«Dateci una possibilità e sapremo stupirvi»: ogni volta ecco ritornare dirompente quella richiesta. L’ho sentita anche qualche giorno fa, mentre intervistavo un maestro di karate, Giorgio Barchiesi, e i suoi allievi con disabilità del Gruppo Diversamente Karate di Gonzaga (Mantova).
«Ho studiato questa disciplina e quando sono arrivato al punto di insegnarla – spiega Barchiesi – mi sono guardato intorno e ho chiesto perché non poteva essere utile anche alle persone con disabilità. La risposta mi gelò: “Qui s’insegna agli atleti di Serie A…”. Ebbene, da quel momento ho deciso di “vincere la Champions” e di trasmettere il karate anche ai ragazzi con disabilità gravi».
Come Andrea, che nel 2006 ebbe un grave incidente che lo sospese in coma tra la vita e la morte per sei mesi e che gli “donò” quattro anni di riabilitazione ospedaliera. Oggi ha una ventina d’anni, muove solo un braccio e non perde una lezione. «Anzi – commenta Giorgio – quando l’ho cacciato, per ben due volte, è sempre tornato. Non aveva capito che questa disciplina è puro sacrificio, uno sforzo che premia nel lungo periodo. Ora l’ha scoperto da solo».
Oppure Francesco, un ragazzo di 18 anni con autismo. «Quando è arrivato, non parlava e non interagiva, gli abbiamo regalato un paracadute e si è aperto», racconta l’insegnante, accennando a un esercizio in cui il ragazzo allarga le braccia per stare in equilibrio e simbolicamente quel gesto è il paracadute che lo protegge dalle cadute della vita reale. «Sono persino riuscito a portarlo con me a una Partita del Cuore – prosegue Barchiesi – nella confusione della calca. Solo al mio ritorno i genitori mi hanno detto che quella era la prima uscita senza mamma e papà nei suoi diciotto anni di vita».
«Non so se sia solo questo sport – commenta il padre di Francesco – o il mix di musicoterapia e di tutte le attività che con sua madre, responsabile di un’associazione per disabili, gli stiamo facendo fare, ma Francesco sta cambiando, sta crescendo. E ha sviluppato una sensibilità che riesce sempre di più a stupirmi».
«Dateci una possibilità e vi insegneremo!». Sì, insegnare a distinguere in una scala di valori. Così lo sport praticato insieme agli altri diventa un momento di riflessione per tutti, per i bambini (dai quattro anni in su), che senza malizia imparano a non vedere le differenze, e per i genitori che «troppo spesso – conclude Giorgio Barchiesi – spingono i piccoli a essere i migliori, a diventare campioni e che invece imparano a essere contenti dei successi, grandi e piccoli, dei loro figli».