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Quando Don Pasquale divenne uno come tutti gli altri

La Stazione Montesanto della Funicolare di Napoli, in un'immagine degli anni SessantaAvevo appena 18 anni nel 1967, da poco avevo superato gli esami di maturità e mi ero iscritto all’Università. Abitavo in una bella palazzina, che si trovava alla fine di una strada silenziosa, che girava attorno alla stazione della Funicolare di Napoli che da Montesanto saliva sino a San Martino. Via Annibale Caccavello, nell’ultima parte del suo percorso breve, seguiva il grande muro dietro al quale erano celati i prati che delimitavano il fossato del Castello di Sant’Elmo, uno dei più importanti esempi di architettura militare del Meridione.
Mi piaceva salire e poi scendere per quella strada tranquilla, dove il profumo dei giardini e l’odore di terra mi faceva sentire quasi in campagna. Avevo l’abitudine di uscire quasi ogni giorno, a metà pomeriggio, per rompere la stanchezza dello studio, per rinfrescare la mente e per far riposare gli occhi che, allora, erano già un grave problema. Mi piaceva attraversare Via Tito Angelini, lasciandomi alle spalle la bella stazione della funicolare, costruita nel 1891.
Lo spazio che si apriva dall’altro lato della strada, dove si trovavano un giornalaio, un fruttivendolo e il tabaccaio, che erano dirimpettai di una grande macelleria e di una bella salumeria, portava alle scale che attraversando diritte Via Morghen, consentivano ai pedoni di raggiungere facilmente Via Scarlatti e Piazza Vanvitelli.
Chiunque avesse avuto buona vista, scendendo i primi scalini poteva godere di una veduta perfetta della linea dritta dei platani di Via Scarlatti.
Le rampe di scale erano due, ed erano interrotte dalla stessa Via Morghen, che nel suo tracciato di curve, interompeva il percorso degli scalini. In questo modo si formava un secondo grande spiazzo prima della nuova rampa di scale.
Correvo per quelle scale, che passavano vicino all’ingresso della Chiesa dei Salesiani, che aveva affianco il cancello che portava al campetto di calcio dell’oratorio. Non c’era volta che, passando, non sentissi le grida dei ragazzi che giocavano con il pallone.
La meta delle mie veloci scorribande era la Libreria L’Incontro in Via Kerbaker, particolarmente amata da noi giovani, perché era la prima a Napoli che consentiva di girare tra gli scaffali, tra i banconi dov’erano accumulati i libri pubblicati dalle diverse case editrici, dove le ultime uscite editoriali e le novità assolute erano poste in evidenza, consentendo ad ognuno di noi di essere costantemente informati sulle novità letterarie.
La vera particolarità di quella libreria era la possibilità di sviluppare un rapporto fisico ravvicinato con i libri. I volumi si potevano toccare, prendere, sfogliare, leggere la quarta di copertina per avere notizie sul testo e sull’autore. Spesso li annusavo, perché ogni libro ha un odore diverso. Ad occhi chiusi, riuscivo, dall’odore, a riconoscere la casa editrice.
In quella libreria il tempo si fermava, le ore scorrevano veloci, spesso incontravo amici o colleghi di Università, si discuteva di quasi tutto, si consigliavano le letture, ci si metteva d’accordo sui libri da comprare, per poi scambiare successivamente. Erano gli anni delle pubblicazioni delle collane economiche e dei libri tascabili a basso costo.
Spesso non compravo nessun libro, i soldi non erano molti in quegli anni e i libri si prestavano con una disinvoltura oggi impensabile. Prestare un libro è oggi una pratica in disuso, dimenticata. In quegli anni, invece, un libro in prestito era un gesto di fiducia a cui non si doveva venire meno. Un’amicizia dipendeva dalla restituzione di un libro prestato. I libri erano condivisi e commentati, spesso letti voracemente di sera tardi, nel silenzio della casa, immersi in un universo piccolo e male illuminato, pieno di parole, emozioni e scoperte.

***

Tanto la discesa per quelle scale era veloce e allegra, tanto la salita era lenta e segnata sempre da una serie di amare considerazioni che mi accompagnavano fino alla prima curva della strada di casa, dove mi sorprendeva sempre e mi faceva sorridere il forte stormire delle fronde dell’albero che era proprio affianco al muro della stazione della funicolare.
C’era sempre vento in quel tratto di strada, non ho mai capito bene per quale particolare motivo e il risultato era che la superficie asfaltata della strada era sempre piena di foglie cadute in ogni periodo dell’anno. Di fronte all’albero c’era un muro basso, dietro al quale si riparava il cortile di un palazzo molto esclusivo ed elegante. Tutto il vento che sconvolgeva il grande platano risparmiava quel muro, sul quale dimorava in permanenza una colonia di grossi gatti che prendevano il sole e aspettavano la notte per mettere in atto scorribande rumorose, scontri feroci e battaglie amorose sottolineate da insopportabili e lamentosi richiami.
Le considerazioni amare che mi accompagnavano fino a quella curva erano dovute a Pasquale il cieco, che sostava sul primo ballatoio della prima rampa di scale, quella che portava all’Oratorio dei Salesiani e alla bella chiesa affianco, che era anche la parrocchia del quartiere.
Pasquale era seduto su uno sgabello portatile, con la schiena appoggiata al muro e sulle gambe teneva la sua fisarmonica, che restava ben salda al suo corpo per via di due cinghie di cuoio. La fisarmonica era un bene prezioso, già altre volte avevano tentato di strappargliela dalle mani, per gioco o per cattiveria, e per questo era stato costretto a trovare quel rimedio per sentirsi più tranquillo. Una piccola ciotolina di metallo era ai suoi piedi e serviva a raccogliere le monete che i passanti spesso depositavano.
«Fate la carità al povero cieco», gridava Pasquale, quando avvertiva il passo pesante di chi saliva le scale. Appena sentiva il tintinnare di una moneta nella ciotola, subito la sua voce da lamentosa si faceva squillante e allegra: «Grazie, il Signore ve lo rende!». Pasquale non usava mai il dialetto quando chiedeva l’elemosina, era il tratto distintivo della sua professionalità, ma anche un modo per dimostrare una sua personale dignità. Un sommesso affermare una buona educazione, che meritava un’attenzione da parte del passante, che con una sua offerta premiava una persona per bene, seppure indigente e sfortunata. Il mestiere di chiedere l’elemosina lo aveva imparato da piccolo, come mi avrebbe raccontato un giorno, insieme alla musica. A Napoli la tradizione dell’accattonaggio era antica e aveva regole precise e sperimentate.
Nei miei continui saliscendi per quelle scale, avevo notato che Pasquale faceva poco caso a chi scendeva, perché la discesa era sicuramente veloce e breve. La salita era lenta e dava il tempo al passante di sentire bene la richiesta del suonatore, di estrarre dalla tasca il borsellino e prendere la moneta che poi sarebbe caduta nella ciotolina. Raramente questa operazione avveniva in discesa.
L’esperienza di Pasquale era veramente grande a tal proposito. I suoi benefattori abituali erano tutti quelli che, nei giorni feriali, per lavoro o per commissioni, salivano verso la Stazione della Funicolare per andare al Centro. Mentre la sera o nei giorni festivi e di precetto, erano i fedeli che si recavano in chiesa per la messa, quelli più sicuri che gli avrebbero lasciato un’elemosina.
Clara Nicese, «Suonatore di fisarmonica», olio su telaQuesto significava che stava su quelle scale a chiedere la carità per intere giornate, in ogni stagione e fino a tarda sera. Una vita dura, in cui la fisarmonica sembrava un pretesto più che un richiamo. Per ore non faceva altro che accennare qualche accordo sulla tastiera, che non riusciva mai a diventare una melodia, perché doveva ripetere la sua litania, la giaculatoria con la quale riusciva a riempire di piccole monete la ciotolina che stava ai suoi piedi.
Spesso, però, per nostalgia, per malinconia, per stanchezza, suonava solamente o, molto più di rado, cantava. Il suo repertorio preferito erano le canzoni napoletane del secondo dopoguerra, Munasterio ‘e Santa Chiara, Malafemmena, Cerasella, Torero di Carosone. A volte era veramente allegro e allora cantava Nanasse, Chella llà, Guaglione, Scapricciatiello e Maruzzella. Ma la canzone che cantava con più trasporto era Lazzarella di Modugno; gli piaceva particolarmente, l’interpretava quasi con sue divagazioni con la fisarmonica e sottolineando con la voce i passaggi più intensi del testo.
Quando cantava, si disinteressava delle monete che cadevano nella ciotolina. Veniva preso da una smania che lo faceva agitare sullo sgabellino, il movimento lo aiutava a suonare, per trarre dal mantice dello strumento tutta la forza che gli serviva per sostenere le note più alte, senza perdere ritmo e armonia.
Quando gli prendeva questa foga, non si accorgeva più di nulla, la sua voce era ben impostata, molto calda, ma roca per il freddo che prendeva e per le poche sigarette che fumava. La sua musica e la sua voce riempivano quel tratto di strada e le scale.
Nessuno si era mai lamentato per quegli improvvisi scoppi di musica, anzi, Don Ciccio, il pescivendolo che aveva il negozio proprio all’inizio di Via Scarlatti, famoso per la sua abitudine a dare la “voce” per decantare la bontà e la qualità della sua merce, spesso cantava con lui a squarciagola.
Pasquale aveva un amico fraterno che in ogni momento era in grado di aiutarlo. Gennarino ‘o scartellato era l’addetto ai gabinetti pubblici che stavano sulla sinistra affianco alle scale, che terminavano sul marciapiede dell’ultimo tratto di Via Morghen. Quando aveva bisogno, Pasquale raccoglieva il sediolino e seguendo il muro scendeva piano le scale, chiamando a gran voce l’amico. Gennarino lasciava la sua postazione e si affacciava sulle scale, controllando la discesa dell’amico, che appena lo raggiungeva, gli lasciava in consegna la sua preziosa fisarmonica e lo sgabello, per entrare in quel posto umido, per via del pavimento costantemente pulito dalla pezza bagnata che, infilata sulla mazza da terra, Gennarino passava in continuazione. Pasquale si confidava con Gennarino, con lui aveva intrecciato un dialogo che non si interrompeva mai.
Gennarino era l’ancora di salvezza di Pasquale, da lui si rifugiava quando la pioggia cominciava a cadere fitta, il suo nome urlava a piena voce, quando i ragazzi impertinenti gli tiravano i sassolini dall’alto delle scale, a lui si rivolgeva quando la malinconia e la stanchezza lo facevano stare male.

Non era felice, Pasquale, spesso era triste e ripeteva stancamente la sua richiesta di elemosina, con una monotonia nella voce che risultava straziante. Tutte le mattine, prima delle nove, la moglie lo accompagnava al suo posto sulle scale, lo andava a riprendere poco dopo le due del pomeriggio e immancabilmente alle quattro in punto lo faceva posizionare su quelle scale, per andarlo a riprendere definitivamente alla sera, dopo la chiusura dei negozi.
D’estate, quando c’era gente per strada fino a tardi, poteva restare sulle scale ben oltre le nove di sera. D’inverno, nelle sere fredde e umide, la moglie lo andava a prelevare un po’ prima, ma in prossimità del Natale, non c’era verso che Pasquale potesse tornare a casa prima della chiusura dei negozi.
Il povero suonatore faceva questo calvario tutti i giorni della settimana. Solo la domenica ritornava a casa dopo l’ultima Messa, prima del pranzo festivo e non ritornava più sulle scale.
Il pomeriggio libero, Pasquale lo dedicava alla sua grande passione, ascoltava le partite del Campionato di Calcio alla radio. Non aveva mai visto una partita di calcio, ma attraverso la voce dei mitici inviati di Tutto il calcio minuto per minuto, seguiva con passione le vicende del campionato italiano e la squadra del Napoli, di cui era particolarmente tifoso.
Il lunedì il calcio sarebbe stato l’argomento principale delle sue lunghe chiacchierate con Gennarino, che gli spiegava come si erano svolti i goal che lui non poteva vedere.
Molti passanti abituali che conoscevano da anni Pasquale, quando gli lasciavano gli spiccioli nella ciotolina, lo salutavano chiamandolo per nome. Ad alcuni Pasquale rispondeva chiamandoli a sua volta per nome, perché da anni si conoscevano.
Molti, oltre alla carità, lasciavano a Pasquale i vestiti dimessi od oggetti ancora funzionanti di cui si disfacevano. Pasquale prendeva tutto, una volta vidi accanto a lui una bella lampada da tavolo e mi chiesi chi aveva mai pensato di lasciare ad un cieco un oggetto a lui assolutamente inutile.
Anche la mia famiglia, con il passare del tempo, prese l’abitudine di partecipare a quella colletta generale che settimanalmente veniva consegnata al povero suonatore. Mia madre in particolare ci teneva molto e spesso mi consegnava le monete da dare a Pasquale, oppure, quando andava a messa accompagnata da mio padre, lasciava personalmente la sua offerta. Mia madre non parlava mai di elemosina, per Pasquale, ma sempre e solamente di “offerta”. Un’offerta era una cosa diversa dal gettare, distrattamente, una moneta nella ciotolina. Era un modo per dimostrare una comprensione profonda dello stato di indigenza di Pasquale, prodotta dalla cecità.
Non vedere era un male che veniva considerato da tutti la peggiore delle menomazioni. Mia madre, come mia nonna, stava perdendo la vista per un male tanto inesorabile quanto inarrestabile. La stessa sorte che sarebbe toccata anche a me, e di cui mia madre se ne fece sempre una colpa.
Presi l’abitudine di salutarlo e lui mi riconosceva dalla voce. Un giorno mi chiese: «Come vi chiamate giovanotto?». Preso alla sprovvista da quella richiesta inattesa, risposi, un po’ imbarazzato, dando il nome che utilizzavano in casa: «Geppino!». «Grazie e buona giornata signor Geppino», disse Pasquale, che con quell’aggiunta del signore davanti al vezzeggiativo del mio nome, ristabiliva i ruoli e le nostre diverse condizioni.
Per anni continuò a chiamarmi Signor Geppino, mentre io lo apostrofavo immancabilmente con un «Buon giorno Don Pasquale!».
I miei sentimenti verso di lui non erano di pietà, ma di affetto. Con il passare del tempo era diventato per me una figura di riferimento e solo dopo molti anni, quando la stessa malattia di mia madre si manifestò in maniera definitiva, mi ricordai di Pasquale e del suo modo di comportarsi.
Senza saperlo, il suonatore di fisarmonica mi aveva lasciato degli insegnamenti che mi sono stati utili, soprattutto in questi ultimi anni. Innanzitutto, per il tempo che ebbi modo di frequentarlo, non lo sentii mai compiangersi per la sua condizione, né lamentarsi per la sua malasorte. Pasquale accettava la sua condizione con realismo, che non ci vedesse era un dato di fatto, una situazione alla quale non si poteva rimediare. Pasquale era povero, per vivere doveva chiedere l’elemosina. In quegli anni Sessanta non c’erano altri modi per andare avanti, la società gli lasciava solo una possibilità, chiedere la carità!

***

Le scale tra Via Morghen e Via Scarlatti a NapoliPassarono in fretta quegli anni, tra le letture forsennate, gli studi e le speranze di quel periodo bellissimo della nostra gioventù. Sognavamo il cambiamento della società, un mondo in cui tutti avevano gli stessi diritti, mentre una nuova democrazia avrebbe dovuto garantire a tutti che i doveri assolti erano necessari e utili alla collettività e al suo sviluppo.
Con il passare del tempo, crescendo, cominciai a pensare che non era giusto che Pasquale dovesse vivere una vita in quelle condizioni. Pensavo che Pasquale avesse il diritto alla sua dignità. Che dovesse essere trattato come una persona, che i suoi occhi ciechi non dovevano rappresentare un ostacolo alla sua libertà, alla sua realizzazione umana.
Il Sessantotto ci raggiunse tutti con la forza di un fiume in piena, gli avvenimenti di quella fine del decennio della speranza furono travolgenti per la nostra società.
Anch’io fui travolto e coinvolto dai nuovi movimenti studenteschi a cui partecipai con una decisa convinzione. Mi capitò sempre meno di scendere le scale di Via Morghen per andare in libreria. Correvo veloce, in quei mesi densi di avvenimenti, verso la Stazione, dove ci aspettava una collega, con la quale prendevo la funicolare per andare all’Università e passare da un’aula all’altra, tra lezioni autogestite, assemblee e interminabili riunioni collettive.
Non feci più caso a Pasquale, me ne dimenticai, gli avvenimenti della mia vita presero a correre, a quel tempo ogni giorno sembrava essere importante e decisivo e bisognava viverlo il più intensamente possibile.

Fu all’inizio del ’71 che una sera, mentre eravamo a tavola, mia madre disse: «Sono mesi che Pasquale non sta più sulle scale! Speriamo che stia bene!».
L’immagine del suonatore di fisarmonica mi ritornò di colpo alla mente, e mi sentii in colpa per essermene dimenticato, per aver messo da parte tutte le mie determinazioni giovanili che vedevano al centro della mia azione sociale l’aiuto al solitario e malinconico Pasquale.
Quella sera non si parlò d’altro e ognuno della famiglia raccontò un episodio del proprio rapporto con il suonatore cieco, cercando anche di ricordare l’ultima volta in cui lo avevamo visto.
Poi, con il passar del tempo, il ricordo di Pasquale il povero suonatore di fisarmonica delle scale di Via Morghen sbiadì, restando sepolto nel profondo della mente, inserito com’era in un periodo in cui tutto era sospeso, in cui tutti aspettavano qualcosa che avrebbe dovuto succedere e di cui tutti avevamo inconsapevole bisogno.

***

Fu solo dopo molti anni che lo rincontrai. Fu in una bella domenica di giugno del 1983. Come era nostra abitudine, prima di andare a casa di mia madre a San Martino, portavamo le bambine nella Villa Floridiana, dove potevano respirare un intenso profumo di fiori e godere del verde acceso e particolare di quei giardini pieni di piante esotiche e prati erbosi.
Spingevo la carrozzina della più piccola che a quel tempo non camminava ancora, mentre la più grande rincorreva un pallone leggero che ogni tanto il vento faceva rotolare. Mia moglie camminava al mio fianco e ogni tanto mi indirizzava per trovare una panchina dove sederci.
«Fai attenzione a quei rami!», dissi a mia figlia, che per inseguire il pallone non si era accorta del rischio di sbatterci contro. Eravamo appena passati davanti a una panchina dove erano seduti dei signori anziani, che sentii una voce che mi salutò in una maniera che non poteva essere fraintesa: «Buon giorno Signor Geppino!».
Mi girai di scatto, sorpreso e contento al tempo stesso. Quella voce era inconfondibile e tutti i ricordi degli anni passati furono richiamati alla mente con una nitidezza sbalorditiva. «Don Pasquale, da quanto tempo, come state?».
Il signore dai capelli bianchi, seduto sulla panchina affianco ad una anziana signora, era simile a tutti gli altri anziani che passeggiavano per il parco o che si riposavano all’ombra di un albero. L’unica differenza erano quegli occhi irrimediabilmente chiusi, che stridevano in quel viso sorridente e compiaciuto che non faceva parte dei miei ricordi. Il Don Pasquale che avevo davanti era una persona serena, vestita con gli abiti della festa, che si godeva una bella mattinata di sole nella Villa Floridiana.
Un'immagine del parco di Villa Floridiana a NapoliLa mia gioia fu grande nel vederlo e mentre mia moglie e le picole stavano sul prato, ebbi modo di scambiare un po’ di chiacchiere con quel signore che mi ricordava antiche corse su e giù per le scale di Via Morghen.
Seppi da Pasquale che alla fine del 1970 – in virtù della legge che era stata da poco emanata [Legge 382/70, N.d.R.] – aveva avuto una pensione che seppure bassa era superiore a tutti i soldi che raccoglieva con le elemosine. Aveva deciso, quindi, di non rimanere più per le scale a chiedere la carità. Addirittura, la sua capacità riconosciuta di suonare bene la fisarmonica gli aveva procurato un ulteriore reddito, perché suonava e cantava nelle feste di famiglia e in qualche occasione accompagnava qualche giovane cantante nei matrimoni o nelle feste di quartiere.
Si era molto divertito negli anni passati, lo avevano perfino chiamato in una Festa dell’Unità a Ponticelli, dove aveva riscosso un bel successo personale. Ma adesso non suonava più, da un anno e mezzo aveva avuto l’indennità di accompagnamento che gli assicurava una tranquillità personale ed economica che lui non avrebbe mai sperato nella sua vita.
«Adesso sono come tutti gli altri», disse senza nascondere una punta di sincera soddisfazione. «Ho preso perfino un taxi una volta che dovevo correre da mia moglie in ospedale, che si era sentita male per i calcoli», mi disse Pasquale, con la stessa enfasi di chi raccontava un viaggio avventuroso in Paesi lontani.
Gli raccontai di me, del lavoro, di mia moglie e delle due bambine e lui fu particolarmente contento. Si informò di mia madre e saputala in buona salute, mi pregò di portarle i suoi saluti. Ci lasciammo con un abbraccio che nascose un po’ di commozione.
Salendo per Via Caccavello ero silenzioso e vedendo un’ennesima generazione di gatti che prendevano il sole sul muretto di fronte al grande platano, mi misi a ridere pensando che certe cose restano sempre uguali, ma la condizione delle persone dipende dalla loro capacità di cambiare le cose che non vanno.

***

I grandi cambiamenti che dal Sessantotto in poi avevano interessato il nostro Paese erano stati complessi e contraddittori, ma molte cose erano cambiate. Il suonatore cieco che chiedeva la carità era stato trasformato in un signore per bene che prendeva il sole nel parco. «Uno come tutti gli altri», così aveva detto Don Pasquale e questa affermazione mi riempiva di speranza.
Quando raccontai l’incontro a mia madre, si commosse per la bella notizia inaspettata che gli avevo dato. Fu una domenica memorabile, quella, coronata anche dalla vittoria del Napoli. Pensai a Don Pasquale incollato alla radio a gioire per la sua squadra vincente. Pensai a quale grande conquista di civiltà fosse l’indennità di accompagnamento per un cieco, per rendergli quel diritto alla cittadinanza che non può essere sostituito dall’assistenza o dalla carità pubblica, perché quell’erogazione economica rende libero chi ha una disabilità. Che bella società è quella che liberando gli ultimi, libera tutti!
Ora, dopo tanti anni, si tende ad eliminare quella conquista di civiltà. Chissà perché i diritti non sono mai acquisiti per sempre, mentre i doveri diventano sempre più onerosi. Forse ad ogni generazione tocca il compito di lottare per migliorare e adeguare i diritti di cittadinanza che servono allo sviluppo come il pane per la crescita.
Nei miei occhi, ormai spenti, nessuno può leggere la voglia e la determinazione di continuare a cambiare e migliorare la società che ho dentro. Un grumo di rabbia che non si è mai sciolto. Ma la rabbia è mitigata dall’esperienza. Nessun cieco dimora disperato sulle scale di Via Morghen e persino i vecchi gabinetti sono stati sostituiti da una moderna e luccicante scala mobile.
La mia certezza è che per quelle scale non ci sarà mai più un povero cieco a chiedere l’elemosina e questa mi sembra proprio una cosa bella, a condizione che nessuno dimentichi Don Pasquale e le sue sofferenze.

*Giuseppe Biasco, sessantadueenne di Napoli, ha lavorato all’Alfasud di Pomigliano d’Arco, ha svolto attività sindacale e politica ed è stato assessore alle Politiche Europee nella Provincia di Napoli, durante la Presidenza di Amato Lamberti (1995-2004). Giornalista pubblicista, laureato non molto tempo fa in Storia Economica, all’Università Federico II di Napoli, si occupa di ricerca sociale ed economica e di progettazione per i finanziamenti europei. Persona con disabilità visiva, collabora con l’UNIVOC di Napoli (Unione Nazionale Italiana Volontari pro Ciechi) e in particolare al progetto Vediamo di Muoverci!.
Ringraziamo il presidente dell’UNIVOC di Napoli, Salvatore Petrucci, per averci offerto l’opportunità di pubblicare questo bel racconto di vita.

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