessa. Allo stesso tempo, quanto più trovavo barriere fuori, tante più ne erigevo io, nascondendomi dietro le mie paranoie e falsificando il rapporto con gli altri.
Un primo passo verso la libertà lo feci quando mi iscrissi all’Università, presso la Facoltà di Psicologia a Roma e qui iniziai a confrontarmi con me stessa e con le mie aspirazioni. Anche se intravedevo le difficoltà, legate alla mia comunicazione (avendo una paresi cerebrale infantile con disartria), che avrei potuto incontrare nel mondo professionale, nel quale mi sarei imbattuta una volta laureata, continuai imperterrita a sentire ciò che era dentro di me, e cioè una “vocina” che mi diceva di andare comunque avanti. Infatti, il peggio venne dopo la laurea, quando iniziai il tirocinio, dove gli altri colleghi (alcuni di questi anche amici e parenti) erano molto scettici sulle mie capacità di costruirmi una professionalità, per la presenza di pregiudizi atavici determinati da una lettura medica della disabilità. E purtroppo devo dire che questo clima non faceva altro che minare la mia autostima, alimentando in me atteggiamenti di accettazione passiva nei confronti di questo stato di cose, nonché determinando in me la negazione di un permesso (che forse mi sarei dovuta dare) di valutare criticamente quanto erroneamente mi veniva detto espressamente e, a volte, fatto capire.
Molto importante, invece, è stato l’incontro con il mondo dell’associazionismo, dove ho avuto modo di conoscere persone – disabili e non – sulle quali ho visto riflettere un’immagine di me abbastanza realistica. Cioè una persona che aveva sì una disabilità, ma che aveva anche delle capacità nascoste che se scoperte e rafforzate in una giusta maniera, potevano permettermi di arrivare o almeno di avvicinarmi alle mete che inseguivo. Ho visto, quindi, che diventava tutta una questione di strategia per la quale dovevo partire proprio dalla mia disabilità, valorizzandola, senza averne più paura, ma accogliendola come una mia caratteristica che in qualche modo determinava il mio modo di essere sicuramente in positivo! È da qui che ho deciso di fare un percorso di psicoterapia personale, che richiede la stessa laurea in Psicologia, nonché la scuola di specializzazione in Psicoterapia Integrata, proprio per diventare psicoterapeuta.
Accanto a tale percorso – in cui non sono mancate né le mie paure, né quelle dei colleghi-docenti con cui mi confrontavo ogni volta – c’è quello di consulenza alla pari, fatto in associazione con altre persone con disabilità. Si tratta di una metodologia di empowerment [rafforzamento della propria autoconsapevolezza e delle proprie potenzialità, N.d.R.] che si basa sulla relazione di aiuto tra due o più persone che sono pari, perché condividono l’esperienza vissuta legata alla disabilità. Tramite essa, le persone, rispecchiandosi in altre che hanno già realizzato obiettivi di vita autonoma, vengono rafforzate nelle loro capacità e potenzialità, al fine di intraprendere il loro percorso di emancipazione dallo svantaggio sociale e riappropriarsi delle personali risorse, prendendo la vita nelle proprie mani.
Così ho iniziato a capire che forse anch’io potevo aspirare a una mia realizzazione personale e in particolare a quella professionale. Attualmente lavoro all’interno del SAAD (Servizio di Ateneo per le Attività degli Studenti con Disabilità) dell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, nel cui ambito svolgo il mio mestiere di psicologa, psicoterapeuta e consulente alla pari, e di questo devo ringraziare le mie due colleghe di settore, educatrici, che da sempre (dieci anni or sono) mi hanno sostenuto e rafforzato nel mio desiderio di esercitare la mia professione, e con cui ho condiviso e discusso le criticità del mio percorso di vita!».

Un incontro di consulenza alla pari tra persone con disabilitàComunemente si sente dire che le donne con disabilità vivono una doppia discriminazione, perché donne e perché disabili; nella vita quotidiana quali esempi potrebbe darci?
«Come ha potuto vedere, nella risposta data alla precedente domanda non vi è cenno alla mia persona come donna. E in effetti la percezione di essere tale è maturata solo da pochi anni. Questo la dice lunga su quanto sia difficile e quanto sia stato difficile per me costruire una mia identità sessuale.
Una discriminazione che ho subito e che ancora subisco, in alcuni contesti, è quella di essere “trasparente” agli occhi degli altri, in particolare uomini, uomini con disabilità e anche donne. Ci sono “occhi che guardano ma non vedono”. La donna con disabilità è un essere asessuato. Non vi è un riconoscimento da parte degli altri della sua persona fisica. E questo mancato riconoscimento incide fortemente sulla stessa costruzione della sua personalità, sull’identificazione della propria dimensione femminile e sull’assunzione del ruolo di moglie, madre, compagna ecc. Questo si verifica spesso già all’interno delle stesse famiglie, dove prende forma il pregiudizio di una “donna mancata” che viene cucito sulla propria figlia con disabilità. E questo è legato anche al vissuto di persona indifesa e da proteggere che i genitori hanno nei confronti della figlia con disabilità; la paura, cioè, che altri le facciano qualche violenza è molto forte.
Anche per me è dura far capire ai miei genitori, o meglio a mio padre, che sono una donna con un desiderio di vivere la sessualità e di costruire relazioni affettive con l’altro sesso. Purtroppo, sarò sempre “la loro bambina”!
Per quanto riguarda esempi di discriminazione, posso dare i seguenti: nel lavoro sono poche le donne con disabilità che sono inserite in esso e ancor meno quelle che occupano un livello dirigenziale, nella misura in cui spesso hanno un livello di istruzione basso, per un mancato investimento sulla loro crescita personale da parte della famiglia e della società in genere.
Nella scuola una discriminazione può essere quella di non garantire a una bambina o a una ragazza con disabilità, che ha bisogno di assistenza personale, un’operatrice del suo stesso sesso.
Nel contesto sanitario, le discriminazioni sono forti e spesso anche umilianti. Qui, più che altrove, regna sovrano l’approccio medico alla disabilità, secondo il quale le persone con disabilità non sono persone e cittadini come tutti gli altri, ma “malati da curare e riabilitare”. Ancor di più le donne con disabilità subiscono violazioni della loro privacy e intimità proprio perché sono considerate “donne mancate” che non hanno nulla di cui vergognarsi se qualche medico o infermiere maschio le visita e le esamina. Questo è maggiormente vero nel caso delle donne con disabilità cognitiva o psichiatrica che non hanno capacità di autodeterminarsi, che vivono situazioni molto violente nell’ambito, ad esempio, di case di cura e istituti, dove regnano spesso atteggiamenti di sopruso, di mortificazione, nonché vere e proprie violenze, fisiche, sessuali e psicologiche da parte degli operatori e delle operatrici, che agiscono senza nessun controllo e senza nessun timore, nella misura in cui la donna è reputata non capace di intendere e di volere e per questo non creduta per quello che subisce, in quanto “visionaria”. Ovviamente non è sempre così, ma il più delle volte sono queste le discriminazioni che noi, donne con disabilità, incontriamo».

Si esalta tanto la solidarietà fra donne, ma è una realtà? E fra donne normodotate e non?
«La solidarietà tra donne esiste, sicuramente! Ma credo, come per ogni cosa, che tutto sia declinabile in relazione ai propri bisogni e alla propria soggettività. Ci può essere solidarietà nella misura in cui si condividono esigenze e necessità. Tutto il resto sono ideologie!
Per quanto riguarda la relazione tra donne normodotate e donne con disabilità, ci sono ancora molti pregiudizi tra le prime nei confronti delle seconde – e magari anche viceversa – proprio perché alcune differenze tra loro vengono lette da entrambi i gruppi come bisogni differenti e non, semplicemente, come differenze nelle modalità e strategie per raggiungere degli stessi obiettivi. Talvolta non c’è abbastanza empatia per calarsi l’una nei panni nell’altra. Tuttavia mi sento di dire che le cose stanno pian piano cambiando. Infatti, nei diversi contesti in cui vivo, mi relaziono spesso con donne, amiche e/o colleghe, dove percepisco un sentimento di parità e spesso di condivisione di vissuti, a partire dal nostro essere femmina che ci fa sentire unite nelle nostre psicologie».

Ombra di profilo di donna che guarda la lunaL’associazionismo è una strada per superare queste discriminazioni? Ne esistono anche altre?
«Sicuramente! La mia esperienza in un’associazione come DPI Italia la dice lunga. Si tratta della sezione italiana di Disabled Peoples’ International, un movimento internazionale di persone con disabilità che lavorano per la tutela dei loro diritti umani. Come DPI Italia, abbiamo realizzato diversi progetti di ricerca sulle donne con disabilità, evidenziando le molteplici condizioni di discriminazione da queste subite in diversi contesti. Una metodologia utilizzata era quella proprio dei gruppi focus, attraverso i quali abbiamo raccolto testimonianze e riflessioni delle donne con disabilità, che aderivano al progetto, sulle tematiche in oggetto. Questo scambio è servito a noi tutte anche a rafforzarci e ad unirci nella rivendicazione del nostro diritto ad esserci e ad esprimerci.
Nella stessa direzione va la consulenza alla pari al femminile, una variante della consulenza alla pari, che ho ideato quest’anno, con la creazione di un gruppo di donne con disabilità, studentesse universitarie, che condividevano il desiderio e l’esigenza di confrontarsi su tematiche prettamente femminili».

Con la sua esperienza di psicoterapeuta, a un’adolescente disabile quali consigli e idee darebbe per affrontare serenamente, per quanto possibile, il suo percorso di crescita?
«Direi sicuramente di seguire sempre la “vocina” dentro di sé…! Direi anche di viversi il dolore relativo alla consapevolezza di avere una disabilità, ma allo stesso tempo di avere dei desideri, delle mete, dei progetti da realizzare, che sono la linfa della nostra vita, il nostro motore.
Sicuramente può essere difficile realizzare delle aspirazioni (come lo è stato per me in ambito professionale, ad esempio), ma partire dalla propria condizione di disabilità ci può dare la misura giusta del nostro essere persona con capacità e limiti! Perché, chi non ha limiti a questo mondo! E questo non toglie che sia possibile lavorare su questi limiti e trovare la strategia, le modalità, gli strumenti giusti per superarli o quanto meno entrarci in contatto e starci in serenità.
Ancora un consiglio è quello di “entrare in confidenza” con la paura, calarla nella realtà e non farsi accoppare così come è successo a me. La paura è un segnale d’allarme che ci serve ad orientarci su come porci nei confronti di una situazione percepita pericolosa, ma non ci deve bloccare!».

Si accusano le nuove generazioni di essere particolarmente superficiali e votate all’apparenza. Crede che sia proprio così? Ed è colpa solo della pubblicità o anche di una mancanza del ruolo del genitore?
«Direi un po’ di tutto. I ragazzi di oggi non credo che non abbiano valori, ma hanno un senso molto affrettato e approssimato della vita. Basti pensare a internet che ti dà la possibilità di raggiungere ogni cosa, ogni persona, ogni conoscenza con estrema immediatezza. Manca loro la capacità di riflettere, di stare in silenzio, di stare raccolti su se stessi, senza che questo li spaventi; è una generazione troppo proiettata all’esterno e poco all’interno. I ragazzi dovrebbero essere educati all’ascolto di sé, cosa che darebbe loro la percezione di chi sono. Così potrebbero poi dedicare tempo e attenzione anche all’altro.
Non voglio generalizzare, ma il più delle volte mi imbatto in queste situazioni che mi fanno riflettere su quanto il tempo, ad esempio, abbia perso il suo valore. Siamo troppo presi a occupare il nostro tempo con attività lavorative e non, di quelle più svariate, e purtroppo le nuove generazioni subiscono passivamente questa dimensione temporale frettolosa, anche perché gli stessi genitori inseguono questa vorticosità, presi dal lavoro che non basta più o per altre ragioni, più o meno importanti».

La sua attività professionale la mette in contatto con persone fragili; si sente sempre all’altezza del suo compito? Cosa potrebbe migliorare nel suo rapportarsi agli altri?
«Sentirmi sempre all’altezza vorrebbe dire “essere Dio”. Questo è il motivo per il quale ho iniziato da pochi anni a svolgere la mia attività professionale, proprio perché non mi sentivo all’altezza. Non si finisce mai di imparare e il segreto sta nel mettersi in discussione continuamente ed essere umile nei confronti dell’altro. Oggi, quando non mi sento all’altezza, cerco il confronto o con un supervisore o con le mie colleghe. Inoltre, fondo la relazione terapeutica con i clienti su un’estrema chiarezza e chiedo loro di far caso a che non siano infastiditi dalla mia voce e di essere liberi di scegliere tra me e un’altra terapeuta.
Attualmente, sono in una fase in cui mi sento in pace con me stessa, sto raggiungendo i miei obiettivi e quando sento di avere qualche difficoltà nel relazionarmi agli altri, cerco di non criminalizzarmi più, così come facevo un tempo. Mi accetto così come sono, mi dico che la prossima volta andrà meglio o cerco di procurarmi una relazione a mia misura o di curarmi le relazioni che già ho, secondo tempi e modi che sento più consoni al mio modo di essere».

*Psicologa, psicoterapeuta, consulente alla pari, donna con disabilità e già presidente di DPI Italia (Disabled Peoples’ International). Intervista curata da Gaia Valmarin e già apparsa nel sito del Gruppo Donne UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare), con il titolo «Mi hanno ammazzato le mie paure, ma soprattutto quelle degli altri! Ma ce l’ho fatta!», qui ripresa, con alcuni riadattamenti, per gentile concessione.

Il Gruppo Donne UILDM
13 eventi e altrettante pubblicazioni della collana Donna e disabilità, un centinaio tra articoli, interviste, recensioni, adesioni a campagne ecc., organizzati per temi, circa 80 segnalazioni di film attinenti alle donne disabili, più di 450 segnalazioni bibliografiche e circa 600 risorse internet schedate: parlano da sole le cifre del Gruppo Donne UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare), che costituisce certamente una delle esperienze più vive e interessanti – nel campo della documentazione riguardante la disabilità – avviata nel 1998 in modo informale.
Gli obiettivi originari erano da una parte quello di raggiungere le pari opportunità per le donne con disabilità, attraverso una maggiore consapevolezza di sé e dei propri diritti, dall’altra cogliere la “diversità nella diversità”, riconoscendo la specificità della situazione delle donne disabili.
Poi, nel corso degli anni, il Gruppo ha cambiato in parte il proprio ambito d’interesse, oltre a non essere più composto da sole donne e a non occuparsi esclusivamente di questioni femminili. La stessa disabilità è diventata uno dei tanti elementi in un percorso di integrazione e di apertura su più fronti.
Nel 2008, per festeggiare il suo decimo “compleanno”, il Coordinamento del Gruppo Donne (composto attualmente da Francesca ArcaduAnnalisa Benedetti, Valentina Boscolo, Oriana Fioccone, Simona Lancioni, Francesca Penno, Anna Petrone, Fulvia Reggiani e Gaia Valmarin) ha deciso di investire di più in informazione e in documentazione, recuperando i suoi obiettivi originari, senza rinunciare all’apertura quale tratto distintivo. E così – come in un laboratorio – è iniziato un lavoro finalizzato a organizzare e rendere fruibili, attraverso il proprio spazio internet, le informazioni che circolano all’interno del Coordinamento stesso.
Un importante, ulteriore salto di qualità, infine, si è avuto con la creazione di un repertorio (VRD – Virtual Reference Desk), che raggruppa le varie risorse fruibili in internet (in lingua italiana) di e su donne con disabilità (il nostro sito se n’è occupato con l’articolo disponibile cliccando qui).
Recentemente il Gruppo Donne UILDM ha anche ricevuto da Decima Musa Caravaggio (Associazione Culturale Europea-Compagnia Teatrale) il Premio Decima Musa «per il valore di un’attività finalizzata al raggiungimento delle pari opportunità, che sottolinea e affronta il problema specifico e la situazione delle donne disabili» (se ne legga nel nostro sito cliccando qui).

L’indirizzo del Gruppo Donne UILDM è www.uildm.org/gruppodonne. Al repertorio di cui si è detto, si accede cliccando qui. Il Gruppo Donne UILDM è anche su Facebook (cliccare qui).

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