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Le tante domande di Sandro, alle persone e alle istituzioni

Ombra di uomo in carrozzina su sfondo arancioneSandro, affetto da una grave malattia neuromuscolare (malattia di Friedreich) è morto il 10 ottobre 2008, a pochi giorni dal compimento dei 41 anni. Figlio unico di madre vedova (da ventisei anni), senza supporto parentale, residente in campagna in un piccolo paese della Provincia di Ancona, all’età di circa vent’anni perde quasi tutte le autonomie e per circa quindici comunica con una tabella. Negli ultimi tre-quattro anni, le sue possibilità di comunicazione si riducono ulteriormente e solo facendo molta attenzione, si riesce a comunicare attraverso l’apertura e la chiusura degli occhi.
Questo testo era stato iniziato quando Sandro era ancora in vita, ma già in una situazione fortemente compromessa, ed è nato con l’obiettivo di analizzare quali conseguenze la sua condizione abbia determinato nel sistema dei servizi territoriali, quali cambiamenti abbia apportato, quali resistenze abbia incontrato. Per questo motivo non si ritiene importante riportare con dettaglio cronologico tutti i passaggi – ricostruibili per altro senza difficoltà – così come non appartiene a questo scritto una riflessione su quello che la vicinanza con Sandro ha prodotto nelle persone a lui più prossime. Chi scrive – insieme a un gruppo di amici – in seguito alla scomparsa del padre, all’aggravarsi delle sue condizioni e alle sempre più grandi difficoltà della madre di gestire una situazione assolutamente difficile, se ne è progressivamente fatto carico: dapprima con una formale delega da parte della madre, successivamente attraverso l’assunzione della funzione di amministratore di sostegno.
Sandro è riuscito a superare le resistenze frapposte nella fruizione dei vari interventi (che successivamente verranno descritti), solo perché la sua causa è stata sostenuta, in particolare, in modo diretto da chi scrive. Di questo occorre tener conto in ogni passaggio della storia. Sicuramente, se non ci fosse stata questa assunzione, Sandro sarebbe rimasto a casa, qualsiasi fosse stata l’assistenza ricevuta, fino a un episodio che l’avrebbe portato in ospedale, da dove non sarebbe più uscito (1).

I servizi a casa
Sandro ha sempre abitato in campagna in un’abitazione con molte barriere architettoniche: alcune negli anni sono state abbattute, ma la casa, soprattutto all’interno, ha mantenuto una struttura assolutamente inadatta per una persona che richiede degli ampi spazi (sia che si trovi in carrozzina che a letto).
Sino alla fine del 2004 ha fruito di un servizio di assistenza domiciliare erogato dal Comune, all’interno di una gestione associata intercomunale, pari a diciotto ore settimanali (sei mattine e due pomeriggi). Determinante per il suo mantenimento a casa è stata la presenza costante e strutturata di un gran numero di amici, che sono intervenuti in tutte le situazioni di difficoltà e necessità.
Da segnalare che da sempre Sandro ha avuto problemi di insonnia e molto frequenti sono state le alzate notturne della madre o degli amici che dormivano con lui, quando si rendesse necessario far rifiatare la madre.
A partire dai primi anni del 2000 la situazione è diventata sempre più critica – tanto che da allora il servizio è stato erogato sui dodici mesi e sospeso solo nelle feste – sia per la difficoltà di gestione dell’assistenza, sia per i grandi problemi della madre a reggere l’assistenza notturna. Assistenza notturna per altro complicata – per chi non ha conosciuto Sandro – a causa delle sempre maggiori difficoltà di comunicazione. La pressante richiesta di un aiuto notturno ha incontrato un’insuperabile resistenza da parte della madre. Intanto, si sono aggiunti importanti problemi di deglutizione (2003) che hanno reso sempre più difficile l’assunzione dei cibi e soprattutto dei liquidi. A ciò si sono associate febbri ricorrenti, dovute per la gran parte dei casi all’ingresso nel sistema respiratorio di cibo, a causa delle aumentate difficoltà di deglutizione (disfagia).
Una situazione, quindi, che ha reso sempre più difficile anche l’uscita da casa, a motivo della paura di malattia (freddo, febbre). Una situazione assolutamente non più sostenibile a casa: né per Sandro, né per la madre, né per gli amici, impotenti di fronte a un quadro che ha via via assunto i tratti della tragicità. Ad aggravare la situazione, poi, l’impossibilità di vedere alternative praticabili. Oltre infatti alla resistenza della madre per qualsiasi ipotesi di ricorso alla residenzialità, il dato di fatto è stato che nel territorio – dove ASL e Ambito Territoriale Sociale coincidevano – non fossero presenti comunità per persone disabili.
In un quadro così angoscioso, si sono aggiunti i problemi nella gestione dell’assistenza formale (2): cambio di operatori, sostituzioni, difficoltà degli stessi, con conflitti lunghi e aspri che hanno richiesta tutela e mediazione allo stesso tempo. Còmpiti, questi ultimi,  assunti dagli amici e in particolare da chi scrive.

Mano di assistente di cura sopra a mano di disabile allettatoIl passaggio a un servizio diurno
A fronte dell’insostenibilità della situazione complessiva descritta, l’avvenuta apertura di una comunità (3) a pochi chilometri di distanza dall’abitazione ha determinato l’opportunità di poter contare su una risorsa importante. L’ipotesi dell’inserimento residenziale è stata però scartata dalla madre, pur avendo prodotto una domanda in tal senso (luglio 2004) e Sandro – che in passato aveva più volte espresso questo desiderio – in quel momento è apparso del tutto incerto. Va anche tenuto conto che l’aggravarsi delle sue condizioni, in particolare comunicative, ha determinato una sempre maggior richiesta di presenza della madre.
Intanto abbiamo ipotizzato la possibilità di frequenza diurna presso detta comunità, per più ragioni: per avviare un graduale percorso di avvicinamento alla comunità stessa, in vista di un auspicabile successivo passaggio residenziale; per fare apprezzare alla madre lo sgravio diurno, farle conoscere la comunità, acquisire fiducia e contemporaneamente poter contare sul rientro a casa la sera; per far conoscere Sandro agli operatori della comunità – attraverso l’operatore domiciliare – che avrebbe accompagnato questo passaggio.
I problemi da superare sono stati diversi. Con la madre l’accettazione di un’uscita quotidiana anche con il freddo e l’accettazione di non essere presente all’ora dei pasti. Con Sandro soprattutto l’accettazione di un’alzata mattutina anticipata di qualche ora, tenuto conto dell’insonnia notturna che determina molto spesso un prolungato sonno al mattino. Ci sono stati poi i problemi con gli enti. La comunità non prevedeva un diurno e la retta era a compartecipazione (ASL, Comune, Regione), mentre fino a quel momento il servizio domiciliare di Sandro era stato a carico esclusivo del Comune.
Dopo innumerevoli passaggi e altrettante resistenze, Sandro ha iniziato quindi la frequenza in comunità nel dicembre del 2004, dal lunedì al venerdì, mantenendo, il sabato mattina, l’assistenza domiciliare a casa. E tuttavia, è apparsa subito evidente la precarietà di una prolungata frequenza diurna per i problemi che spesso si creavano al mattino, soprattutto nel periodo invernale, per le resistenza della madre per il freddo, per la stessa resistenza di Sandro. A ciò si è aggiunta la particolare strutturazione dell’assistenza: l’operatore che seguiva Sandro al domicilio, infatti, pur essendo incardinato al servizio domiciliare, si recava a casa in mattinata per l’igiene e la vestizione, rimanendo con lui per tutto il tempo in comunità e risultando pertanto come un’unità in più. Una modalità, questa, che ha determinato diversi problemi: se infatti Sandro andava in comunità, era coperto per tutte le ore (fino alle 17); se rimaneva invece a casa, egli fruiva delle sole ore che precedentemente gli erano state riconosciute al domicilio (2.30); rimanendo a casa, quindi, l’operatore perdeva le ore che avrebbe effettuato in comunità. A ciò si aggiungeva oramai l’impossibilità evidente da parte della madre di far fronte all’assistenza notturna.
Già nel mese di maggio del 2005, il Coordinatore Tecnico del servizio associato ha chiesto formalmente ai servizi territoriale dell’ASL e alla comunità di predisporre un progetto di inserimento residenziale. Nel mese di giugno di quell’anno, quindi, in seguito a una malattia della madre e alla sua impossibilità di prestare qualsiasi assistenza a Sandro, gli amici si sono fatti carico della situazione, sollecitando il ricovero urgente nella struttura residenziale.

In comunità
Nel settembre del 2005 è stato avviato l’inserimento residenziale. La comunità – data la gravità della situazione e l’impegno assistenziale – ha posto come condizione per l’accoglienza un’assistenza aggiuntiva di dieci ore al giorno, per sessanta ore settimanali (dal lunedì al sabato mattina), con il rientro a casa previsto per il sabato pomeriggio e il ritorno in comunità il lunedì mattina.
La retta – secondo la regolamentazione regionale – avrebbe dovuto gravare al 50% sulla Regione e il restante 50% per metà (ciascuna) a carico di ASL e Comune. Quest’ultimo avrebbe assunto il costo del trasporto. Dal canto suo, la famiglia avrebbe dovuto corrispondere l’indennità di accompagnamento. I problemi, però, si sono presentati a più livelli: a) la resistenza della comunità a un’accoglienza ritenuta incompatibile con la tipologia di servizio; b) l’aggravio dei costi sugli enti, soprattutto sull’ASL, pur tenendo conto del contributo regionale corrispondente al 50% del costo della retta; c) le “nostre” preoccupazioni per la situazione complessiva che ci impegnava su più fronti (Sandro; madre; comunità; servizi territoriali; problemi amministrativi).
Era evidente che Sandro rappresentava “un problema” per i servizi e noi, che facevamo conoscere quel problema, eravamo allo stesso modo causa dei problemi altrui. Questo ci è apparso chiaro e sentire Sandro rifiutato – facendo modo allo stesso tempo che la madre percepisse tutto ciò il meno possibile – è stato motivo di grande sofferenza sino alla fine. Sofferenza e impotenza insieme.
Sandro è rimasto in comunità dal settembre del 2005 al gennaio del 2008, una permanenza segnata da grandi difficoltà di gestione, aggravata dai progressivi problemi clinici e dalla sempre maggiore difficoltà di comunicazione. Più si faticava a intercettare la sua richiesta, più aumentavano le difficoltà di gestione, perché spesso il suo disagio si traduceva in lamenti o urla (4).

In ospedale
Il 10 gennaio 2008 Sandro è entrato in ospedale (5), dopo diversi giorni di progressivo rifiuto del cibo, ritenzione urinaria e febbre. Il 12 gennaio successivo si è avuto uno scompenso cardiaco e da subito è sembrato che non vi fossero possibilità di sopravvivenza. Incredibilmente, però – e mai termine viene usato con tanta appropriatezza – Sandro ha superato la crisi, seppure in condizioni molto critiche. Rifiutava sempre più di alimentarsi e per questo si è deciso di ricorrere alla alimentazione artificiale (PEG). Il decorso ha proceduto in una situazione di instabilità clinica, con alterazioni del ritmo cardiaco, catarro, febbre, diarrea, desaturazioni ecc. che scandivano le giornate. Dovevamo affrontare la condizione di Sandro e la gestione dell’assistenza.
Reparto di ospedale, con medico, infermiere e un paziente a lettoEssendo egli formalmente in carico alla comunità – che durante il ricovero percepiva la retta intera ed era quindi chiamata a farsi carico dell’assistenza -, la comunità stessa – potendo disporre di sessanta ore settimanali di assistenza aggiuntiva – in ospedale ne garantiva settanta su sette giorni. Le altre venivano coperte dagli amici e dalla madre. Si è deciso inoltre di affidare due notti alla settimana a un’assistenza privata.
Preso atto, comunque, che non ci sarebbero più state le condizioni per un rientro in comunità, abbiamo chiesto di poter recuperare l’indennità di accompagnamento, così da coprire parte del costo dell’assistenza notturna e abbiamo dato la disponibilità alla dimissione dalla struttura, a patto che fossero mantenute le settanta ore di assistenza settimanali (6).
Sandro, per tutto il periodo di ricovero in ospedale, è rimasto formalmente in carico alla comunità, con una spesa sostanzialmente doppia rispetto all’assistenza fornita. Intanto le sue condizioni sono migliorate e dopo il superamento della fase di criticità, attendendo di definire cosa fare successivamente (fine febbraio), si è deciso un passaggio in un reparto di lungodegenza post acuzie, sempre nel territorio dell’ASL.
Una volta arrivato il momento di decidere cosa fare, è stato necessario valutare una serie di elementi: in comunità non c’erano le condizioni per rientrare e per rimanere nel territorio c’erano due sole possibilità: a) ritornare a casa, la sua o un’altra; b) pensare a un ricovero in una struttura per anziani, a condizione che rimanesse un’assistenza aggiuntiva durante il giorno e con il problema delle notti. Dopo un tormentato confronto interno, abbiamo deciso di percorrere l’ipotesi della sua casa.
Sandro, intanto, si stava riprendendo ottimamente, tanto che iniziava a stare qualche ora al giorno in carrozzina, ripetendo quasi ossessivamente che voleva tornare a casa. Per percorrere questa strada necessitavano però alcune condizioni: a) ristrutturazione di una parte della casa; b) garanzia del mantenimento delle settanta ore settimanali di assistenza; c) adeguato supporto da parte del servizio di cure domiciliari.
Dopo avere convinto la madre, abbiamo incontrato le prevedibili resistenze (si veda la nota 5) da parte dei servizi territoriali.
Il Comune ha dichiarato l’impossibilità di potere assumere il pagamento di settanta ore a settimana; l’ASL ha ritenuto di non dover contribuire, essendo il servizio di aiuto alla persona di competenza comunale. E così, la tanto auspicata domiciliarità stava trovando insormontabili difficoltà realizzative e a ben poco sembrava valere la dimostrazione che in questo caso – visto che di soli costi si parlava – la spesa complessiva si sarebbe ridotta di circa il 40% rispetto a quello dell’inserimento in comunità e che la stessa ASL avrebbe ottenuto un cospicuo risparmio rispetto alla quota precedentemente assunta. Tutto questo senza far riferimento alla qualità di vita di Sandro

Il rientro a casa
Alla fine, nonostante tutto, il 3 luglio 2008 si è riusciti finalmente a rientrare a casa, con un piano terra ristrutturato e assolutamente confortevole e con settanta ore di assistenza (aiuto alla persona) su sette giorni, pagate al 50% tra Comune e ASL di residenza. La copertura dell’assistenza è stata completata da un’assistente familiare che ha iniziato la collaborazione in ospedale, coprendo poi sei notti e tutte le ore scoperte dall’assistenza formale, dalla madre e dagli amici, che avrebbero continuato a garantire la turnazione domenicale e la regìa organizzativa.
È chiaro che si è trattato di una gestione complessa, nella quale hanno interagito molte persone, una complessità resa ancora più difficoltosa nelle fasi di riacutizzazione dei problemi (infezioni urinarie, catarro, febbre, rigurgiti del cibo, desaturazioni). E di fronte al persistere di queste problematiche, una presa in carico medica e soprattutto infermieristica fa la differenza.

Simone Weil

Secondo Simone Weil, «quando una contraddizione è un vicolo cieco che è assolutamente impossibile aggirare, se non con una menzogna, allora sappiamo che in realtà è una porta»

Nel mese di agosto, la difficoltà a far rientrare alcuni problemi clinici ci ha fatto sperimentare l’insufficienza del servizio di assistenza domiciliare integrata (ADI). La modalità di lavoro in senso esclusivamente prestazionale ci ha messo di fronte all’assoluta necessità di poter fruire di un effettivo servizio di cure domiciliari (7). Altre erano le esigenze di Sandro, altre sono le esigenze di malati come lui, che richiedono un’effettiva presa in carico, se si vogliono creare le condizioni per una dignitosa permanenza a domicilio. Abbiamo pertanto verificato la possibilità di una presa in carico da parte del servizio di cure domiciliari dell’Istituto Oncologico Marchigiano (IOM), presente nell’ASL, che offre una copertura su ventiquattr’ore (turni più reperibilità). Il problema era che quel servizio si rivolgeva esclusivamente ai malati oncologici, ma abbiamo superato anche questa difficoltà, attraverso l’autorizzazione all’inserimento da parte dell’ASL.
Si è passati quindi dalla prestazione alla presa in carico, ciò che ha coinciso con gli ultimi giorni di Sandro, morto a casa, a seguito di un nuovo scompenso, il 10 ottobre, a dieci mesi esatti dalla prima crisi e dall’ingresso in ospedale (8).

Riflessioni conclusive
Sandro è stato un grande segno di contraddizione. Per essere più chiari, è stato “un grande problema”. Un problema che ci si è posto davanti e che non era possibile spostare, mettere da parte. Un enorme problema, perché le sue necessità sono state sempre più avanti delle nostre risposte. Sandro ha posto, senza poterlo dire, grandi temi e grandi problemi alle persone e alle istituzioni.
A livello individuale, ci ha messo ogni giorno in maniera crudele davanti ai nostri limiti, alle nostre supponenze, ai nostri orgogli, alle nostre arroganze, alla nostra stupida illusione di avere la risposta e di averla già pronta. E come molti di noi avranno sperimentato, quando un problema è molto più avanti delle nostre capacità e possibilità, la grande tentazione è quella di non fare entrare tutto questo dentro noi stessi, ma quella di non voler vedere, di classificare, di standardizzare, di ridurre o amplificare. Ma tutte le volte che lo abbiamo fatto ci è stato chiaro che non funzionava.
Sandro non ci ha lasciato in pace. Lo ha fatto in maniera implacabile, tanto da apparirci crudele, perché quello che ci chiedeva ci appariva sempre troppo, impossibile da corrispondere. È stato capace – ogni volta che ci sforzavamo di trovare la risposta – di un’ulteriore scomodissima domanda. Domande senza parole, ma non per questo meno potenti. Domande ancora più forti le ha fatte negli ultimi anni, fino agli ultimi giorni. Domande che chiedevano grandi assunzioni di responsabilità.
Una contraddizione, dicevo, che, se accolta, poneva le condizioni per farci crescere e migliorare. Per renderci più umani. Sento che così bene ci vengono in soccorso le parole di Simone Weil che ci ricorda: «Quando una contraddizione è un vicolo cieco che è assolutamente impossibile aggirare, se non con una menzogna, allora sappiamo che in realtà è una porta. Bisogna fermarsi e bussare, bussare, bussare instancabilmente, in uno spirito di attesa insistente e umile perché l’umiltà è la virtù più essenziale nella ricerca della verità».
Ma Sandro ha posto grandi domande e grandi richieste anche alle Istituzioni e ai servizi che le stesse organizzano; si è posto di traverso e ha posto domande inaggirabili. Ha chiesto anche a loro di crescere e di diventare migliori. Non potevano essere sufficienti standardizzazioni, protocolli, procedure, certificazioni. Crescite faticose, enormemente faticose, che per essere tali devono superare grandi resistenze.
Sandro è stato lì fermo, come l’uomo lungo la strada di Gerico, e ha chiesto agli individui che passavano di diventare samaritani («Lo vide, ebbe compassione, gli si fece vicino, ne ebbe cura, quella stessa cura la chiese all’albergatore»). Oggi la richiesta sarebbe rivolta ai nostri servizi di cura.
Sandro è stato importante perché – come i tanti altri nelle sue stesse condizioni – con la sua vita ha posto domande cruciali, ha posto le condizioni per far crescere individui e società perché per le tante persone che soffrono a causa di crudeli malattie sia meno difficile vivere. La sua è stata una formidabile richiesta di cambiamento e conversione.
Per gran parte della sua vita, Sandro ci ha chiesto di non essere trattato solo come un corpo da accudire o curare; ci avvertiva in modo acuto, che così facendo non potevamo comprendere il tutto. Lo ha chiesto fino alla fine a tutti coloro che si occupavano della sua cura; alle persone ma anche alle organizzazioni.
Anche tutto questo ci ha dato Sandro; che possa averci dato, che lui potesse dare, ci rimane difficile da concepire, tanto abituati a pensarci noi come donatori e lui come ricevente. Consapevoli come dobbiamo essere che Sandro non ha dato perché ha sofferto; ma in questo grande e difficilmente accettabile mistero della sofferenza lui ha dato molto. Questo è il grazie che gli dobbiamo.
A questo aggiungo il grazie a tutte le persone che hanno lavorato con Lui. Inutile elencarle. I cuori tutto conoscono. Un grazie anche a tutti i professionisti, medici e infermieri, con i quali ci siamo incontrati negli ultimi giorni della vita di Sandro. Professionisti che hanno capito – e forse in questo sono stati aiutati proprio da Sandro – che non si può curare senza aver cura.

Gruppo Solidarietà. Il presente testo è apparso nel periodico «Appunti», n. 181 (marzo-aprile 2009), con il titolo “Cosa Sandro può aver insegnato ai servizi” e viene qui ripreso, con alcuni riadattamenti al diverso contenitore e al differente momento di pubblicazione, per gentile concessione.

Note:
(1)
«Alla realizzazione di questo testo – segnala l’Autore – hanno collaborato Alfredo, Antonella, Arnaldo, Cinzia, Gloria, Peppe, Riccardo, Roberto e Sibilla».
(2) Da qui in poi, quando verranno trattati i problemi con e dei servizi, si cercherà di essere il più possibile oggettivi e descrittivi. Non è intenzione del presente articolo analizzare gli specifici servizi. Tutti i protagonisti delle vicende che hanno riguardato Sandro conoscono nel dettaglio le opinioni e le valutazioni in merito. Per altro è ampia la documentazione cartacea in possesso degli enti coinvolti.
(3) Si tratta di una Comunità Socio Educativa Riabilitativa (CoSER).
(4) L’articolo tiene fede al suo obiettivo dichiarato. Qui si vuole solo accennare che in situazioni limite come queste, è la conoscenza della persona il discrimine per la sua accoglienza. Conoscere Sandro significava capirlo anche quando ciò sembrava impossibile; porsi in una situazione di ascolto da parte di chi lo conosceva perfettamente – e da lui era così riconosciuto – determinava spesso un’improvvisa tranquillità. Quante volte questo è stato sperimentato! Quante volte questo ci ha interrogato e fatto capire che più spesso il problema era capire e a nulla portava la scorciatoia – carica di sofferenze – del ricorso all’intervento sanitario per risolvere il problema. Su tale aspetto rimando a La cura della vita nella disabilita e nella malattia cronica, pubblicazione del 2008 del Gruppo Solidarietà.
(5) Il ricovero in ospedale ha determinato, ogni volta, una grande difficoltà di gestione. Ospedale impreparato ad accogliere questo tipo di malati, necessità di copertura dell’assistenza sulle ventiquattr’ore in assenza, sostanzialmente, di supporto familiare.
(6) Con la dimissione, l’ASL e il Comune non avrebbero più pagato la retta base che continuava ad essere percepita dalla comunità (circa 150 euro), ma avrebbero indirizzato i fondi sul servizio di aiuto alla persona. Sandro sarebbe ritornato in carico ai servizi territoriali, con il trasferimento delle settanta ore settimanali dall’ospedale al domicilio. Dunque un risparmio nei costi di assistenza. Formalmente non è stata data alcuna risposta, ma è chiaro che cambiando il “regime” (dal residenziale al domiciliare), cambiavano i finanziatori. Il servizio di aiuto alla persona nel nostro territorio è completamente a carico dei Comuni, il ricovero in comunità è a compartecipazione tra gli enti (Regione, ASL, Comune). Il risparmio complessivo si traduceva però in una variazione degli importi tra gli enti e dunque la nostra richiesta non ebbe esito.
(7) In realtà, oltre al servizio formale, avevamo attivato anche un servizio informale che però non era in grado di rispondere in modo adeguato alle necessità dell’ultimo periodo.
(8) Forse la riflessione avrebbe potuto approfondire ulteriormente aspetti che riguardano il funzionamento dei servizi. Come sono e come, anche a seguito di questa esperienza, dovrebbero essere.

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