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Una formazione specifica per i bambini con doppia diagnosi

La lezione inaugurale del corso promosso dalla Provincia di Roma

La lezione inaugurale del corso promosso dalla Provincia di Roma

Sempre più frequentemente, nella scuola di oggi, i bambini con gravi disturbi della vista dalla nascita, presentano anche altre problematiche di sviluppo. Fino ad ora queste ultime venivano lasciate quasi sullo sfondo, ma questi bimbi e ragazzi presentano caratteristiche che rendono necessarie metodologie e didattiche specifiche. Le loro necessità educative, infatti, non possono essere ricondotte unicamente al deficit della vista, ma dipendono dall’interconnessione tra questo e gli altri disturbi di sviluppo di cui soffrono. È il caso, ad esempio, dell’associazione tra la minorazione della vista e i disturbi dello spettro autistico, intesi in senso ampio, con differenti capacità cognitive e una vasta gamma di problemi emotivi e comportamentali.
Da tempo, quindi, sta emergendo la necessità di formare operatori specializzati nell’aiutare bambini con doppia diagnosi, cioè con minorazione visiva e disturbi pervasivi dello sviluppo.
Una prima importante esperienza, condotta dalla psicologa Maria Luisa Gargiulo – da anni specializzata e operante in questo settore – si è conclusa da pochi giorni. Si tratta del corso denominato Metodi e tecniche educative per bambini con deficit visivo e disturbi pervasivi dello sviluppo, che l’Assessorato alla Formazione Professionale della Provincia di Roma ha promosso a partire dall’ottobre scorso e che si è concluso il 15 febbraio presso Agorà, Scuola del Sociale della stessa Provincia Capitolina stessa.
Dopo un percorso lungo e approfondito, sono stati formati esattamente ventuno educatori, specializzati nell’aiutare bambini e ragazzi con doppia diagnosi. Affidiamo quindi alla testimonianza di alcuni di loro, e alle successive conclusioni della docente, il racconto di questa esperienza.

«Sono un educatore tiflologico – racconta Maria Clarice Bracci e lavoro in alcune scuole della Provincia di Roma, in qualità di assistente alla comunicazione tiflodidattica, con alunni disabili visivi o con minorazioni aggiuntive. Considerando il crescente numero di casi in cui è presente oltre al deficit sensoriale un disturbo pervasivo dello sviluppo, ho avvertito la necessità di formarmi in tal senso, allo scopo di fornire un intervento adeguato alle reali condizioni del bambino. Durante questo corso, ho potuto confrontarmi con altre persone operanti in realtà del tutto differenti dalle mie, cogliendo così nuovi spunti operativi e nuove prospettive su situazioni di comune problematicità. In particolare, ho apprezzato l’organizzazione dell’iniziativa perché ha saputo trasmettere con efficacia, in un tempo relativamente ristretto, una vastità di conoscenze e buone prassi riguardanti un argomento così complesso e con difficile opportunità di formazione specifica in Italia».
Riflettendo poi sulla condizione e sulle necessità di professionisti come lei, che operano nelle scuole, Maria Clarice ritiene «fondamentale l’attività laboratoriale svolta nella fase finale del percorso, che ci ha dato la possibilità di approfondire in gruppo tutti i contenuti proposti, elaborando insieme delle vere e proprie metodologie di intervento sulle diverse aree, generando tante nuove idee sui progetti da sviluppare in futuro e ipotizzando anche la creazione di una rete di condivisione e supporto tra colleghi».

Maria Pia Cardella, poi, da circa sei anni è assistente tiflodidatta, nelle scuole primarie e/o secondarie, per conto di un Istituto per Ciechi e Ipovedenti. «Il gruppo che si è formato – afferma – ha raccolto persone che provenivano dallo stesso àmbito di intervento scuola/famiglia, ma con diversi livelli di conoscenze: chi maggiormente sul campo, chi da un punto di vista più teorico. Spesso, nel nostro lavoro, il confronto con altri operatori è raro, seppure invece così importante. Inoltre, ho trovato molto interessante l’attenzione, la disponibilità e la sensibilità con la quale la docente durante le lezioni è stata in grado di riempire quel gap tra il teorico e il pratico che spesso è fonte di frustrazione per noi operatori».

Una testimonianza d’eccezione arriva quindi da Alessandra Parricchi, operatrice che è anche la mamma di una persona con un disturbo dello spettro autistico. «Da diversi anni – spiega – collaboro in qualità di assistente alla comunicazione tiflodidattica e di assistente domiciliare. Sono però anche la mamma di due gemelle di 8 anni, di cui una con disturbo autistico; ed è proprio grazie a mia figlia, che è nata in me la curiosità di sapere come poter aiutare bambini che oltre ad avere la minorazione visiva, hanno anche un disturbo pervasivo dello sviluppo. Infatti, so per esperienza personale quanto il canale visivo venga utilizzato dai nuovi approcci di insegnamento comportamentale nei bambini autistici. Vengono utilizzate foto (PECS [Picture Exchange Communication System, N.d.R.]) per fare delle agende visive e rendere prevedibile la scansione del tempo; oppure sequenze di foto, per scomporre le diverse azioni per andare in bagno, lavarsi le mani, apparecchiare. E quando io, professionista non ho la possibilità di usare il canale visivo?».

Maria Luisa Gargiulo, in una lezione del corso

Una lezione del corso, con la docente Maria Luisa Gargiulo

«Questo corso – prosegue Alessandra – non è il primo dedicato ai disturbi pervasivi dello sviluppo a cui io abbia partecipato, proprio perché, come mamma, ho sempre cercato di capire come poter aiutare mia figlia. Ma ogni volta che i corsi terminavano, avevo le idee ancora più confuse. A conclusione di questa esperienza, invece, posso dire di avere acquisito delle conoscenze che mi permetteranno non solo in àmbito professionale, ma anche familiare, di poter affrontare con idee chiare un programma di intervento comportamentale».
E conclude: «Pur essendo stato un percorso molto impegnativa, dal punto di vista dei contenuti, l’aspetto più particolare è stato il fatto che ognuno di noi ha avuto la possibilità di esprimere le proprie esperienze, i propri dubbi rispetto a casi che già alcuni seguivano, avendo poi il supporto della docente ma anche di tutto il gruppo. Alcuni colleghi hanno veramente lavorato mettendo a disposizione di tutti le loro ricerche».

In conclusione, come accennato, ci è sembrato doveroso passare la parola alla docente, Maria Luisa Gargiulo, della quale presentiamo la seguente intervista.
Com’è andato il corso, dal suo punto di vista?
«Seguendo questi professionisti per i cinque mesi del corso, ho potuto toccare direttamente le difficoltà specifiche della loro condizione umana e professionale. A volte essi si trovano a sperimentare solitudine e smarrimento. Infatti, sebbene apparentemente la scuola offra una certa varietà di persone attorno allo stesso bambino, paradossalmente ciò non si traduce in maggiori supporti e cooperazione per gli operatori. In particolare, chi lavora con bambini con deficit visivo, è spesso oggetto di aspettative “salvifiche” o di preconcetti da parte delle altre figure non specializzate nel settore tiflologico. Però la mancanza di informazioni specifiche sull’eventuale presenza di altri disturbi e di metodi specifici cui attingere, ostacola gli operatori nell’adeguare esattamente il loro lavoro alle reali necessità educative del bambino.
In sostanza, alcuni bambini che nascono con un deficit visivo possono presentare caratteristiche di  funzionamento compatibili con un disturbo pervasivo dello sviluppo. Ciò, se in molti Paesi del mondo è oramai un dato acquisito, in Italia è un aspetto poco considerato nella formazione degli operatori. Questi ultimi, dunque, mancano spesso della formazione relativa alla doppia diagnosi, rischiando così di effettuare interventi inadeguati e aspecifici, faticosi e frustranti.
Ovviamente la compresenza di due condizioni così particolari, la cecità e un disturbo pervasivo, impone la necessità di modificare le metodologie utilizzate nelle moderne linee guida, in considerazione delle particolarità di funzionamento dei bambini ipovedenti e non vedenti. Questo è stato il principale valore aggiunto dell’esperienza formativa appena conclusa.
Un altro valore – per niente secondario – che ha reso molto significativa la mia esperienza di docente, è stato l’aspetto interpersonale. In tal senso, abbiamo coltivato tutti quanti – durante il corso – la creazione di un clima il più possibile cooperativo. Sono tante le persone che con reciproca generosità hanno cercato di relazionarsi con i colleghi di corso, instaurando o consolidando rapporti di colleganza che perdurano ancora oggi. Anch’io continuo a seguire e ad essere in contatto con molti di loro, perché, quando si segue un metodo strutturato, la programmazione e la verifica costante sono la necessità del lavoro e non l’eccezione».

Quali sono i principali aspetti critici del contesto attuale in questo campo?
«Il modello organizzativo cui si riconduce l’attuale situazione dell’inclusione scolastica, qualche volta privilegia la quantità alla qualità nell’intervento educativo. Da una parte, infatti, assistiamo alla  tendenza a negare alcuni diritti acquisiti, che regolarmente vengono poi confermati da varie sentenze giudiziarie, tutte le volte che le Amministrazioni Scolastiche debbono sopperire forzatamente alla mancanza o alla penuria di assistenti e insegnanti, a seguito delle estenuanti denunce delle famiglie. Ma, a volte, il dispiegamento di risorse umane ed economiche attorno a questi bambini, non è accompagnato da una specificità e appropriatezza degli interventi. In altre parole, succede che talora tante figure determinino interventi caotici e frammentari. Inoltre, la sempre maggiore precarietà organizzativa e lavorativa induce anche il fatto che questi bambini siano sottoposti a frequenti cambiamenti di persone. Pertanto, gli educatori, non avendo chiara la prospettiva di lavorare a lungo termine con un certo bambino, sono anche poco motivati a specializzarsi nel campo più adatto alla situazione.
Da ultimo – ma forse primo degli elementi critici – è il percorso formativo di riferimento. Troppo spesso gli insegnanti e gli educatori sono formati su generiche piattaforme precostituite, che frequentemente derivano dalla riproposizione di vecchi luoghi comuni, qualche volta desueti, che rispecchiano bambini che oramai non ci sono quasi più!».

Su quali aspetti, quindi, si dovrebbe soprattutto investire?
«Un primo cambiamento dovrebbe portare a criteri specifici per assegnare le varie risorse umane nel lavorare con un certo bambino, utilizzando metodi che privilegino l’attinenza della formazione dell’operatore. In secondo luogo, dovrebbero essere incentivati alla qualità gli operatori che utilizzano metodologie strutturate. In questo momento, coloro che hanno bisogno di dedicare molto tempo al lavoro di presa dati, programmazione, verifica, supervisione ecc., sono i più penalizzati, in quanto questa parte del lavoro non è quasi mai considerata. Inoltre, un importante tassello di qualità è costituito dal lavoro parallelo con gli operatori domiciliari, che spesso dipendono da altre amministrazioni o devono sottostare ad altre regole.
Sappiamo che è necessario lavorare in modo strettamente coordinato. Spesso, invece, i pochi incontri designati dalle riunioni formali – come il GLHO (Gruppo di Lavoro Handicap Operativo), non sono sufficienti per passare dalla teoria alla pratica». (Redazione di Superando.it)

Maria Luisa Gargiulo, docente del corso di cui si parla nel presente servizio, è psicologa e psicoterapeuta, esperta nelle problematiche psicologiche, riabilitative ed evolutive delle persone con disabilità.
Consulente sul deficit visivo dal 1994 e psicoterapeuta dal 1997, ha scritto numerosi articoli e libri. Lavora inoltre come psicoterapeuta e consulente di private famiglie e pubbliche istituzioni ed è docente di corsi e seminari di formazione per operatori, insegnanti e riabilitatori.
Il suo sito è www.marialuisagargiulo.it.

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