Riconoscere la sessualità vuol dire integrare

«Sessualità – scrive Tania Sabatino – come uno dei tanti àmbiti in cui esprimere la propria personalità e attraverso il quale conoscere se stessi, affermando il proprio diritto di scegliere chi si vuole essere e che vita si vuole vivere. Un fatto che per molte persone con disabilità è ancora tutt’altro che scontato». E tra le possibili soluzioni concrete, si parla dell’assistenza sessuale, già presente da alcuni anni in altri Paesi

Oriella Orazi, "Nell'amore n. 1" (particolare)

Oriella Orazi, “Nell’amore n. 1” (particolare)

Il corpo di una persona con disabilità, nella stragrande maggioranza dei casi, stenta ad essere guardato come un corpo che può essere affascinante o sexy. Molto più spesso, ad un primo sguardo, appaiono evidenti disarmonia, proporzioni fuori dai canoni e il mancato possesso delle cosiddette caratteristiche di “desiderabilità sociale”.
In realtà dovrebbe passare il messaggio che la femminilità e la possibilità di essere sensuali esistono anche se si ha una disabilità. Che la disabilità non è un negativo assoluto, che oscura tutto il resto, ma una dimensione che fa parte di un tutto più ampio. Sensualità, dunque, ma anche sessualità. Una dimensione complessa, che non si riduce alla mera stimolazione della sfera sessuale.

Di questo aspetto fondamentale dell’esistenza – che è necessario rientri nelle tappe di un concreto processo di integrazione e di vita indipendente – si è parlato ad esempio, recentemente, anche alla conferenza internazionale Per una disabilità sostenibile, svoltasi a Napoli il 5 e 6 giugno, presso l’Università Federico II, a cura del Dipartimento di Sociologia [se ne legga anche nel nostro giornale, N.d.R.].
Sessualità come uno dei tanti àmbiti in cui esprimere la propria personalità e attraverso il quale conoscere se stessi, affermando il proprio diritto di scegliere chi si vuole essere e che vita si vuole vivere (principio di autodeterminazione). Sembrerebbe un diritto scontato, perché appartenente ad ogni essere umano in quanto tale, ma in realtà non è così per molte persone con disabilità, per le quali la sessualità rappresenta una dimensione spesso negata o occultata, guardata con preoccupazione, timore o vero e proprio allarme, e alle quali viene preclusa – a priori – la possibilità di conoscere se stessi, una conoscenza che passa anche dal fare esperienza del proprio corpo, scoprendo cosa ad esso dia piacere o meno.
Infatti, a molte persone con grave o gravissima disabilità, non è preclusa solo la possibilità di proiettarsi in una dimensione di coppia, ma addirittura di potere esplorare se stessi attraverso l’autoerotismo, visto che il deficit organico può inibire fortemente l’uso delle mani. Ecco perché alcune madri – ed esistono testimonianze precise in merito -, rendendosi conto del profondo stato di malessere fisico e psicologico in cui versano i figli, provvedono esse stesse a masturbarli, permettendo loro di dare sfogo a naturali pulsioni fisiologiche.

Partendo da queste consapevolezze, esistono quindi due possibilità: o si mette la testa sotto la sabbia e si lasciano le persone con disabilità e le loro famiglie al loro isolamento e alla loro disperazione oppure si fanno proposte concrete, orientate al cambiamento e alla risoluzione del problema.
Ecco perché, ad esempio, Maximiliano Ulivieri ha ideato, assieme a Maurizio Nada, il Progetto LoveGiver, di cui è testimonial Debora De Angelis, modella di nudo erotico, blogger e tra le protagoniste della trasmissione televisiva La Mala EducaXXXion su La 7d.  Obiettivo: il riconoscimento della figura professionale dell’assistente sessuale – già esistente da alcuni anni in altri Paesi – o, per meglio dire, del lovegiver, questione sulla quale è stata anche lanciata un’iniziativa di legge popolare, per adesso a livello regionale, in Emilia Romagna.
«Il sesso – spiega la stessa De Angelis – è energia che se conosciuta e ben diretta, aiutata consapevolmente a esprimersi, può determinare un enorme benessere e beneficio psicofisico all’essere umano Invece, il sesso soggetto a repressione può danneggiare il sistema nervoso e produrre stress, quando non addirittura ossessività».
I soliti benpensanti si sono affrettati subito a gridare a un oltraggio alla moralità e ad assimilare questa figura a quella di una prostituta (o di un prostituto). «Ma l’approccio del Progetto LoveGiver – chiarisce ancora De Angelis – punta fondamentalmente sull’importanza dell’empatia, sulla comunicazione e sulla formazione di assistenti di ambo i sessi e di ogni orientamento sessuale, che siano completamente a posto con la gestione della propria sessualità. Un approccio molto distante dall’atto penetrativo/aggressivo o dallo sfogo clandestino di una perversione».

Empatia, una formazione mirata che coniuga competenze psicologiche, comunicative e paramediche, un percorso che permette allo stesso potenziale assistente sessuale di elaborare i propri nodi insoluti e l’elaborazione di quello che potremmo definire un “piano terapeutico individualizzato”. Tutti questi elementi marcano la distanza fondamentale tra assistenza sessuale e prostituzione. Inoltre, nella proposta di assistenza sessuale in Italia, non è prevista la penetrazione completa né l’uso della bocca a scopo masturbatorio (e quindi lo scambio di liquidi organici).

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