All’Arena, libero di comportarmi come gli altri

«In quell’emozionante serata all’Arena di Verona – scrive Simone Fanti – per la rappresentazione della “Traviata” di Verdi, ho vissuto un momento di vera inclusione, libero di comportarmi come gli altri, senza che barriere di qualche sorta ti limitino, turista tra i turisti, molti dei quali persone con disabilità, quasi tutte straniere»

Giugno 2013: rappresentazione della "Traviata" di Verdi all'Arena

Una rappresentazione della “Traviata” di Giuseppe Verdi all’Arena di Verona

Per una sera mi sono sentito “invisibile”, nel senso migliore del termine. Per una serata, infatti, la mia disabilità è scomparsa e sono diventato uno degli ottomila spettatori (la capienza massima è di circa il doppio) che, colti dal fascino unico dell’Arena di Verona, hanno assistito, all’inizio di agosto, alla messa in scena della Traviata di Giuseppe Verdi.
Era un piccolo sogno che coltivavo da tempo e me lo sono regalato per il centenario del Festival dell’Opera (nel 1913 il Festival fu appunto inaugurato con la rappresentazione dell’Aida). E ho fatto benissimo.
Ecco la vera inclusione: essere libero di comportarti come gli altri, senza che barriere di qualche sorta ti limitino. Piccoli dettagli che denotano attenzione. Come arrivare in un luogo di una manifestazione e trovare un vigile che ti indica una fila vuota di numerosi posti auto per persone con disabilità. A poche spinte – dire passi sarebbe ironico – dall’Arena che si staglia maestosa in Piazzetta Bra. Oppure arrivare con un certo anticipo per non mancare all’appuntamento, e gustarsi un classico spriz veronese in Piazzetta delle Erbe. Un turista tra i turisti in un bar dove idiomi differenti si confondono: russo, tedesco, americano, l’italiano scorretto e stentato, parlato dagli stranieri, che però si fanno capire dai camerieri.

Un linguaggio universale, come quello della la lirica, che ha estimatori a tutte le latitudini, e trova nell’Arena uno dei suo templi migliori. Sono curioso e alle 20 in punto mi avvio attraversando Via Mazzini con i suoi negozi eleganti e la sua pavimentazione liscia, su cui la mia carrozzina scorre senza intoppi, fin davanti all’Arena. Scendo una breve rampetta di ferro che copre il ciotolato che contorna l’Arena e sono in biglietteria e poi al cancello prestabilito, dove la maschera dell’organizzazione mi accompagna al posto in platea. L’anticipo forse è servito per evitare la calca delle persone ai cancelli d’ingresso o forse no, perché gli spettatori giungono alla spicciolata.
Dopo di me arrivano altre persone con disabilità. Quasi tutte straniere. Dietro si posiziona un francese in sedia a rotelle, una ragazza inglese, sempre in sedia, si accomoda davanti, più scostata una donna spagnola con un figlio con disabilità grave.
Ecco l’ennesima dimostrazione che quando il monumento è accessibile richiama un pubblico di turisti con disabilità. Una fetta di mercato che vale il 5% della popolazione europea. Mentre mi perdo nelle elocubrazioni mentali, entra in scena il gong ad annunciare che lo spettacolo ha inizio.

Le luci si spengono lentamente, la sera avvolge l’Arena rischiarata dalle candele a ripetere un antico gesto. L’anfiteatro romano, nella penombra della sera, è contornato da decine di fiammelle animate da un refolo di vento. L’atmosfera è pronta per accogliere Violetta, la signora delle camelie, e Alfredo, l’uomo che la ama con passione. Le loro voci si alzano compatte nei Libiamo ne’ lieti calici, per intonare le lodi all’amore, l’invito a godere del tripudio della vita, ad abbandonarsi alla voluttà perché le ore sono fuggevoli.
Non sono un esperto, per cui evito commenti sugli interpreti – non saprei giudicare – o sulla scenografia, che in mille forme richiama quadri e specchi in un gioco di rimandi che poco dicono a uno spettatore ignorante di lirica come me. Ma mi si permetta di descrivere l’emozione di essere completamente rapito dalla scena, attento a carpire le note della musica verdiana e le parole che si confondevano ai gorgheggi. Le arie che tante volte abbiamo sentito riprese in qualche film o pubblicità finalmente reinserite nel contesto per cui erano nate. Lì dal vivo con un cielo stellato che ti fa da coperta notturna, con quell’andirivieni di persone in costumi sgargianti o tenui a seconda dell’emozione da trasmettere. Fino all’ultimo, quando, su di una scena virata al bianco della purezza e dell’inverno, quasi fossero foglie autunnali, gli attori lentamente lasciano cadere fogli bianchi ad indicare la caducità delle cose umane. Fino all’ultimo, quando l’amore trionfa sulle vicende umane, ma non sulla morte.

Il presente testo, qui riproposto con alcuni riadattamenti al diverso contenitore, è già apparso in “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it», con il titolo “Il centenario dell’Arena, la Traviata e le persone con disabilità”.Viene qui ripreso per gentile concessione dell’Autore e del blog.

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