A un ventenne che voglia cambiare la sua vita in meglio

«Voglio dare subito – scrive Marco Piazza – la mia risposta al presidente del Consiglio Renzi , che nei giorni scorsi ha lanciato la proposta di un nuovo Servizio Civile Nazionale, aperto a centomila giovani all’anno: centomila volte sì, perché il Servizio Civile ha cambiato in meglio la mia vita e mi piacerebbe facesse lo stesso effetto a tanti altri ragazzi e ragazze»

Giovani in Servizio Civile insieme ad alcune persone con disabilità in carrozzina

Giovani in Servizio Civile insieme ad alcune persone con disabilità in carrozzina

Centomila giovani per un nuovo Servizio Civile Nazionale? Matteo Renzi ha lanciato la proposta nei giorni scorsi e attende una risposta, dagli italiani, entro i primi di giugno. La mia gliela do subito: sì, centomila volte sì. Il motivo? Strettamente personale. Il Servizio Civile ha cambiato in meglio la mia vita e mi piacerebbe facesse lo stesso effetto a tanti altri ragazzi e ragazze.

Un passo indietro di 28 anni. Era la primavera del 1986, avevo 21 anni. Avevo appena ricevuto la cartolina che annunciava che la mia obiezione di coscienza alla leva militare era stata accettata e che dovevo mettermi alla ricerca di un ente presso cui svolgere il servizio nei successivi venti mesi.
Mi erano bastati i classici “tre giorni” al Distretto Militare, appena compiuti i 18 anni, per capire che adunate, marce e stellette non facevano al caso mio. Poi avevo sostenuto un colloquio surreale, con un carabiniere a cui dovevo dimostrare la veridicità della mia scelta etica. Un collega obiettore mi aveva consigliato di essere chiaro e sintetico nelle risposte, per cui quando il militare, leggendo un foglio, mi domandò per quali motivi avessi fatto quella scelta, io risposi, laconico: «Perché sono pacifista e non violento». Lui non fece una piega e continuando a leggere passò alla domanda successiva. Che recitava, lo ricordo come fosse ieri: «Sì, ma in poche parole?»…

La scelta dell’ente fu assolutamente casuale. Avevo un opuscolo con l’elenco delle associazioni e dei centri della mia città (Roma). Cominciai da quelli in cui immaginavo avrei potuto avere tempo e modo per continuare studiare. Le Biblioteche Comunali, però, erano tutte al completo. Provai con qualche associazione ambientalista, tra cui il Centro Alfredo Rampi, dove conobbi la madre del piccolo Alfredino, morto nel famoso pozzo di Vermicino. Niente da fare nemmeno lì.
Avevo ormai quasi spulciato tutto l’elenco, quando mi cadde l’occhio sull’Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare (UILDM), la cui sede era a Trastevere, a dieci minuti da casa mia. Ci andai direttamente, senza telefonare. Fui ricevuto da una psicologa, che mi raccontò in cinque minuti cosa fosse la distrofia muscolare e quali sarebbero stati i miei compiti nel caso avessi deciso di svolgere lì il servizio. Il posto c’era, perché l’obiettore in servizio stava per essere congedato. Ricordo che mentre la ascoltavo vedevo passare sedie a rotelle con sopra ragazzi dalle schiene ricurve che riuscivano a malapena a muovere le dita delle mani.
Dissi che ci avrei pensato e che avrei dato una risposta entro qualche giorno, ma arrivato a casa, un paio d’ore dopo, qualcosa mi suggerì di alzare il telefono e accettare l’incarico. «Bene – mi disse la psicologa che sarebbe poi diventata una mia grande amica – presèntati in sede il 30 aprile alle 8 di mattina».

Nessuno, però, mi aveva avvisato del fatto che il 30 aprile tutta l’Associazione sarebbe partita, in pullman, per Siderno Marina (Reggio Calabria), per partecipare all’Assemblea Nazionale della UILDM. Né bastò il sorrisetto sadico dell’obiettore quasi-congedato a farmi capire cosa mi sarebbe capitato nei successivi tre giorni.
Il mio primo “servizio” fu quindi quello di caricare sul pullman una trentina di ragazzi distrofici. Prendendoli in braccio dalla carrozzina, salendo con loro le scalette del pullman, e depositandoli con grande cautela sui sedili del bus. Nonostante l’aiuto dell’altro obiettore e dei genitori, lo sforzo fu per me sovrumano. E sono certo che le due protrusioni discali che mi hanno causato una decina di “colpi della strega”, siano nate proprio in una piazzetta di Trastevere, il 30 aprile 1986…

I venti mesi successivi sono stati per me una scoperta, come stessi facendo un viaggio dall’altra parte del mondo. Un’avventura avvincente, emozionante. A tratti difficile, dura, faticosa. Mai noiosa. Ho scoperto che esistono malattie devastanti, incurabili e difficili da diagnosticare. Patologie che per colpa di una proteina che manca fanno sì che i tuoi muscoli si indeboliscano progressivamente, costringendoti su una carrozzina a 10 anni di età e facendoti vivere al massimo una ventina d’anni, fino a quando anche i tuoi polmoni non si atrofizzeranno e il tuo cuore non si fermerà (oggi, va detto, grazie ai progressi della medicina e della ricerca scientifica, la qualità della vita dei ragazzi distrofici è migliorata e la durata è quasi raddoppiata. Ma la cura ancora non c’è).
Durante il mio Servizio Civile ho conosciuto famiglie straordinarie. Madri e padri, soprattutto madri, che arrivavano ad alzarsi fino a dieci volte per notte per girare i figli nel letto. Che li accudivano ventiquattr’ore su ventiquattro, lavandoli, vestendoli, imboccandoli, portandoli a scuola e che, oltre a tutto questo, riuscivano a gestire la casa e il resto della famiglia.
La cosa che più di tutte mi colpiva era la loro serenità – sia dei ragazzi distrofici che dei genitori – la loro forza. Un ricordo su tutti. Si chiamava Cristiano, era tra i più gravi, completamente allettato, in vita grazie a un “giubbotto” che lo aiutava a respirare. Nonostante le condizioni gravissime, aveva mantenuto, fino all’ultimo, il gusto per la battuta e una grande ironia. Lo chiamai per sentire come andava e gli raccontai dei miei problemi sentimentali con una ragazza che mi aveva lasciato. Ricordo di essermi sentito come un verme subito dopo avere detto, io a lui, di essere un po’ giù di morale. Cristiano mi fece finire la frase, fece passare qualche secondo e poi disse, a fatica: «E vabbè, che vuoi che sia, vedrai che passa. Sempre meglio della distrofia muscolare!».

Finito il Servizio Civile, non mi sono più separato dalla UILDM. E anche se tutti i ragazzi che avevo conosciuto se n’erano andati, portati via dalla malattia, ho fatto amicizia con le nuove “leve”. Ho fatto il volontario, ho suonato con loro in un gruppo musicale in cui avevamo smontato una batteria e ne avevamo dato un pezzo per ciascuno, ho partecipato al Consiglio Direttivo.
Diventato giornalista, ho diretto la redazione del loro giornale («FinestrAperta») e organizzato eventi di comunicazione. Poi sono arrivato a Telethon, nato proprio per volontà delle madri della UILDM, nel 1990. E ho lavorato per far sì che gli scienziati avessero i fondi necessari per arrivare, il più presto possibile, a trovare una cura.

Fino ad oggi, che racconto questa ed altre storie simili. Nella speranza che le legga qualche ragazzo, di vent’anni, con la voglia di fare un’esperienza che gli cambi la vita.

Testo apparso anche in “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it» (con il titolo “Servizio civile? Centomila sì”). Viene qui ripreso, con una serie di riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.

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