Carissimi ausili: muoversi in auto

“Entriamo in auto”, questa volta con Giorgio Genta, per continuare a parlare di ausili, trattati con l’ormai consueta cifra a metà tra l’ironia e il quotidiano, partendo delle esperienze vissute insieme a Silvia, giovane donna con disabilità e figlia dello stesso Genta. Ma il tema è decisamente ampio e richiede in questo caso (almeno) una doppia trattazione

Fiat Ulysse adattato per il trasporto di persone con disabilità

Un Fiat Ulysse adattato per il trasporto di persone con disabilità (foto di Autofficina Poggesi)

Un campo praticamente illimitato di autoprogettazione di ausili è sempre stato, almeno da quando ho memoria, quello riguardante l’automobile o meglio il veicolo da trasporto polivalente (donne e cane). E se a qualcuno tale dominio sembrerà limitato, potremo tranquillamente aggiungere il sottosettore dell’autoprogettazione parziale, nonché quello della riconversione, c’est à dire, come dicono i cugini d’oltralpe, dell’utilizzazione di ausili industrialmente nati sì, ma per altri scopi. Procediamo per ordine (cronologico).

Con Silvia piccola, il problema era quasi banale. Dapprima bastò un normalissimo porta-enfant, poi, quando il passare dei mesi e degli anni iniziò, ahimè, a separare le strade dei bambini con disabilità da quelli senza, venne avviata  una “paranoica” produzione di cuscini-laterali-imbottiti-ma non troppo, muniti di svariati velcri, sì che collegati tra loro potevano formare un certo numero di combinazioni utili che mutavano rapidamente dal finto posto di guida della Ferrari 641 F1 (siamo sempre stati un po’ nazionalisti) al rendere più comodo il banco da asilo (naturalmente autoprogettato anche quello), passando per la loro funzione primaria dell’uso in automobile.
Per venire quindi al veicolo, con Silvia giovanissima, avevamo una robustissima Audi 80 che resistette – sia pur poi declassata a veicolo secondario – per ben ventidue anni, senza un sol rigo di ruggine, malgrado circa 7.000 notti passate all’addiaccio in un clima salmastro, sotto pini stillanti resine e fatta oggetto di deiezione da parte di svariati uccelli notturni.
Non potevamo metterla in garage? Sì, certo, ma allora, dove avremmo riposto gli ausili dismessi di Silvia, non potendo rendere questi ultimi all’ASL, perché autoprogettati e autocostruiti?
L’Audi 80 (seconda serie, 1800 di cilindrata), era dotata di un bagagliaio di medie dimensioni, pensato per un uso signorile, ma “non principesco” del veicolo e l’uso “principesco” (naturalmente “principessa” è solo uno dei molti appellativi nobiliari di Silvia) avrebbe comportato l’irrisolvibile stivaggio del corredino ridotto da viaggio (quattro ceste in rattan di 98 pollici x 36, contenenti, foderate in porpora di bisso, capi d’abbigliamento di ricambio ecc. ecc.), vestiario griffato più alcune parti di “ausili da campo” di non trascurabili dimensioni.
Riuscimmo ugualmente, senza troppo incidenti – esclusi quelli attribuibili alla guida scellerata del dormiente perché sempre stanco pilota – a cavarcela egregiamente per svariati anni… e passiamo oltre.

Con Silvia cresciuta, dal passeggino pieghevole McLaren (sempre sospettati di “tradimento ideologico” verso la Ferrari…), pratico ma foriero di scoliosi, si passò a una serie di numerose carrozzine, alcune presenti solo vagamente nel ricordo di un uomo ormai senza memoria, ma non nel corpo dell’uomo medesimo, perché vi lasciarono indelebili cicatrici provocate dalla movimentazione dei piccoli suddetti carri falcati.
L’incidente più frequente era lo schiacciamento e l’amputazione parziale di alcune dita della mano destra… maldestramente intrappolate nel meccanismo di chiusura del telaio delle carrozzine. Incidenza non molto inferiore ebbe poi il trauma cranico provocato dal gancio di chiusura del bagagliaio, contro cui cozzava inesorabilmente la pur dura cervice dello scrivente.
Dall’Audi passammo poi al mitico FIAT Ulysse (nome di battaglia Botafumeiro, come ho già più volte scritto su queste stesse pagine) e il nome stesso di omerica memoria indicava chiaramente che sarebbe stato oggetto e soggetto di tragici avvenimenti.
Gloriosamente passammo di paese in paese – e di Paese in Paese -, lasciando dietro a noi ruine ed epiche imprese ancor oggi narrate, la sera, dalle nonne agli increduli nipotini dagli occhi sbarrati.
Nemmeno sul pur evoluto Ulysse vi era traccia di elevatore per carrozzine e quindi la carrozzina dell’epoca – già ampliamente descritta in una precedente puntata di questa rubrica – veniva riposta manualmente nel vasto vano bagagli posteriore del “figlio di Laerte” fatto monovolume…
Per evitare poi che la carrozzina medesima, scomposta semplicemente in telaio e ruote, andasse “a rollio”, malgrado fosse solidamente incastrata tra due gigantesche valigie Samsonite di massima dimensione (in pratica bauli), venne astutamente – Ulisse, appunto! – costruito un “container ligneo” in compensato marino a sette strati e di costo iperbolico, benché autoprodotto, che conteneva l’intero carico e impediva lo sfondamento della carrozzeria e della schiena dei passeggeri seduti in terza fila, anzi in seconda, giacché la terza era stata eliminata per aumentare la capacità di carico del veicolo.

Basta Ulysse! Andò infatti distrutto in un terribile incidente autostradale: miracolosamente ne uscimmo vivi e, alla lunga, quasi indenni. Non può tuttavia essere taciuta l’esistenza del “più geniale ausilio per auto” – e non solo – prodotto da una mente oramai non più umana, che per l’Ulysse nacque e con esso non morì: il lettino trasversale, naturalmente appiattibile, utilizzabile anche come barella da trasporto e lettino da fisioterapia in albergo.
All’epoca, la ben nota rivista «Mobilità», pur apprezzando moltissimo l’articolo illustrativo proposto – illustrativo anche perché corredato da svariate foto, purtroppo perdute – rifiutò decisamente di pubblicarlo, perché temette una denuncia penale per “istigazione al sovvertimento delle leggi di Stato”, e marcatamente di quelle che impongono l’omologazione di determinati accessori d’uso per autoveicoli preposti al trasporto di persone con disabilità.
Avremmo potuto facilmente obiettare (e chissà se Carlo Giacobini, direttore di quella testata, in cuor suo ci avrebbe dato ragione…) che Silvia, più che “normale persona con disabilità”, era una creatura con disabilità ora “nobilissima” (principessa) ora “demoniaca” (per via del lavoro che ci dava da fare, pungolandoci inoltre con un appuntito forcone tratto dall’Inferno Dantesco, illustrazione del Doré): lasciammo quindi signorilmente perdere.
Dovendo tuttavia rientrare ora nell’“Inferno” di cui sopra, e anche rapidamente per via del sinistro rumore prodotto da un segnale di allarme, abbandono provvisoriamente i Lettori, in attesa di scrivere – e loro, se vorranno, di leggere – la seconda parte di questo articolo.

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