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Uomo o donna, prima che disabile

Marc Chagall, "La passeggiata"

Marc Chagall, “La passeggiata”, 1917-1918, San Pietroburgo, Museo di Stato Russo

Sesso e disabili, come se dovessimo scalare o infrangere chissà quale tabù. Così ne parlano; quasi ci fosse qualcosa da risolvere “sottobanco”, la cura per chissà quale malattia strana. Se il sesso fosse una malattia, ci guarderemmo tutti bene dal curarla, sarebbe la prima volta che le case farmaceutiche non farebbero a gara per trovarne l’eventuale vaccino.
Eppure, quando l’aspetto della sessualità incontra quello della disabilità, si aprono ancora mille diatribe, mille dibattiti, nelle quali molto spesso vanno a cozzare aspetti che non c’entrano nulla l’uno con l’altro. Addirittura, ci troviamo ad avere a che fare con persone che si battono per far sì che il sesso sia consentito a tutti, anche ai disabili. Domanda: è mai stato negato? A giudicare dagli ultimi accadimenti, nel nostro Paese, può mancare tutto, ma il sesso no. A pagamento, libero, consensuale, transessuale, politico e sociale. Si è detto, scritto e parlato di tutto: accoppiarsi non è più solo un fatto che si fa e finisce nelle stanze da letto. Proprio per questo, mi chiedo: perché sprecarsi a parlare dell’atto sessuale, che dovrebbe essere una cosa del tutto naturale e consequenziale, nella maniera più becera possibile? Il messaggio che passa è quello che tutti possono arrivare a tutto, e quindi perché vige ancora la diceria che, se ci si trova in una condizione di disabilità, non si può avere una sessualità attiva? Forse perché il problema su cui si è posto l’accento non ha nulla a che vedere con il sesso in sé.

Quando si afferma che la persona disabile si trova in una condizione più difficile rispetto ad altri, si sta dicendo la verità: bisogna riadattarsi, ritrovarsi e imparare a vedere le cose da una prospettiva diversa a seconda della propria patologia. Questo comporta anche un dover riscoprire se stessi, imparare a capire quali sono i nostri limiti e conviverci, andare oltre lo steccato. Superare l’empasse giorno dopo giorno e arrivare a un’accettazione di sé in tutti gli aspetti, anche quello sessuale.
Proprio a fronte di ciò, come disabile, trovo che si stia banalizzando parecchio la questione: ormai, dovunque mi giri, trovo persone (anche tra i disabili stessi) che si ergono a “paladini del sesso e della diversità”, che sembrano vivere solo ed esclusivamente affinché il sesso diventi una cosa accessibile, trattandolo nella stessa maniera di quando parliamo della strada dissestata, degli autobus senza pedane, o dell’ennesimo edificio che presenta troppi gradini.
Il sesso non è mai stato una barriera, né tanto meno un limite da superare in maniera meccanica: puoi anche mettere le prostitute gratis per i residenti disabili, come in Olanda e in Svezia, o garantire professioniste dell’amore, cosiddette lovegiver, ma ci sarà sempre, a mio avviso, qualcosa che mancherà.

Il disabile non ha paura di fare sesso, ha paura – anzi, ha la certezza – di non essere accettato perché non sa vedersi completamente come uomo o come donna. Puoi anche metterlo a suo agio, trovando una donna o un uomo che, dietro pagamento o per professione, sia consenziente, ma questo non colmerà il vuoto che ogni giovane con disabilità si porta dentro.
Bisogna permettere che sia i ragazzi, sia le ragazze con disabilità trovino la loro sicurezza nell’instaurare un approccio positivo o fallimentare che sia con l’altro. Tale condizione non si può ottenere solo garantendo la mera soddisfazione, attraverso l’accoppiamento meccanico tra due corpi. La sessualità non è un diritto, ma qualcosa di bello. Si deve comunicare quanto è bella e significativa la possibilità di essere scelti a vicenda, andando oltre il pregiudizio.
La figura delle “terapiste del sesso” è necessaria sicuramente, ma non indispensabile ed è d’obbligo sottolineare che per quanto concerne l’handicap, il sesso a pagamento, o sotto forma di terapia, non è l’unica via. C’è anche la possibilità di venire scelti ed essere amati per quello che si è: uomo o donna, prima che disabile.
Sportelli di ascolto affiancati a tali servizi permetterebbero di capire che non si cerca il sesso in questi casi, ma un barlume di normalità. Non è con un semplice rapporto sessuale che si arriva ad avere la consapevolezza di quanto possiamo valere e dare come persone, anche se, ammetto, male non fa. Mi sento perciò di dire: se volete del sesso, potrete reperirlo facilmente come ogni persona disposta a pagare, se volete conservare delle esperienze, imparate a vivere la vostra vita nel profondo, anche quando a tratti può sembrarvi ingiusta.

Ringraziamo Simona Lancioni per la segnalazione.

Il presente testo è apparso in «FinestrAperta», periodico della UILDM Laziale (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare), con il titolo “Fare sesso ci rende così diversi?” e viene qui riproposto, con minimi riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.

Rispetto ai temi trattati nella presente Opinione, segnaliamo innanzitutto i recenti contributi da noi pubblicati e qui a fianco citati, oltre all’ampio elenco di testi dedicati alla sessualità e all’affettività delle persone con disabilità, riportato all’interno dello stesso citato contributo di Andrea Pancaldi.

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