La tecnica del “poliziotto cattivo” e di quello “buono”

Quel metodo – presente in tanti telefilm – sembra essere stato perfettamente assimilato, secondo Chiara Bonanno, dal mondo della politica italiana, specie nei confronti delle categorie di cittadini maggiormente “esposte”. «Ma la verità – scrive – è solo questoìa: che le famiglie italiane si trovano a coprire quasi 7.000 ore annue di assistenza permanente, continuativa e globale»

Interrogatorio di due poliziotti

«Il mondo della politica – scrive Chiara Bonanno – sembra avere perfettamente appreso la tecnica del “poliziotto cattivo” e di quello “buono”, in uso in tanti telefilm, soprattutto nei confronti dei cittadini più “esposti”»

Nei telefilm polizieschi si assiste spesso all’uso, da parte dei tutori dell’ordine, di una potente tecnica per indurre anche il sospettato più reticente a collaborare, quella cosiddetta del “poliziotto cattivo” e del “poliziotto buono”. Questo metodo  è stato immediatamente adottato dagli esperti di persuasione e di vendita, per indurre il cliente ostile ad acquistare un prodotto non gradito.
È ovvio che anche il mondo politico non poteva rinunciare a un tale strumento di manipolazione dell’opinione pubblica e infatti sono anni che questo sistema viene utilizzato per fare accettare alla cittadinanza tutti quei provvedimenti che normalmente scatenerebbero proteste oceaniche.
Di volta in volta, quindi, si prende una categoria di cittadini “esposta”, che per mantenere un livello dignitoso di esistenza ha necessità di un servizio, e si cominciano a propagandare le opinioni di vari “politici-poliziotti cattivi” sull’impossibilità da parte dello Stato di poter garantire ancora il medesimo servizio ( pensioni, cassa integrazione, sanità gratuita, istruzione, assistenza domiciliare alle persone disabili ecc. ecc.).
Purtroppo la pantomima funziona egregiamente perché in Italia, a differenza che in altre nazioni, il cittadino più fragile si “sente” ancora un suddito, senza rendersi conto che il “politico-poliziotto cattivo” di turno sta parlando di servizi erogati con denaro pubblico, cioè con quei soldi prelevati a tutti i cittadini attraverso la fiscalità e che dovrebbero servire proprio a finanziare quei servizi che minacciano di tagliare.
Quando poi la popolazione è stata per un po’ sulla graticola, ecco arrivare il “politico-poliziotto buono” che spesso – atteggiandosi a buon padre o madre di famiglia – convince che è per il nostro bene che son costretti a sforbiciare impunemente la popolazione degli aventi diritto, forzandone l’ennesima e insindacabile misurazione sempre più ristretta e sempre più vessatoria.
Ed ecco che improvvisamente una numerosa quantità di cittadini, senza avere mutato in nulla la propria condizione, non rientra più tra gli aventi diritto e si ritrova a dover pagare ulteriormente per garantirsi quel servizio che aveva già ampiamente pagato attraverso il prelievo fiscale.

Ed è ciò che succederà probabilmente anche questa estate – sotto gli ombrelloni le manifestazioni passano inosservate – preceduto dalle consuete dichiarazioni allarmistiche. Verrà infatti approvato in sordina il nuovo ISEE [Indicatore della Situazione Economica equivalente, N.d.R.], che promette di impedire l’accesso gratuito ai servizi alla maggior parte dei cittadini italiani. Infatti, tanto più disastrate saranno le condizioni del cittadino, tanto più puntigliosamente saranno valutati tutti quegli aiuti che egli era riuscito, non senza fatica, a strappare dalle avare maglie della Pubblica Amministrazione.
Sì, avete capito bene: lo Stato ha deciso di valutare come “ricchezza” del richiedente proprio quei servizi posti a supporto dello stesso, non donati da un ignoto benefattore, ma stabiliti niente meno che dalla Costituzione Italiana. Quindi, tanto più una persona dipenderà da un servizio – come una pensione erogata perché inabile al lavoro, un’indennità di accompagnamento per il grave stato di disabilità o un contributo per l’assistenza domiciliare – tanto più questi supporti verranno valutati come indicatori di ricchezza personale!
A questo punto, il “politico-poliziotto buono” svolgerà compuntamente il proprio ruolo, affermando che magnanimamente, per venire incontro ai cittadini più fragili, si prevedono degli ammortizzatori o franchigie che valuteranno la spesa complessiva di una famiglia nella quale sia presente un componente con disabilità grave. E tuttavia, basta dare una rapida occhiata alle franchigie previste, per rendersi conto che o il mondo politico non sa e non si rende conto di cosa significa per una famiglia avere un componente con disabilità, oppure mente sapendo di mentire.

La Legge 104/92 afferma che una persona con disabilità grave ha necessità di un intervento assistenziale «permanente, continuativo e globale». Ma chi fornisce questo intervento assistenziale? Questo intervento assistenziale «permanente, continuativo e globale» non rientra negli obblighi assistenziali previsti dalla famiglia: infatti l’articolo 433 (e successivi) del Codice Civile obbliga i familiari all’erogazione di un «assegno alimentare», che può essere implementato in ragione di un criterio di personalizzazione. Attenzione, l’ «assegno alimentare» non si deve confondere con il mantenimento della persona, ma esso va inteso solo il suo sostentamento alimentare, e nei vari tribunali italiani, questo obbligo familiare si riduce a una somma che non supera i 500 euro mensili. E basta.
Questo è quanto dovuto da un familiare di una persona inabile ai sensi dell’articolo 38 della Costituzione Italiana e con disabilità in condizione di gravità, ai sensi dell’articolo 3, comma 3 della Legge 104/92 che, ricordo ancora, sancisce nero su bianco le necessità assistenziali «permanenti, continuative e globali». E allora come mai le famiglie italiane si trovano a coprire quasi 7.000 ore annue di assistenza permanente, continuativa e globale? E, soprattutto, com’è possibile che a queste famiglie, in credito con lo stato di 7.000 ore annue non pagate. venga richiesta una compartecipazione alla spesa di quei servizi che sono finanziati con il prelievo fiscale e che servono a supportare in minima parte il loro lavoro di cura?
Concludiamo, quindi, allegando un prospetto sulle ore di assistenza che lo Stato affida alle famiglie. Si lascia alla libera immaginazione di tutti l’attribuzione di una copertura economica di tale orario… Credo che a colpo d’occhio sia facile per chiunque comprendere l’enorme importo che la collettività risparmia sul lavoro di cura familiare.

Tabella sulle ore di assistenza dei familiari

Presidente per il Lazio dell’Associazione “Un Passo Avanti“ (Associazione Genitori Bambini Cerebrolesi), coautrice del libro ”Mio figlio ha le ali. Storie di quotidiana disabilità” (Erickson, 2007), curatrice del blog La Cura Invisibile, impegnato nella battaglia giuridica per il riconoscimento del familiare caregiver.

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