L’autismo e la storia di un “caso editoriale”

Ci siamo già occupati del libro “Se ti abbraccio non aver paura”, uno dei “casi editoriali” dell’anno, con le sue undici ristampe in due mesi. Ed è con il suo stesso Autore, Fulvio Ervas, che approfondiamo oggi la storia di quello che è prima di tutto un romanzo, nato soprattutto con la voglia di “sdoganare” l’autismo e di renderlo più familiare a chi non lo conosce direttamente

Comunicazione e disabilità, un binomio dagli esiti non sempre armoniosi, soprattutto quando la disabilità raggiunge i mass-media. Perché i mass-media, per generalizzare, banalizzano, appiattiscono, e per richiamare l’attenzione esaltano aspetti non sempre condivisibili da chi la disabilità la vive sulla propria pelle tutti i giorni. Quando poi questa disabilità prende la forma dell’autismo, il terreno già paludoso diventa a tratti addirittura impercorribile.

Fulvio Ervas

Lo scrittore Fulvio Ervas

Esploriamo in questo senso un caso recente, dove non ci sono stati conflitti – il libro di cui parleremo, infatti, è rispettoso della descrizione della disabilità – ma sul quale alcune voci del mondo della disabilità si sono sentite in dovere di dire la loro, non tanto in merito ai contenuti del testo, quanto al connubio tra il profilo del protagonista e la parola “autismo”.
Stiamo parlando di Se ti abbraccio non aver paura (Marcos Y Marcos), titolo accattivante del libro del momento, in testa alle classifiche italiane da ormai più di due mesi, giunto all’undicesima ristampa (in tutto si parla di ben più di 100.000 copie). Senza leggerlo, ma guardando solo al titolo e sapendo che vi si tratta il tema dell’autismo, si potrebbe pensare che la frase si rivolga a una persona autistica che non tollera il contatto fisico e che a rivolgergliela siano le persone che lo amano e che quel contatto fisico lo desiderano immensamente. Invece, questo è uno di quei casi in cui è vero l’opposto.
Andrea Antonello, infatti, oggi ventenne, ma diciottenne all’epoca dei fatti narrati, ama abbracciare le persone. Ancor di più ama toccare la pancia anche di chi non conosce. È il suo modo di prendere contatto con la realtà, di mostrare un’apertura verso qualcuno. Quand’era più piccolo, i suoi genitori – preoccupati dei rifiuti che avrebbe potuto subire da persone spaventate da tanto calore umano – decisero di fargli indossare alcune magliette con su stampata la frase in questione, per avvertire le persone di non spaventarsi. Ed è proprio questa una delle sue caratteristiche che hanno fatto “rumore” in una parte mondo della disabilità che – visto l’enorme successo del libro – ha sentito il bisogno di fare delle precisazioni relative al concetto di autismo.
L’autismo, insomma, non è solo quello “carino” di Andrea, che comunica e interagisce. Per alcuni genitori di ragazzi con forme di autismo gravi, quella di Andrea sarebbe piuttosto una sindrome di Asperger, già descritta in un altro “caso letterario”, Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte di Mark Haddon (Einaudi, 2003). Eppure i medici hanno diagnosticato proprio l’“autismo” ai genitori di Andrea, e questa è una storia vera. Rintracciabile. Basta visitare un sito web recentemente clickatissimo.

La storia raccontata nel libro – lo diciamo per inciso – è quella del viaggio di Franco e di suo figlio Andrea, che insieme hanno attraversato le due Americhe in tre mesi. La scommessa – vinta – di Franco è stata quella di condividere con il figlio autistico (una forma lieve di autismo), per cui l’abitudinarietà e i punti di riferimento fissi sono (sarebbero) fondamentali, un viaggio nomade, imprevedibile e “anarchico”. Andrea e Franco non solo ci sono riusciti – alla faccia dei pareri medici contrari – ma soprattutto si sono divertiti, amati, conosciuti meglio. Non sono mancate le difficoltà, le crisi, gli scontri, le paure. Ma Fulvio Ervas, lo scrittore veneto scelto per rendere romanzo il diario di un padre, tratta ogni cosa senza scosse, anche la più spigolosa, come se semplicemente facesse parte della vita.
E allora dov’è il punto? Perché per alcuni genitori e alcune associazioni è stato importante precisare? Di cosa c’è paura? Lo chiediamo allo stesso Ervas, che ci accoglie nella sua casa nel Trevigiano mentre la moglie cuoce la marmellata, e ci parla con il bagaglio di esperienza non solo di scrittore, ma anche di docente in un istituto tradizionalmente aperto all’accoglienza delle persone con disabilità.

Andrea Antonello

Andrea Antonello

«Con il termine autismo – spiega – si fa riferimento a una gamma molto vasta di diagnosi, per cui dentro ci stanno casi più lievi come quello di Andrea e casi più gravi. Noi non abbiamo scritto che l’autismo è solo quello di Andrea, abbiamo soltanto raccontato la storia del suo viaggio. Va bene precisare che esistono casi più gravi, se l’obiettivo è quello di far sapere alle persone che la parola autismo si riferisce a uno spettro ampio di casi, però una volta fatta questa precisazione, mi sembra che non sia stato fatto alcun danno dalla nostra operazione di comunicazione. A volte, dalle mie esperienze personali con la disabilità a scuola, ad esempio, percepisco che la stessa è fortemente connessa con la sofferenza, e pare che se non si soffre non si ha veramente a che fare con la disabilità. Andrea e Franco sono esuberanti, carismatici, divertenti, gioiosi. Franco dice: “Certo che ogni tanto non ce la faccio più, e allora mi chiudo nella stanza accanto e tiro pugni, piango, urlo. Davanti ad Andrea però non lo faccio, non voglio che sappia che soffro a causa sua. Voglio che sappia che sono orgoglioso di lui, che lo amo e mi dà gioia. A volte fingo ma mi sembra un bel modo di assumere il mio ruolo di padre e di uomo”. Uno che ti può dire che va tutto bene anche quando sa che non è così».

Cosa pensi di questo atteggiamento di Franco?
«L’hanno accusato di essere “narciso”, di avere reso famoso il figlio per soddisfare alla sua vanità personale. A me sembrano chiacchiere. Franco è com’è, un altro si sarebbe comportato in un modo diverso. Non bisogna generalizzare. Ognuno si comporta come vuole e riesce. Personalmente penso ci sia bisogno, ogni tanto, di uomini capaci di fare gli uomini».

Ci sono genitori con caratteri più miti e delicati, non per questo meno bravi o meno coraggiosi.
«Sono d’accordo. Ma è lo stesso discorso dell’autismo. Quando scrivo che Andrea è autistico, non voglio dire che tutti i soggetti autistici corrispondano al quadro clinico di Andrea. Quando affermo che Franco è un uomo che tenta con tutte le sue forze di rendere bella la vita di suo figlio, non voglio dire che l’unico modo per dedicarsi al proprio figlio disabile sia copiare le scelte di Franco. Mi pare che a volte ci sia chiusura. Tanti atteggiamenti sono tabù, troppo poco certi per poterne parlare  pubblicamente. Invece Franco ha il coraggio di menzionarli».

Ad esempio?
«I vaccini. C’è chi ipotizza una relazione tra i vaccini e l’autismo. I bambini vengono vaccinati tra i due e i tre anni, quando il loro cervello si sta ancora formando a livello biologico. Non se ne può parlare perché c’è tutta l’industria farmaceutica che si oppone. Anche qui, non sto dicendo che è senz’altro così. Sto dicendo che è un’ipotesi che non vedo perché si debba escludere a priori. C’è bisogno di prove scientifiche. Eppure i farmaci ufficiali, quelli approvati per la cura dell’autismo, sono a loro volta pieni di effetti collaterali anche gravi. Mi sembra lo stesso discorso che ammettere percorsi di cura e studio meno scientifici e magari, quanto meno, innocui. Insomma su questi aspetti mi trovo d’accordo con Franco, ma so che queste parole suscitano disagio, se non paura e conseguente opposizione, in molti genitori. D’altronde le recenti Linee Guida sull’Autismo vanno proprio in quest’ultima direzione, totalmente dalla parte dell’industria farmaceutica».

E se Franco si sbagliasse? Non è pericoloso diffondere false informazioni, false speranze? Non crea confusione?
«In una società dove manca il dialogo è così. Quando qualcuno dice qualcosa di controcorrente, si grida subito all’eretico. Ma se il dialogo e il confronto fossero continui, allora ci potremmo permettere di rischiare molto di più perché potremmo poi sempre ritrattare, aggiustare il tiro. L’imprecisione fa parte della natura umana. E d’altra parte la comunicazione controllata ha prodotto effetti migliori? Ha aumentato le tensioni, le opposizioni, e anche così cure ufficiali si sono rivelate nel tempo inefficaci se non addirittura dannose».

Franco e Andrea Antonello

Franco e Andrea Antonello durante il loro viaggio nelle Americhe

Ne fa un discorso più sociale che personale, dunque.
«La nostra società ha degli aspetti che rendono più difficile l’esperienza privata della disabilità. Uno è questo che ho detto, la diffidenza, o direi proprio la paura, rispetto a tutto quello che non è ufficialmente selezionato. Mi rendo conto che ci sono problemi di truffatori, approfittatori, di speranze spezzate, mi rendo conto che è una questione grave e certamente fare chiarezza scientifica e dare dei riferimenti alle famiglie è fondamentale. Ma il rischio è di “scivolare dall’altra parte”, escludendo ipotesi che potrebbero essere benefiche».

Come un viaggio attraverso le Americhe?
«Certo. E come l’esperienza “da personaggio famoso” che Andrea sta facendo in questi mesi. Mi sembra che gli faccia bene. Lo vedo contento, nutrito. Suo padre ogni tanto lo porta con sé durante le presentazioni del libro e viene applaudito come una star. Inoltre, le persone si abituano a vederlo. I suoi comportamenti strani, i suoi momenti di blocco. E siccome hanno letto o sentito di lui, sono più ben disposti. È questo in fondo che sta facendo Franco, vuole che suo figlio diventi famoso perché le persone lo accettino di più per quello che è, non siano spaventate da un’entità sconosciuta, ma abbiano un po’ familiarizzato con certe “stranezze”. Uno “sdoganamento” che, ripeto, può essere rischioso, può essere pericoloso, sbagliato, ma è un tentativo e non è irreparabile. È umano e Franco è intelligente, saprà come correggere il tiro se ce ne sarà bisogno».

In quali altri aspetti la nostra società può rendere difficile l’esperienza della disabilità?
«Ne ho accennato un attimo fa. Siamo abituati a pensare ognuno per sé. La storia di Andrea appartiene alla sua famiglia. Non ci riguarda. Al massimo ci dispiace. Al massimo facciamo una donazione durante la Giornata di Raccolta Fondi sull’Autismo. Al massimo gli facciamo un sorriso. Ma abbiamo la nostra vita a cui pensare. Così la disabilità oggi è molto quella delle battaglie sui diritti umani e sull’inclusione da un punto di vista formale, legislativo, ed è fondamentale, ripeto, assolutamente fondamentale, ma è meno quella della solidarietà intesa non nel senso del pietismo o della carità, ma nel senso di sentirsi parte della società, collegati gli uni agli altri, e quindi di assumersi responsabilità non solo per i propri cari, ma anche per gli altri.
Nel libro che ho scritto si vede bene la differenza tra l’America settentrionale, che in questi aspetti ci assomiglia, e l’America Latina. In Sudamerica Andrea è stato al centro dell’attenzione, esperienza quasi mai sperimentata in classe o in generale in contesti sociali, in Italia e negli Stati Uniti. In Sudamerica le persone invece andavano da Franco a chiedere cos’avesse Andrea e ognuna offriva la sua soluzione, uno sciamano, un’erba, oppure ospitarlo per una notte per permettere al padre di godersi un po’ di tempo per sé. Gratuitamente, al di fuori di un discorso di Prodotto Interno Lordo, di dare-avere».

Nel totale rispetto delle opinioni espresse qui e nel suo bel libro da Fulvio Ervas – che ringraziamo per la grande cortesia e disponibilità nel concederci questa intervista esclusiva – riteniamo però quanto meno opportuno ricordare ancora una volta ciò che ha recentemente scritto su queste pagine Liana Baroni, presidente nazionale dell’ANGSA (Associazione Nazionale Genitori Soggetti Autistici), nel testo intitolato Esperienza di vita, non manuale di terapie: «Solo dopo avere messo in atto le terapie scientificamente provate per migliorare la vita delle persone con autismo, definite ad esempio dalla Linea Guida “Trattamento dei disturbi dello spettro autistico nei bambini e adolescenti” dell’Istituto Superiore di Sanità, si possono aprire le ali della fantasia e delle esperienze individuali. Perché ogni storia umana è importante, ma il messaggio in essa contenuto non sempre è l’esempio da imitare».
Una
Linea Guida, quella citata da Liana Baroni, alla definizione della quale – è bene ricordarlo – hanno collaborato per anni tutte le principali organizzazioni italiane impegnate sul fronte dei disturbi dello spettro autistico. (S.B.)

Scrittore, autore del libro “Se ti abbraccio non aver paura”.

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