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Cosa rimane di quelle “6 Stelle”?

Protagonisti della docu-fiction televisiva "Hotel 6 Stelle"

I sei protagonisti della docu-fiction televisiva “Hotel 6 Stelle”

Successo di pubblico, con gli ascolti dell’ultima puntata (un milione di telespettatori) quasi doppi rispetto a quelli della prima. Ottime critiche (ne ha parlato su queste stesse pagine anche Antonio Giuseppe Malafarina), soddisfazione dei vertici RAI, della casa di produzione Magnolia e dell’AIPD (Associazione Italiana Persone Down).
A leggere le cronache, all’indomani della chiusura di Hotel 6 Stelle, non ci sono dubbi: è stato un trionfo. La docu-fiction andata in onda su Raitre, che narrava l’inserimento lavorativo in un albergo di sei ragazzi con trisomia 21, conferma quanto avevamo recentemente scritto, a proposito della campagna di CoorDown (Coordinamento Nazionale Associazioni delle Persone con Sindrome di Down), promossa in occasione della Giornata Mondiale delle Persone con Sindrome di Down del 21 marzo: questi ragazzi, in fatto di telegenicità, hanno una marcia in più, “bucano lo schermo”, come dicono gli addetti ai lavori, e stanno diventando famosi.
Il risultato di immagine e di sensibilizzazione è quindi positivo. Ma lo scopo della trasmissione era anche – e soprattutto – quello di promuovere l’inserimento lavorativo. Come infatti dichiarato in partenza dai responsabili dell’AIPD – con la cui determinante collaborazione la docu-fiction è stata realizzata – e come dimostravano i crawl (sottotitoli) che scorrevano spesso nella parte bassa dello schermo e che si rivolgevano direttamente a potenziali imprenditori interessati.

Com’è andata dunque quest’altra sfida? Che cosa è rimasto, a telecamere spente, del progetto iniziale? Se è vero che la televisione è un mezzo, si è riusciti a sfruttarlo per raggiungere gli obiettivi prefissati?
In tal senso, il mio dubbio era stato quello di essermi “innamorato di una bella storia”, dimenticando il motivo per cui era stata raccontata. Un po’ come accade ad alcuni spot commerciali, che diventano famosi e vengono ricordati per anni, senza però che nessuno riesca più a collegarli al prodotto reclamizzato, né, tanto meno, all’azienda che li aveva prodotti.
Intendiamoci, la sensibilizzazione su tematiche sociali e su soggetti a rischio di emarginazione, se ben fatta, è un valore in sé. Ma trovare lavoro è un’altra cosa. «In effetti abbiamo accettato di partecipare proprio per sollecitare le aziende a dare un impiego ai nostri ragazzi». Chi parla è Anna Contardi, che dirige l’AIPD e che incontro nella sede romana dell’Associazione, in una palazzina della Roma umbertina, piena di quadri con le vecchie, bellissime, campagne pubblicitarie.
«Quando si sono presentati quelli di Magnolia [la casa di produzione che ha importato il format dalla Svezia, N.d.R.] – spiega Contardi – abbiamo accettato, mettendo alcuni paletti: che potessimo fare noi il casting, che ci garantissero che i nostri tutor potessero seguire i ragazzi sul set e che fosse passato, con frequenza, un messaggio rivolto alle aziende, per invitarle ad assumere una persona con sindrome di Down». «Richieste accolte in toto – la incalzo – ma con le aziende com’è andata?». Mi risponde che le prime telefonate sono cominciate ad arrivare dopo la terza puntata. «Ci siamo dovuti organizzare. Abbiamo messo una persona ad occuparsi a tempo pieno di gestire le richieste. Bisognava capire bene che tipo di impiego proponevano, verificare con le nostre sedi sul territorio o con altre associazioni se c’erano persone in grado di svolgere i compiti richiesti».

Oggi, quindi, a meno di un mese dalla fine del programma, le richieste ufficiali sono ben trentatré, un’enormità, se si pensa che in quasi vent’anni (dal 1996 ad oggi) l’AIPD aveva fatto in tutto un centinaio di inserimenti lavorativi. «Non tutti propongono assunzioni – precisa in ogni caso Contardi -, alcuni infatti offrono stage, altri lavori stagionali, altri ancora contratti a tempo determinato. Ci sono aziende che lavorano nel campo della ristorazione, alberghi, negozi. Chiamano soprattutto dal Nord e dal Centro Italia, anche se si sono fatti vivi imprenditori pure da Campobasso e dalla Sardegna».
Chiedo allora cosa ne sarà dei protagonisti di Hotel 6 Stelle e Contardi mi anticipa una notizia che verrà resa pubblica a fine aprile: «La prima ad entrare in servizio sarà proprio una dei sei della TV! Lavorerà a Roma, in un fast food. Siamo particolarmente felici perché questa ragazza aveva perso il precedente lavoro ed era a tutti gli effetti una disoccupata». Di più non mi dice, perché vuole tenere in caldo la notizia fino al giorno della conferenza stampa.

Aspettando dunque di conoscere la neoassunta, chiedo di darmi un quadro generale dell’inserimento lavorativo delle persone con sindrome di Down. Scopro che c’è una ricerca, piuttosto aggiornata, la quale stima che gli occupati siano circa il 13 per cento delle persone con sindrome di Down adulte. Fa più o meno 3.000 persone, se si pensa che in tutto ci sono 40.000 individui con trisomia 21 e che di questi circa il 60 per cento è adulto.
«È un numero che può crescere – sostiene Contardi – anche se bisogna chiarire che non tutti potranno entrare nel mercato libero. A seconda della gravità della sindrome, infatti, ci sarà chi avrà bisogno di un collocamento protetto nelle cooperative e chi dovrà svolgere attività occupazionali nei Centri Diurni».

13 per cento di occupati. Chissà perché mi sembra un buon numero. Di questi tempi, soprattutto. «Se leggi quel dato in un altro modo, però, vuol dire che c’è l’87 per cento di non occupati, quasi nove su dieci. Siamo ancora molto indietro». A farmi riflettere è Sergio Silvestre, presidente del CoorDown, coordinamento che, pur essendo nato con una missione centrata soprattutto sulla sensibilizzazione, ha realizzato alcune campagne per il collocamento lavorativo.
«Non c’è dubbio – sottolinea Silvestre – che le cose vadano meglio, rispetto al passato. Il successo di Hotel 6 Stelle dimostra che quando le buone idee di comunicazione trovano spazio nei media più importanti si possono raggiungere buoni risultati. Il problema è che nella stragrande maggioranza dei casi le nostre associazioni non riescono a raggiungere il grande pubblico. I nostri spot piacciono, vincono i premi, diventano virali su Internet. Ma la TV è un’altra cosa».

Riepilogando, un buon prodotto di comunicazione abbinato a un media potente che garantisce una larga audience, riesce davvero a smuovere qualcosa, come dimostrano le trentatré aziende che hanno telefonato all’AIPD.
Detto che probabilmente alcune di queste aziende sono “stimolate” dall’esistenza di una legge (la 68 del 1999 sul collocamento obbligatorio) che le dovrebbe obbligare ad assumere una quota di lavoratori svantaggiati proporzionale al numero degli occupati (il condizionale è dovuto al fatto che, non essendoci veri controlli, la normativa è bellamente ignorata da buona parte delle imprese), mi resta a questo punto solo una domanda. Come se la cavano, le persone con sindrome di Down, sul posto di lavoro? Riescono ad inserirsi sul serio o vengono vissute come “un peso”?
La risposta me la faccio dare da Vittorio Scelzo, un volontario della Comunità di Sant’Egidio che più di vent’anni fa ha aperto a Roma, nell’affollato quartiere di Trastevere, la Trattoria de Gli Amici, un ristorante in cui hanno lavorato, fino ad oggi, più di cento persone con disagio psichico. «Partimmo con quattro ragazzi – racconta Scelzo -, di cui uno con sindrome di Down, e 10 posti a sedere. Oggi, calcolando anche quelli esterni, arriviamo a 130 coperti. E tra cucina e sala facciamo lavorare 13 persone con disabilità cognitive, di cui due con sindrome di Down».
La sfida, spiega, fu da subito quella di essere competitivi su una piazza affollata e ricca di concorrenza come quella di Trastevere. «Abbiamo deciso di costruire il ristorante intorno a loro. All’inizio è stato difficile, anche perché nessuno di noi aveva esperienza nel campo della ristorazione». A distanza di vent’anni, però, il bilancio è più che positivo. Tra i clienti della Trattoria de Gli Amici, infatti, solo una piccola parte arriva perché conosce la peculiarità del locale. La gran parte è composta da turisti e persone che vogliono solo mangiar bene e passare una bella serata. «Si mettono seduti, conoscono i camerieri, li trovano simpatici, apprezzano il cibo e vanno via contenti». Basta leggere i giudizi su Trip Advisor, per capirlo. Se poi ci si fa raccontare la storia di Maurizio, che si occupa di consigliare i vini pur essendo astemio o di Gina e Fabio, i due camerieri che si sono sposati e che sono andati a vivere insieme, viene senz’altro voglia di passar di là, una sera di queste.

Testo apparso anche in “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it» (con il titolo “Sei stelle in tv. E fuori?”). Viene qui ripreso, con alcuni riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.

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