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Una settimana di viaggio in carrozzina, per tutti

Particolare di viso femminile, con espressione di profondo sconfortoHo 29 anni, e a causa di una malattia neuromuscolare degenerativa sono in sedia a rotelle da diverso tempo. Di solito uso la mia sedia a motore, e così riesco ad andare al lavoro da sola, e a girare giorno e notte quanto mi pare e piace.
Proprio al ritorno da uno di questi miei giri per la città, ho conosciuto una ragazza straordinaria, Felicité, come me disabile, che pure si muove con una sedia a motore. È stato come un “colpo di fulmine”! Entrambe eravamo sulla via di casa, ci siamo viste da lontano, ci siamo squadrate (un po’ come nei film western prima di un duello…), ci siamo stupite della presenza di un altro essere umano in sedia a motore, in giro per le strade di Brescia. Infine, credo di poter dire che entrambe morissimo dalla voglia di parlarci! Ero perciò quasi alla porta d’ingresso della mia casa, quando decisi di tornare sui miei passi (per così dire…) e di avvicinarmi a Felicité che, accompagnata da un’amica, si era saggiamente appostata a dieci metri da me, aspettando solo che le rivolgessi la parola.
Non la faccio lunga: ci siamo presentate e paradossalmente abbiamo scoperto di conoscerci già, almeno “per sentito dire”. Entrambe, infatti, eravamo state aiutate dalla stessa équipe di professionisti del CTVAI (Centro Territoriale per la Vita Autonoma e Indipendente), un ente letteralmente “grandioso”, che colgo l’occasione di ringraziare per averci permesso di costruire la nostra vita in autonomia.

Bene, il tempo di un sorriso, di una stretta di mano ed eravamo già amiche per la pelle! Nonostante all’apparenza sembriamo molto diverse – lei scura scura, viene dal Ciad, io bianca abbagliante, bresciana – da subito ci siamo rese conto che qualcosa di profondo e di vero ci univa.
Ora Felicité è qui accanto a me. Abbiamo scoperto infatti di essere vicine di casa, e così ogni tanto lei passa a trovarmi. Tra una chiacchiera e l’altra, un sorso d’acqua ghiacciata per rinfrescarsi dall’arsura di questo periodo e una cucchiaiata di budino al cioccolato, ho ascoltato le sue disavventure. In molte mi sono riconosciuta, inutile dirlo, ma alcune storie mi hanno davvero sconvolta e sconcertata. Perciò ho deciso di prestarle la mia “penna”, e di darle voce in questa denuncia.

Felicité si muove quando può con l’Accabus, servizio di autobus solo per disabili residenti nel Comune di Brescia – cosa secondo me assai ghettizzante – che però funziona esclusivamente in certi orari e che spesso costringe ad aspettare molto tempo, perché si devono “incastrare” le richieste di molte persone. Quando l’Accabus non c’è, si prendono gli autobus di linea. E qui nascono i problemi.
La mia amica del Ciad mi ha raccontato che una volta, sulla linea n. 3, il conducente si è rifiutato di farla salire sul bus, insultandola, dicendole che «lei e la sua sedia a motore pesavano troppo», e – testuale – «di non rompere i coglioni». Altre volte, in situazioni simili, l’autista non ha voluto aiutarla ad aprire la rampa per accedere al mezzo, nonostante si trattasse di muovere un dito! Tanto basta, infatti, per aprire la parte superiore della rampa, fatta “a portafoglio”, che si va ad appoggiare sul marciapiede. Come se non bastasse – ciò che mi ha amareggiata ancor di più – nessuno degli altri passeggeri sull’autobus si è mai offerto di dare una mano…

Servizio Accabus di Brescia

L’Accabus di Brescia, ritenuto da Maddalena Botta un servizio utile, ma «ghettizzante»

Se dunque Felicité non è accompagnata dall’amica Sabine, nove volte su dieci non prende l’autobus! Oppure deve aspettare in grazia di trovare un autista più gentile – di solito donna – che le fa “il favore” di farla salire sul bus. Come se non fosse un suo diritto…
Se poi sulla vettura c’è già una sedia a rotelle, lei non può salire. Le è stato detto, in malo modo, che c’è posto per un solo disabile. E che «non rompesse le scatole», ancora una volta.

Ma è questa l’Italia che vogliamo? Io stessa posso raccontare di simili disavventure che farebbero vergognare Trenitalia, l’ATM (Azienda Trasporti Milanesi), Trenord.
Sono stata ad esempio cinque giorni a Milano per uno stupendo seminario di teatro, ma muoversi a Milano è realmente un incubo. Mentre le persone “normali” possono prendere treni e metropolitane all’ultimo minuto, io per Trenitalia devo prenotare 24 ore prima, per Trenord addirittura 48 ore in anticipo. E per che cosa, poi? Infatti, la mia prenotazione con Trenitalia, per il viaggio di ritorno, è sparita misteriosamente e hanno dovuto rifarmela last minute in Stazione Centrale a Milano, domenica sera, per il rientro a Brescia.
Quanto a Trenord, l’unica volta che ho prenotato, l’addetto all’assistenza disabili non è stato in grado di aprire la rampa d’accesso al vagone, né le porte d’uscita, all’arrivo in stazione. È per questo tipo di aiuto che devo chiamare 48 ore prima? Mi sono sempre arrangiata molto meglio da sola. Come per chiunque, del resto, mi è difficile pianificare con esattezza le mie giornate e la mia vita. Vorrei darmi la possibilità di prendere un aperitivo all’ultimo minuto con gli amici o di andare al cinema o di cambiare programmi senza avere l’angoscia di un treno che ti aspetta… Basterebbe tanto poco: segnalare sui tabelloni, anche di giorno in giorno, quali mezzi sono accessibili.
E ancora, una sera ho chiamato il centralino dell’ATM per avere informazioni sull’accessibilità di un tratto della linea gialla della metropolitana, Affori Nord-Stazione Centrale. Per tutta risposta mi è stato detto di chiamare la mattina dopo, appena prima di prendere la metro, perché poteva benissimo essere che se anche il montascale la sera avesse funzionato, di notte avrebbe potuto esserci un guasto… Infine, presa la tanto agognata metro, il montascale non l’ho trovato, perché le indicazioni fanno realmente schifo. Perciò ho chiamato un addetto, il quale si è rivolto a un suo superiore, cogliendo così l’occasione «per fargli vedere come funziona il montascale»… A quel punto il “superiore” mi ha chiesto quanto pesassimo, io e la carrozzina, «perché sa, questi montascale li hanno costruiti quando ancora non c’erano queste cose tecnologiche», riferendosi naturalmente alla mia sedia a motore… Poi, mentre salivo lentamente la rampa di scale, sul montacarichi, il “superiore”, anziché dare una mano alla mia assistente e al collega pieni zeppi di bagagli, mi stava accanto e osservava, accertandosi che il montascale non desse segni di fatica…

Potrei andare avanti ancora per molto a raccontare tante altre storie, più o meno simili, più o meno spiacevoli, più o meno umilianti. Ma mi fermo qui, sperando solo di aver suscitato un po’ di indignazione.
Seduti su una sedia a rotelle, a motore o manuale, rimaniamo sempre e soprattutto persone e come tali chiediamo di essere trattate.
Concludo – anzi concludiamo – con una proposta: un corso di formazione per tutti i dipendenti delle aziende di trasporto pubblico, per sensibilizzare alla disabilità. Una settimana di viaggio in carrozzina, nessuno escluso. Io mi offro per prestare la mia!

Con Felicité Toubemne.

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