Rieducare la scuola alla disabilità

«C’è bisogno – scrive Franco Bomprezzi – di un ritorno alle origini, al senso stesso dell’integrazione a scuola, che è nata con le migliori intenzioni e che molto spesso riesce ancora adesso a rappresentare un esempio anche a livello internazionale. Ma occorre crederci davvero, tornare a formare alla disabilità l’intera scuola, non solo gli addetti ai lavori, con un’ampia operazione culturale»

Ragazzo in carrozzina studia al tavolo di una bibliotecaCi siamo, la scuola ricomincia. Sembra vi siano buone notizie per quanto riguarda le nomine di insegnanti di sostegno. Infatti, l’annuncio recente del ministro Carrozza – che prevede non solo l’assunzione di 27.000 docenti di sostegno a livello nazionale, ma anche l’avvio dei corsi di formazione per nuovi insegnanti – segna sicuramente un’inversione di tendenza rispetto agli ultimi anni, caratterizzati da un progressivo, quasi rassegnato, ridimensionamento delle politiche di inclusione scolastica. Ma io non sono un tecnico della complessa e farraginosa normativa, che è materia per sindacalisti esperti e per addetti ai lavori che conoscono ogni dettaglio statistico e contrattuale. Quello che mi preoccupa, da ex alunno con disabilità ormai da tempo con i capelli imbiancati, è la direzione che la scuola italiana sta prendendo rispetto alla disabilità.

Ai miei tempi non c’erano le leggi, ma semplicemente la pratica quotidiana, gli sforzi dei genitori, l’impegno dei prèsidi e dei docenti, la forza muscolare di chi allora riusciva a farmi arrivare regolarmente al primo piano del ginnasio e poi del liceo, nonostante le scale.
La mia disabilità, del resto, era solo fisica e dunque il sostegno del quale potevo aver bisogno negli Anni Sessanta era solo questo, una soluzione di problemi pratici e di superamento di barriere. Ma per me la scuola fu tutto, nell’avviamento alla vita. Amicizie, istruzione, sensazione di parità e di inclusione piena (anche quando neppure si parlava di questi argomenti).
Adesso, da lungo tempo, le leggi prevedono ogni cosa (sulla carta) e il principio dell’inclusione scolastica per ogni alunno con disabilità è sancito con forza. I numeri sono imponenti e la percentuale riguardante la disabilità fisica o sensoriale è assai inferiore, logicamente, alla consistenza degli alunni con disabilità intellettiva o relazionale. Il “sostegno”, nel corso degli anni, ha perso dunque molto spesso la spinta originaria, che era quella di costituire un servizio in più per l’intera classe, e non solo per l’alunno con disabilità. L’insegnante di sostegno – e il personale addetto all’assistenza – è sempre più una figura dedicata a proporre un percorso didattico parallelo, quasi separato, per alunni che non sono in condizione di seguire il ritmo di apprendimento o di interagire con i compagni di classe non disabili. Gli insegnanti ordinari mi dicono che hanno la tendenza a delegare all’insegnante di sostegno l’intero compito di seguire l’alunno o gli alunni con disabilità.
Ecco perché, quando manca il sostegno, il servizio cade su se stesso, e non resta altro che rimanere a casa. C’è bisogno dunque di un ritorno alle origini, al senso stesso dell’integrazione a scuola, che è nata con le migliori intenzioni e che molto spesso riesce ancora adesso a rappresentare un esempio anche a livello internazionale.
Occorre crederci davvero, tornare a formare alla disabilità l’intera scuola, non solo gli addetti ai lavori. Come sempre si tratta di un’operazione sulla cultura, non sulle barriere. Altrimenti l’alternativa è il “fai da te” della specializzazione, la ricerca di soluzioni integrative, di scuole specializzate, che poi non sono altro che scuole “quasi speciali”, tecnologicamente evolute.

E dire che la pedagogia ha tratto negli anni enorme giovamento dalla sfida dell’handicap a scuola. Una sfida di metodi, di linguaggi, di strumenti di valutazione, di tecnologie assistive, di strumenti collegiali, di consultazione di équipe, di costruzione di progetti educativi. Un bagaglio immenso che a volte sembra irrigidirsi nella forma, e diventare mero verbale delle prassi consolidate, parole scritte in gergo alle quali non corrisponde, se non raramente, la fiamma viva dell’istruzione, dell’insegnamento, della socializzazione.
Se a tutto questo aggiungiamo la vecchiaia, se non la vetustà, di molti, troppi, plessi scolastici e dunque il permanere anche di barriere architettoniche, quelle tradizionali, e se pensiamo anche alla difficoltà sempre maggiore nel garantire il trasporto, l’accudimento, la cura personale degli alunni con disabilità che vengono affidati dalle famiglie ogni anno al sistema scolastico nazionale, ci rendiamo conto di quanto delicato e importante sia questo tema per valutare la nostra qualità di paese civile. Ricordandoci che dietro i numeri, ci sono altrettanti bambini e ragazzi, con pari diritto a vivere e a crescere come cittadini istruiti.

Direttore responsabile di «Superando.it».

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