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La SLA di mio marito

Francesca Giordani e il marito Alberto

Francesca Giordani a fianco del marito Alberto

In questi ultimi mesi nei quale le persone affette da gravi malattie come la SLA (sclerosi laterale amiotrofica) hanno “gridato” a gran voce per ottenere diritti vitali, abbiamo voluto ascoltare anche la voce di un familiare che condivide la patologia del marito.
Condividere è il termine più adatto che sono riuscita a trovare, perché Francesca dorme su una brandina vicina al letto pieno di apparecchiature del marito e lo accudisce come solo un cuore ricolmo d’affetto potrebbe fare in queste circostanze. Non basta però l’affetto! C’è bisogno anche di un piano di cure personalizzato e di un assegno di cura adeguato poiché i familiari svolgono il lavoro di un’équipe medico-infermieristica e la casa si trasforma in una vera e propria camera di degenza ospedaliera.
Francesca Giordani ha 55 anni ed è nata in provincia di Pordenone. La sua vita lavorativa è stata abbastanza variegata. Ma gli anni più intensi sono stati quelli come collaboratrice del Gruppo Abele, sia vivendo in comunità che lavorando nelle attività di tale organizzazione. «Un’esperienza molto intensa – ci racconta lei stessa – che si è conclusa quando ho sposato Alberto. Lui si era trasferito a Torino da Fossano (Cuneo), proprio per lavorare nel Gruppo Abele. Con l’arrivo di  Micol, poi, mi sono ritrovata a fare la mamma a tempo pieno. In seguito ho lavorato part-time per sei anni in una ludoteca del Comune di Torino e contemporaneamente come impiegata amministrativa in una ditta privata. Ora sono in aspettativa retribuita in base alla Legge 104, fino al luglio del 2013. Poi dovrò decidere se tornare al lavoro o se dare le dimissioni».

Quando hai esattamente conosciuto Alberto?
«Nel 1985. Come ho detto, lavoravamo entrambi nel Gruppo Abele. Sai come succede…. Fu amore a prima vista. A novembre vivevamo insieme e nel luglio successivo ci siamo sposati. Non siamo una coppia inossidabile, abbiamo attraversato momenti molto difficili e anche rotture che sembravano definitive, eppure…. siamo ancora qui».

Com’era la vostra vista prima della diagnosi di SLA? E com’è cambiata adesso?
«Conducevamo un’esistenza normale, lavoravamo, viaggiavamo molto, da soli, poi con Micol (fino all’adolescenza) e quindi nuovamente in coppia. È una cosa che mi manca molto, ma, come dice Alberto, “mai guardarsi indietro, la nostalgia uccide!”. Lui, patito della montagna, mi portava a camminare, io, invece, appassionata di vela, lo trascinavo in qualche uscita in barca. Si andava spesso al cinema, e sceglieva sempre Alberto, perché un film scelto da lui è una garanzia e io mi sono sempre affidata volentieri sapendo che non ci avrei rimesso.
L’ultima volta era già in carrozzina, una sala torinese, accessibile dall’ingresso alla sala, ma poi… solo scale. O ti facevi venire il torcicollo mettendo la carrozzina davanti alla prima fila e guardando lo schermo con una prospettiva piuttosto sgradevole o chiedevi a qualcuno compassionevole di aiutarti a fare le scale con la carrozzina. Il problema dell’accessibilità ci ha privato di parecchie uscite, anche quando potevamo ancora goderne. A teatro, spesso, i posti riservati ai disabili sono “in piccionaia”, solo al Carignano [Teatro Carignano di Torino, N.d.R.] era sistemato a metà sala, una collocazione decente e non da ultimi arrivati. All’Alfieri [Teatro Alfieri di Torino, N.d.R.] addirittura, per “motivi di sicurezza”, non potevamo lasciare Alberto in carrozzina nel passaggio (anche se c’era spazio a sufficienza sia per la carrozzina che per il passaggio delle persone), ma dovevamo spostarlo su una poltrona fissa e portare la carrozzina in fondo alla sala. Se fosse successo qualcosa, con quali tempi avremmo potuto allontanarlo? La “sicurezza” cui facevano riferimento non era certo la sua.
Questo Paese deve fare ancora molta strada per rispettare le persone con disabilità e l’accessibilità è ancora sin troppo spesso solo il formale rispetto di una norma di legge, che non prevede però che il disabile debba anche godere di quello che va a vedere. Insomma, era diventata più una fatica che un piacere e abbiamo smesso di vedere film o spettacoli, anche se avremmo ancora potuto farlo.
Oggi, ovviamente, ci muoviamo pochissimo perché Alberto si affatica facilmente, abbiamo amici che vengono a trovarci e ogni tanto ci portano qualche film da vedere insieme in TV. Ci fa piacere ricevere visite di amici che ci trattano come tali. Io non riesco a pensare ad Alberto come a un “malato”, penso a lui come una persona che ha delle condizioni di vita difficili e complicate. Non a un “ammalato”. La malattia ha fatto il suo corso (e speriamo abbia finito la sua opera distruttiva), ora basta, è una persona che vive in condizioni particolari. Chi viene a trovarlo non viene in visita a un ammalato, ma viene a chiacchierare del più e del meno, a commentare gli avvenimenti, a vedere un film, a parlare di cucina per farlo arrabbiare».

Chi è il più forte tra di voi?
«Non lo so. Entrambi o nessuno dei due. Siamo normali, abbiamo momenti di sconforto e altri più sereni. Certo, la nostra situazione è difficile, davvero se guardiamo a quello che abbiamo perso, rischiamo di finire in un baratro senza fondo, ma se guardiamo a quello che possiamo ancora cercare di avere, riusciamo ad andare avanti».

Parliamo brevemente del Comitato 16 Novembre [Comitato 16 Novembre (Associazione Malati SLA e Malattie Altamente Invalidanti), N.d.R.]?
«È  nato a ruota di quella mobilitazione del 16 novembre 2010, appunto, che portò allo stanziamento di 100 milioni di euro per l’assistenza domiciliare ai malati di SLA. Si trattò di una mobilitazione spontanea di malati che non si sentivano rappresentati dalle grandi associazioni nazionali e che volevano una risposta e non le solite promesse che non avevano seguito».

Come siete giunti recentemente alla decisione di attuare lo sciopero della fame?
«Nell’aprile di quest’anno, a seguito di un’ennesima manifestazione a Roma, ci era stato detto che era allo studio, ormai da cinque mesi, un piano organico di intervento sulle disabilità. Ancora qualche mese di pazienza e il piano sarebbe stato reso pubblico. Qualcuno poi ha saputo qualcosa in merito?…
Non so se esasperi maggiormente la condizione in cui si vive o le eterne prese in giro da parte delle Istituzioni che dovrebbero garantirti. Si dice a mali estremi… estremi rimedi. Cos’altro possiamo fare? Credo non si tratti solo di rivendicare un diritto, ma sia anche un dovere costringere le Istituzioni ad adempiere il loro ruolo. Inoltre, gli ammalati di SLA avevano avuto un contributo e perché gli altri ammalati nelle stesse condizioni no? Ci sentivamo ingiustamente privilegiati. Quello che rivendichiamo è dunque che sia istituito un fondo per la tutela di tutti i non autosufficienti. Senza poi contare che il Nomenclatore degli Ausili è vecchio di oltre dieci anni (non vi è previsto, ad esempio, il comunicatore oculare) e che i LEA (Livelli Essenziali di Assistenza) andrebbero urgentemente aggiornati.
C’è chi ci accusa di fomentare una “guerra tra poveri”, di non tenere conto che anche le altre disabilità, meno gravi, vanno tutelate. È vero, ma in attesa della soluzione ideale per tutelare tutti, cominciamo a fare qualcosa almeno per chi sta peggio? Altrimenti rischiamo di restare eternamente in attesa di soluzioni fantastiche che non arriveranno mai. A una persona privata di tutto, meno che della lucidità di comprendere perfettamente la condizione in cui si trova, possiamo almeno risparmiare l’angoscia di sapere che – se decide di vivere ugualmente – costringe i propri familiari a una vita di sacrificio al limite delle possibilità? Oggi deve scegliere se vivere, mettendo agli “arresti domiciliari” il marito o la moglie e/o togliere il futuro ai figli (perché ha necessità di qualcuno costantemente al suo fianco), o rifiutare la tracheotomia e liberare la famiglia da un peso che, senza aiuti, è insopportabile».

È stato naturale che facessi anche tu lo sciopero della fame?
«Sì, quando si dice che con la SLA è “una famiglia che si ammala” e non una persona, è vero. Però quando ho paventato ad Alberto che se avessi dovuto sentirmi male, l’unica soluzione sarebbe stata quella di un ricovero… mi ha detto di mangiare».

Cosa ci si aspetta da questo Governo?
«Francamente avevo parecchie attese su questo Governo, e oggi sono abbastanza delusa. Infatti, non ha attaccato i privilegi e ha pescato nelle solite tasche. Quando il tesoriere di un partito può perdere 100.000 euro al gioco e nessuno se ne accorge, vuol dire che hanno troppo denaro. Se a me mancano 50 euro nel portafoglio, me ne accorgo subito e li vado a cercare, se non li cerchi è perché non ne hai bisogno.
Se davvero si volessero recuperare gli sprechi, ci sarebbe denaro sia per le esigenze del sistema sanitario che per gli interventi nel sociale. Quello che non riesco a capire è perché ci siano tante resistenze a rendere praticabile un progetto come quello per cui ci battiamo, che è a basso costo. Sono malati che in ospedale sono ricoverati in rianimazione, nelle RSA [Residenze Sanitarie Assistenziali, N.d.R.] fatichi a trovare posto, perché non sono molte quelle attrezzate per accoglierli, data l’alta intensità di cure di cui hanno bisogno. E in ogni caso il costo per la collettività è elevato, si stima in circa 70.000 euro all’anno. Per l’assunzione di assistenti familiari, noi abbiamo fatto la richiesta di 20.000 euro all’anno per i casi più gravi. A questo punto riesco solo a pensare che con le famiglie si possa intrallazzare poco… Oppure, siccome le famiglie spesso sono disposte a svenarsi piuttosto che ricoverare il familiare, cinicamente le si lascia dissanguare, costa ancora meno.
Forse la nuova forma di protesta potrebbe essere quella di far ricoverare contemporaneamente tutti i nostri cari, credo andrebbe in tilt il sistema. Alberto sicuramente preferisce non mangiare».

Cosa desideri più di tutto per il tuo compagno di vita?
«Serenità e qualche momento di allegria. Abbiamo una splendida figlia, di cui siamo enormemente orgogliosi, vorrei che potesse godere dei suoi successi e consolarla nei momenti bui».

Il futuro è solo domani, oppure?
«Sì, ho imparato a non fare progetti perché le condizioni di Alberto sono così imprevedibili che spesso facciamo programmi, anche a breve, che saltano all’ultimo minuto. Può diventare frustrante non riuscire a portare a termine quello che avevi progettato, qualsiasi cosa sia. Meglio vivere alla giornata, che non vuol dire rinunciare a tutto, solo si fa quello che si ha voglia di fare in quel momento».
Grazie Francesca.

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