Immagino un Centro Diurno che…

«Che sia un luogo di ricerca – scrive Gloria Gagliardini, educatrice del Gruppo Solidarietà, in questo suo approfondimento elaborato in occasione di un seminario sui Centri Diurni per persone con disabilità – un luogo di accoglienza, vivo, un luogo di specificità, non per patologie, ma per interventi, un luogo di sperimentazione di autonomie, un luogo di formazione, di studio, un luogo vissuto»

Giovane con disabilità in un Centro Diurno

Giovane con disabilità in un Centro Diurno

Il Gruppo Solidarietà di Moie di Maiolati (Ancona) ha promosso il 5 novembre scorso, presso la propria sede, un seminario di ricerca, dal titolo Il Centro Diurno per disabili secondo me. L’iniziativa – cui hanno partecipato operatori, volontari e familiari – aveva per obiettivo di riflettere su questa tipologia di servizio. In particolare, per il Gruppo era importante capire quale idea di Centro Diurno, anche a partire dalle diverse esperienze territoriali, abbiano gli operatori – ognuno chiamato a intervenire a titolo strettamente personale – che da molti anni lavorano in questi servizi.
Di seguito presentiamo l’approfondimento sul tema, elaborato da Gloria Gagliardini, educatrice dello stesso Gruppo Solidarietà. (F.R.)

In questo mio territorio [Regione Marche, N.d.R.], il Centro Diurno – che si connota per essere fruito da «persone con disabilità con notevole compromissione delle autonomie funzionali» – è un luogo dove spesso si fanno attività di tipo laboratoriale e manuale, creazione di piccoli oggetti, attività di manipolazione, attività espressive attorno a un tavolo (un continuum di una modalità scolastica). Accanto a queste attività, poi, ci sono quasi sempre le “grandi uscite”, le “gite”, le attività ricreative extra, che sono fonte di grande emozioni perché si esce finalmente da quel luogo che diventa tanto, forse troppo, protettivo.
Spesso, però, in questa logica ci si trova a lavorare e a pensare per gruppi, perdendo nel tempo la specificità delle singole persone, perdendo il filo del loro percorso, come se dovessero crescere non in base alla loro vita reale, ma in base alla vita un po’ artificiale del Centro, dentro agli schemi che esso si è dato.
Mi viene in mente, a questo punto, come Maria Montessori, invocando la libertà di crescita di un bambino, diceva che si deve – con lo spirito dello scienziato – «offrire strumenti per dirigere l’attività psichica del bambino, non opprimerlo alle regole degli adulti, perché solo allora potrà nascere un altro tipo di regola: quella che viene dall’aver sperimentato un fare libero, ma ordinato e compreso».
Trovo che questa parola, libertà, debba permeare il lavoro educativo in generale e nel Centro Diurno. Perché anche con chi è adulto e ha disabilità complesse, noi agiamo continuamente su e con le loro possibilità di autodeterminarsi e possiamo liberare o al contrario opprimere le persone.
Questo è un concetto molto sottile e delicato, ma credo fondamentale. Di cosa si occupa un lavoro educativo nel Centro Diurno? Di dare strumenti di crescita, a volte di essere osservatori attenti di questa crescita, co-protagonisti di un progetto di vita che – come dice Carlo Lepri [psicologo, formatore e docente a contratto nell’Università di Genova, con un’esperienza ultratrentennale in materia di inserimento lavorativo delle persone con disabilità, prevalentemente di tipo intellettivo, N.d.R.] – è «un sogno che stiamo realizzando con e nella vita di quella persona, per quella specifica identità».
Se ciò che permea il pensiero dell’educatore è questo, ci potremmo rendere conto come siano vane le giornate attorno a quei tavoli a riempire un tempo che non passa mai, o a invitare le persone a lavorare, a creare, a produrre sempre qualcosa e innervosirci se non lo fanno (questo è anche il nostro modo occidentale di vivere, dobbiamo produrre!) e non invece intenti ad accompagnare le persone in quel sogno di autodeterminazione, a ricercare con loro un’identità che va mutando o che va invecchiando.
Secondo me la sfida per la crescita dei Centri Diurni sta dentro alla sfida di una profonda ricerca educativa/pedagogica. Quanto più forte e competente sarà l’aspetto educativo, tanto più forte sarà la qualità del servizio e la capacità di ripensarlo. E per aspetto educativo intendo: come pensare, studiare percorsi di crescita e di cura per le persone con disabilità intellettiva complessa, ovvero di quali tipi di sostegni una persona con disabilità intellettiva complessa necessita? Il servizio stesso, quindi, diventa sostegno per il funzionamento ecologico globale della persona.

Io immagino questo…
Immagino un Centro Diurno anzitutto come uno dei servizi per la disabilità adulta. Non un centro indifferenziato di bisogni in cui tutti coloro che hanno terminato l’obbligo scolastico passano! Ma lo penso per persone con disabilità intellettive importanti che non possono fare altri percorsi, come inserimenti lavorativi, percorsi educativi territoriali mirati nel contesto sociale. Questo chiaramente presuppone un’unità multidisciplinare ben radicata sul territorio, che sappia indirizzare percorsi e – a monte – politiche che abbiano una chiara prospettiva inclusiva.
Nel Centro Diurno credo sia importante mantenere un’eterogeneità di gruppo e di età, in modo che ci siano persone che possano aiutare altre. Non lo penso come un luogo per patologie, anche se sono convinta che alcuni accorgimenti specifici per alcune patologie ci vogliano (pensiamo alle tante forme di disturbo generalizzato dello sviluppo come l’autismo), ma qui, secondo me, siamo dentro a un discorso di come saper dare risposte adeguate con interventi mirati (interventi che siano anche spazi e rapporti educativi adeguati) e questo non vale per tutti?

Immagino un Centro Diurno in cui gli spazi siano ampi, ben caratterizzati per le funzioni (cucina, bagno, salotto…), in cui l’ambiente sia organizzato sui bisogni di vita reale: una stanza per simulazioni di autonomia abitativa, una per attività di tipo sensoriale per interventi di cura corporea, attività di massaggio, di relazione corporea (importantissimo per persone con compromissione del linguaggio verbale) ecc. Poi una stanza in cui parlare e magari dividersi in gruppi la mattina, un Centro dal quale le persone partano per altri luoghi (la piscina comunale, la palestra ecc…), in cui le attività siano pensate e svolte fuori (per le autonomie sociali, ad esempio).
Frequentare i luoghi e i contesti sociali non solo come visitatori o spettatori, ma come cittadini coinvolti, competenti per quello che possono: questo deve rispondere all’aspetto sociale del Centro. Un luogo che sia centrale nel territorio di appartenenza perché tutto ciò che si fa sia il più possibile fruibile, un luogo che abbia anche uno spazio esterno da poter utilizzare.

Immagino un Centro Diurno che sia di supporto alla vita quotidiana delle famiglie, quindi con un orario esteso, e che sia in collegamento con servizi di tipo abitativo, per poter lavorare concretamente su passaggi delicati come il distacco dalla propria famiglia e contemporaneamente lavorare con la famiglia su questo aspetto. Un lavoro in cui il diurno e il residenziale siano fortemente collegati.

Immagino un Centro Diurno all’interno del quale lavorino educatori con diverse formazioni sociali e psicopedagogiche, educatori ciascuno responsabili di alcuni utenti e quindi dei progetti delle persone, educatori affiancati da operatori socio sanitari che siano di supporto nella cura di sé, nell’atto del mangiare, dell’andare in bagno, in un lavoro di cura che si amalgama continuamente, perché sappiamo bene come la “cura educativa” passi per tutte le funzioni.
Inoltre, mi piacerebbe che all’interno del Centro fossero previste anche una o più figure di supporto (assistente sociale?) affinché il lavoro sociale ed educativo camminassero insieme.
Un lavoro stretto tra familiari e professionisti, con incontri per il monitoraggio dei PEI [Piani Educativi Individualizzati, N.d.R.] e attività di supporto al nucleo familiare, percorsi di accompagnamento vari (psicologici, legali, sociali).

Immagino un centro diurno in cui si documentino percorsi di autonomia di qualsiasi tipo, in cui si possa rispondere alle identità che mutano, alle persone che invecchiano. Un luogo, quindi, di ricerca, di accoglienza, vivo, un luogo di specificità, non per patologie, ma per interventi, un luogo di sperimentazione di autonomie, un luogo di formazione, di studio, un luogo vissuto.

Educatrice. Volontaria del Gruppo Solidarietà.

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