Rinato alla vita grazie allo sport

Destinato a una promettente carriera di calciatore, dopo l’incidente stradale che a ventidue anni gli ha causato una lesione alla colonna vertebrale, il piemontese Luca Spano si è scoperto campione del tennis in carrozzina e ritiene che sicuramente lo sport possa diventare un’arma per rinascere e per tornare a vivere

Luca Spano

Luca Spano, Azzurro del tennis in carrozzina

“Un’arma vincente per rinascere alla vita”: è questo il senso dello sport per l’Azzurro del tennis in carrozzina Luca Spano, nato nel 1966 a Borgomanero (Novara), dove aveva giocato a calcio nella squadra locale, dai 6 ai 22 anni, fino all’incidente stradale che gli ha cambiato ogni prospettiva. «In tanti – racconta – mi dicevano che avrei avuto un futuro promettente. Infatti, ero stato convocato più volte nella Nazionale Italiana Dilettanti e proprio l’anno prima dell’incidente, stavo per andare a giocare in una delle due squadre professionistiche che erano allora Parma e Piacenza, formazioni di Serie A e B. Ora risiedo e lavoro a Gallarate (Varese), dove svolgo l’attività di Gestore Clientela Privata per la Società Bnl-Gruppo Bnp Paribas e sono felicemente sposato con Barbara, la donna che mi ha dato e mi dà una serenità e un equilibrio strepitosi.

E l’incidente?
«Come in tutti gli eventi della vita, io credo che il destino e Dio abbiano stabilito delle cose che alcune volte potrebbero all’apparenza sembrare dei problemi, ma che possono – se incanalate nella giusta direzione – diventare delle opportunità. Avvenne in una sera di febbraio del 1988, dove in seguito a uno scontro con un’altra auto, riportai una lesione alla colonna vertebrale, che avrebbe poi condizionato la mia possibilità di poter deambulare, portandomi all’utilizzo della carrozzina. In quel caso il destino ha voluto che, pur essendo una strada secondaria con scarso traffico, proprio quella sera e in quel preciso momento incrociassi un’altra macchina che causò lo scontro. Ma grazie alla mia forza d’animo, a una famiglia fantastica e a degli amici strepitosi, la mia reattività è risultata decisiva per la mia vita. Dopotutto ero vivo e nulla mi era stato precluso, se non il fatto di camminare, ma per fortuna si poteva continuare a sognare, a viaggiare, a fare l’amore, insomma a vivere».

Come è arrivato al tennis in carrozzina?
«Lo sport è sempre stato parte di me, però dopo l’incidente, non avendo più potuto giocare a calcio, temevo che non avrei trovato più nulla che mi potesse esaltare. Un giorno, invece, il mio amico Alessandro mi mise in contatto con una maestra di tennis, che aveva seguito un corso di tennis in carrozzina, con l’allora numero uno del ranking mondiale, l’americano Stephen (Steve) Welch e fu lei a convincermi a provare. Da allora il tennis è diventato come una “droga”, giocherei sempre. E in più, i risultati ottenuti in questi anni di agonismo hanno pienamente riempito le mie emozioni e la mia testa».

Cosa rappresenta per lei il tennis?
«Sicuramente, ormai da anni, rappresenta una buona fetta della mia vita, in quanto mi impegna sia fisicamente che mentalmente, senza togliere il fatto che allenamenti e tornei occupano molto spazio nelle mie giornate. Infatti, in questo momento io mi alleno dalle tre alle quattro volte alla settimana, incrementando un po’ quando sono a ridosso di tornei importanti».

Come si potrebbe fare avvicinare al tennis, nel più breve tempo possibile, le persone con limitazioni fisiche da post-trauma?
«Fortunatamente oggi abbiamo una rete di informazioni che possiamo tranquillamente acquisire senza grande difficoltà, andando principalmente sul sito della FIT (Federazione Italiana Tennis), nella sezione dedicata al tennis in carrozzina, dove si trovano non solo le notizie, ma anche i contatti e i siti che rendono possibile anche solo provare la disciplina. A livello nazionale si fa riferimento a quei Centri in cui esiste un tecnico preparato e grazie all’attenzione, ormai, anche degli organi d’informazione, è veramente molto semplice avvicinarsi a questa specialità, che io consiglierei a chiunque».

Sappiamo che fa parte della Nazionale Azzurra, ma che non ha partecipato alle recenti Paralimpiadi di Londra. Come mai ha erso questo “treno”?

Luca Spano

Un’altra bella immagine di Luca Spano sul campo da tennis

«I treni sono fatti per essere presi e alcune volte se ne perdono alcuni di molto importanti, ma sicuramente chi come me ha passione, abnegazione e voglia di provarci sempre, prima o poi un treno importante lo prende! Infatti, insieme al mio coach Paolo Zingale, siamo già orientati verso nuovi obiettivi e conquiste. Se poi saranno le Paralimpiadi, lo potremo valutare nei prossimi anni.
Questa volta il fatto che io abbia preso l’aspettativa dal lavoro per dedicarmi completamente al tennis non è bastato, poiché buona parte di chi ha gareggiato a Londra svolge questa attività da professionista, avendo quindi molte risorse da sfruttare. Io ci sono passato molto vicino, togliendomi anche delle buone soddisfazioni e vincendo dei match di qualificazione, che hanno incrementato la mia fiducia e migliorato la mia tecnica sia fisica che mentale. Quindi sono pronto per nuove sfide!».

Auspica anche lei che il tennis in carrozzina sia diviso per categorie come ad esempio nell’handibike, cioè a secondo del grado di limitazione fisica (Amputati, Paraplegici ecc.)?
«Non ho mai fatto polemiche su tale questione, anche perché sembra che la Federazione Internazionale non abbia alcuna intenzione di ascoltare le motivazioni e tuttavia ritengo che sicuramente la differenza fisica vista ultimamente tra chi non ha muscolature residue importanti, come di chi cammina o è amputato, condizioni e sia determinante per il risultato finale delle partite.
Credo anche che ad oggi ci siano i numeri per poter valutare di costituire almeno due categorie, affinché il gap tra i vari giocatori sia ridotto, poiché adesso il divario è veramente notevole, se non incolmabile».

Quale messaggio riesce a dare lo sport alle persone con disabilità?
«Si dovrebbe partire dal fatto che lo sport – sotto qualunque forma, e indipendentemente dalla razza, dal colore, dalla lingua o dalla disabilità – sia una grandissima scuola di vita, dove si impara a convivere con le vittorie e le sconfitte, come succede fuori dal campi di gioco. Da sempre è chiaro che per le persone con disabilità esso sia un’ulteriore forma di “integrazione”, anche se credo – ma questo è un mio personale pensiero, non sentendomi disabile – che bisognerebbe capire bene il significato di integrazione. E in ogni caso, sicuramente lo sport può diventare veramente un’arma per rinascere e vivere».

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