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Senza dover chiedere scusa di esistere

Giovane donna in carrozzina alla finestra, insieme a un giovane uomo non disabileMai come adesso che sto lentamente riprendendo possesso del mio corpo e del suo funzionamento, mai come adesso che riesco faticosamente a muovere senza dolore gambe rattrappite dalle fratture e dall’immobilità durata più di tre mesi, mai come adesso che sperimento da vicino l’utilità preziosa di un assiduo e discreto servizio di assistenza domiciliare, che mi consente, comunque, una vita quasi normale: mai come adesso credo di capire perché è giusto e doveroso battersi perché alle persone con disabilità, a prescindere dal livello di autosufficienza, sia assicurata la possibilità di costruire attorno alla propria esistenza un progetto plausibile e sostenibile di “vita indipendente”.
Vedo infatti con crescente preoccupazione diffondersi la tendenza socioculturale a togliere alla famiglia e alla persona i gangli decisionali rispetto a presente e futuro, attraverso riorganizzazioni dei servizi e delle prestazioni, che partono sempre e comunque da valutazioni di carattere reddituale.
Sembra ormai ineluttabile parlare sempre e comunque di denaro. Capisco che siamo in crisi, ma non c’è di peggio – per chi già in qualche modo deve scontare uno svantaggio, un handicap, una differenza – che sentirsi valutato secondo parametri (al ribasso) di carattere quasi esclusivamente economico.
 In un progetto di “vita indipendente”, come meglio di me sanno argomentare i paladini di questo strumento di emancipazione e di autonomia, si costruisce infatti un mix fra la volontà della persona, le opportunità esistenti, le persone che durante la giornata sono chiamate a garantire le condizioni per realizzare il progetto, e tutto questo avviene costruendo un budget, che è certamente connotato da fattori di spesa, ma non solo da questo.
La domanda di fondo infatti è: che cosa possiamo fare delle nostre vite? Quali desideri abbiamo? Con chi vogliamo vivere? E dove? Quali orari sono compatibili con la nostra libertà di scelta? E se riusciamo a vivere in modo “non dipendente”, possiamo davvero ipotizzare il superamento dell’handicap, ossia una “vita alla pari”?

Le nuove tecnologie, la rete, sembrano avvicinare le persone disabili a una serie incredibile di opportunità, anche quando la comunicazione diventa difficile, o l’autosufficienza si riduce.
Ma se nel ripensare i servizi sociosanitari ci si limita a immaginare condizioni sempre più onerose di accesso e di fruizione, se tutto diventa complicato e ipercontrollato, la conclusione sarà una sola: l’impoverimento non solo economico, ma anche mentale, di raggio d’azione, di ambizioni, di desideri.
Torno alla mia condizione transitoria: più ritarda il mio ritorno all’autonomia piena, più mi accorgo che tendo ad accontentarmi di una vita meno densa, più circoscritta, più scandita dai ritmi dell’assistenza. E penso a quante persone con potenzialità assolutamente analoghe alle mie sono di fatto costrette a rinunciare a sogni e progetti di vita, perché qualcun altro ha deciso per loro, per “il loro bene”.
Da troppo tempo leggo e vedo servizi sulla disabilità che hanno i toni del dramma e della sconfitta. Sempre più difficile veder raccontare un successo, un miglioramento, una novità positiva. Forse è il momento di reagire, e di rivendicare normalità di vita, come tutti. Senza dover chiedere scusa di esistere.

*Direttore responsabile di Superando.it. Il presente articolo riprende, con alcuni adattamenti, un testo apparso anche in «FrancaMente», il blog senza barriere di Vita.blog, con il titolo Elogio dell’indipendenza.

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