Disabilità intellettiva: imparare a lavorare

In una situazione come quella attuale, dove in nome della “sostenibilità economica”, si tagliano ripetutamente i servizi e i sostegni, mettendo in discussione diritti fondamentali, compreso quello del lavoro, approfondiamo una serie di questioni con chi, come Carlo Lepri, ha acquisito un’esperienza ormai ultratrentennale in àmbito di inserimento lavorativo delle persone con disabilità intellettiva

Giovane donna con disabilità intellettiva al lavoroPsicologo e formatore, docente a contratto nell’Università di Genova, Carlo Lepri – che ha acquisito un’esperienza ultratrentennale in materia di inserimento lavorativo delle persone con disabilità, prevalentemente di tipo intellettivo – ha partecipato qualche mese fa al seminario di Jesi (Ancona), denominato Lavoro e disabilità intellettiva. È così difficile?, incontro organizzato dal Gruppo Solidarietà, che lo ha intervistato su alcuni temi approfonditi anche durante quello stesso seminario, al quale avevamo dato a suo tempo ampio spazio.

Nell’incontro dello scorso anno a Jesi, lei hai affermato che «l’essere adulti è il tema ed il lavoro è uno strumento per vivere questa condizione. Non il contrario». Ci aiuta a capire meglio?
«Nella mia attività professionale mi sono occupato prevalentemente di inserimento lavorativo di persone con una difficoltà di funzionamento di tipo intellettivo. Come è noto, uno dei tratti caratteristici di questa “categoria”, accanto ai deficit cognitivi, è quella di presentare una certa immaturità relazionale. Si tratta di quella caratteristica che per molto tempo ha fatto sì che si pensasse a queste persone come a degli “eterni bambini”, dei “Peter Pan” da accudire in luoghi appositamente dedicati a loro. I processi di integrazione scolastica e nel mondo del lavoro hanno dimostrato invece che nel momento in cui cambiano i contesti, cambiano anche le aspettative verso le persone e con esse le rappresentazioni che noi abbiamo della disabilità. Nello specifico ci siamo resi conto che anche le persone con disabilità intellettive possono diventare adulte e non solo anagraficamente. Quindi, poter vivere una vita adulta, con i diritti e i doveri che questo comporta, è diventato un obiettivo possibile anche per queste persone.
Come sappiamo, il lavoro è uno dei mezzi che caratterizzano la vita delle persone adulte. Esso offre autonomia economica, ma è anche un potente strumento identitario e di socializzazione. Questo è vero in generale e lo è a maggior ragione per persone che possono avere qualche difficoltà aggiuntiva proprio sul piano della identità e delle relazioni sociali. Tuttavia il lavoro è uno strumento per accedere a questa condizione di adultità e non può trasformarsi nel fine. Ciò significa che non possiamo proporre percorsi lavorativi in modo generalizzato poiché in alcuni casi il lavoro potrebbe non essere coerente con i bisogni di una persona disabile. In più il lavoro non può essere proposto in modo “astorico” a una persona. Occorre infatti che la possibilità di “diventare grande”, attraverso il lavoro faccia parte di un progetto educativo che deve avere inizio prima possibile».

Lei dice che per le persone con disabilità intellettiva non si tratta tanto di imparare un lavoro ma di imparare a lavorare. Perché e come si riesce ad “imparare a lavorare”?
«In effetti su questi temi, a volte, si commettono errori grossolani. Ovviamente si tratta di una distinzione molto schematica poiché questi due processi, imparare a lavorare e imparare un lavoro, sono sempre intimamente connessi. E tuttavia, mentre l’imparare un lavoro fa riferimento all’apprendimento di una serie di compiti spesso riducibili a delle sequenze operative, imparare a lavorare fa riferimento a qualcosa di più complesso, che ha a che vedere con la capacità di “introiettare” il ruolo lavorativo. In altre parole alla capacità di fare proprie, di “mettersi dentro”, tutta una serie di regole, norme, criteri che hanno a che vedere con ciò che gli altri si aspettano che io faccia in quel contesto lavorativo. Quello che in termini tecnici viene definito come il role taking, cioè proprio la capacità di assumere il ruolo lavorativo. Questo apprendimento può essere particolarmente complesso, soprattutto se una persona non è stata abituata a confrontarsi con i ruoli e con le aspettative che li accompagnano».

Carlo Lepri

Carlo Lepri

L’esperienza genovese del Centro Studi dell’ASL 3 ha sostanzialmente fatto nascere i Servizi di Integrazione Lavorativa (SIL) in Italia. Il radicale cambiamento del mondo del lavoro, che ripercussioni ha avuto e ha sul lavoro dei SIL?
«Credo che l’esperienza genovese, anche grazie all’azione di Enrico Montobbio, abbia avuto due meriti. Il primo è quello di avere proposto una metodologia innovativa e di averla sperimentata con coraggio. Dico con coraggio perché ricordo che quando abbiamo avviato le prime esperienze, la Legge 482/68 [“Disciplina generale delle assunzioni obbligatorie presso le pubbliche amministrazioni e le aziende private”, N.d.R.], allora vigente, prevedeva espressamente che le persone con disabilità psichica e intellettiva non potessero essere inserite al lavoro. La nostra azione, per lungo tempo, è stata pertanto “ai margini”, se non “contro” la legge. E questo mi pare dimostri ancora una volta che le cose veramente innovative nascono sempre da una qualche deviazione dalla norma.
Il secondo è quello di aver cercato di mantenere una memoria di ciò che si faceva attraverso la pubblicazione di saggi e di libri. Ciò ha dato una certa visibilità al nostro lavoro e per un lungo periodo l’esperienza di Genova è stata al centro dell’attenzione sia a livello nazionale che internazionale. Alcuni di noi hanno così contribuito, attraverso l’attività formativa, alla nascita di numerosi Servizi di Integrazione Lavorativa in diverse parti del nostro Paese. Questi Servizi, attraverso la loro azione, sono stati dei precursori nell’attuazione del “collocamento mirato e mediato” che, com’è noto, è oggi alla base della Legge 68/99, dimostrando concretamente l’efficacia di questo principio.
Oggi, i cambiamenti nel mondo del lavoro a cui stiamo  assistendo – o forse sarebbe più corretto dire che stiamo subendo – stanno avendo numerose ripercussioni anche sull’azione dei SIL. Mi limito ad indicare due aspetti: uno qualitativo e l’altro quantitativo.
Sul piano qualitativo stiamo assistendo a un’impressionante delocalizzazione dei siti produttivi tradizionali, con l’eliminazione o lo spostamento in altri Paesi di gran parte della produzione labour intensive. Questo penalizza molto le persone disabili che proprio in questo tipo di lavori trovavano una loro collocazione più agevole. L’altro aspetto, banalmente quantitativo, è legato al fatto che il lavoro scarseggia sempre di più, mettendo tra l’altro in concorrenza tra loro soggetti appartenenti a diverse fasce deboli.
In questo difficile scenario, l’unico elemento rassicurante è che le metodologie messe a punto dai SIL, sia in termini di strumenti di mediazione che di sostegno psicoeducativo, risultano davvero efficaci. Quando possono essere attuate».

Crede che la Legge 68/99 abbia un po’ tradito le aspettative che in essa erano state riposte?
«Personalmente credo di no. Continuo a pensare alla Legge 68/99 come a una buona legge. Il problema semmai riguarda la sua piena applicazione. Sappiamo che esiste un’applicazione cosiddetta “a pelle di leopardo”. In alcune Regioni  è stato fatto uno sforzo importante di messa in rete dei servizi già esistenti prima della 68 e di attivazione dei servizi mancanti. Il tutto creando un sistema che garantisse, allo stesso tempo, servizi alle persone disabili e servizi alle aziende sottoposte agli obblighi. Laddove si è fatto questo, i risultati non sono mancati. Dove, invece, le persone disabili e le aziende non sono sostenute e non si facilitano i processi di mediazione, può accadere che la legge venga disattesa oppure che si preferiscano pagare le multe. Ma ciò non mi pare sia imputabile alla struttura della legge quanto, appunto, alla sua applicazione concreta.
Direi infine che – grazie agli ampi margini nell’individuazione delle persone disabili da assumere che la legge riconosce alle aziende – sempre più vengono inserite “categorie” specifiche di disabilità. E questo mi sembra un problema poiché nonostante nella legge siano presenti alcuni facilitazioni per le aziende che assumono persone con una “disabilità complessa” queste “doti” non sembrano sufficienti per garantire l’inserimento lavorativo anche a persone con maggiori difficoltà. Ma su questo aspetto alcuni SIL hanno messo a punto sperimentazioni interessanti che in alcune Regioni hanno già trovato importanti supporti sul piano istituzionale».

Carlo Lepri è psicologo e formatore, oltreché docente a contratto nell’Università di Genova. La presente intervista è l’estratto, con lievi riadattamenti, di un più ampio servizio apparso nel numero 1/2013 di «Appunti sulle Politiche Sociali», periodico del Gruppo Solidarietà, alla cui redazione rimandiamo gli interessati alla versione integrale (grusol@grusol.it).

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