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Chi naviga non si fermi alla superficie

Copertina di "Tempo di imparare" di Valeria Parrella«Ci ho messo tempo a capire e ce ne vorrà per sempre. Per capire tu dove fossi, dietro quale lettera della parola disabilità ti stessi nascondendo, con quale ti fossi armato per portare avanti la tua vita, in un mondo che non ha proprio la forma della promessa».
È proprio così: ha ragione Valeria Parrella, la scrittrice napoletana che apre il suo ultimo romanzo, Tempo di imparare [Einaudi, 2014, N.d.R.], con questa bella frase. Per capire dove si trova una persona disabile, c’è bisogno di tempo, emozioni, sogni, pazienza, sconfitte. Andare, cadere e ripartire, in un groviglio di sentimenti.
Il tempo di imparare è quello che ci dobbiamo dare per lavorare su noi stessi e cercare di orientarci. Una persona disabile non può essere confusa con la disabilità. La disabilità è un concetto, un’idea, un sostantivo intuitivo che ci aiuta a comprendere appunto a livello intuitivo, ma non va oltre. Dietro ogni disabilità (“intuizione”), ovviamente, c’è una persona; ogni persona ha una sua storia. E nessuna persona è uguale a un’altra. Nessuna storia di vita è uguale ad un’altra. E ogni persona disabile “cresce” dietro qualche lettera della parola disabilità.

Per continuare con le parole di Valeria Parrella, ci vuole un “botanico” per comprendere Arturo, il protagonista del libro. Protagonista anche della vita di tante famiglie che incontriamo ogni giorno. Una sorta di “maieuta socratico”. Il botanico osserva la pianta, la guarda, si allontana, la lascia crescere, la osserva da lontano o da vicino, ma poi a lei ritorna. Dà l’acqua giusta, controlla l’effetto dell’innaffiare, osserva le stagioni e procede con un cauto andare. E come un maieuta socratico cerca di collocare la vita in un mondo non facile, che a volte appare anche estraneo e nemico.
Tempo di imparare racconta la storia di una madre e di un figlio con disabilità, Arturo, il cui nome si scopre solo dopo avere letto tante pagine. Quasi che Arturo inizi a essere una persona indipendente, “altra”, solo dopo che abbiamo cominciato a riconoscerlo. Accanto a lui, una madre e il mondo che gira intorno. L’accettazione iniziale della nascita, il giorno per giorno, le fatiche dell’inserimento scolastico. Insomma, tutte le vicissitudini di un genitore con un figlio disabile.

Disegno dedicato a "Moby Dick"

Il disegno di Paul Lasaine e di Paul e Gaetan Brizzi è uno dei tantissimi dedicati a “Moby Dick”, il capolavoro della narrativa statunitense pubblicato nel 1851 da Herman Melville, citato da Luigi Politano nelle sue riflessioni

Alcuni anni orsono, dopo qualche divagazione letteraria, ho maturato una convinzione: capire l’essere umano, o meglio un singolo essere umano, come ci ha insegnato Herman Melville nel suo straordinario Moby Dick, è un’impresa difficile, praticamente impossibile. Un vero e proprio compito impossibile. Comprendere l’altro è ancora più difficile, se l’altro si trova in una posizione di richiesta d’aiuto, per esempio quella di una persona con disabilità complessa. E per poter agevolare la comprensione dell’altro, non bastano gli studi scientifici. La scrittura, le biografie, le autobiografie e forse soprattutto il racconto e il romanzo possono essere strade, percorsi non lineari, ma tortuosi, per inoltrarsi nel mondo della disabilità, in particolar modo se complessa. La scrittura, il racconto, il romanzo come luoghi attraverso cui cercare una comprensione dell’altro fuori da pregiudizi, stereotipi o simili.

La scrittura, essendo un atto riflessivo che si nutre di virtù come il tempo e la pazienza, ha la bontà di fissare – fermandoli sulla carta per sé e per gli altri – degli eventi della vita, dei momenti particolari, delle situazioni che per qualche motivo sono ritenute rilevanti. Chi scrive lo fa per se stesso, ma anche per comunicare qualcosa verso l’esterno, agli altri. Nella scrittura “di disabilità” è possibile rintracciare tematiche pedagogiche interessanti per chi viene assalito dalle nebbie del dubbio, come l’Ismaele di Melville in Moby Dick. In particolare, per chi naviga ogni giorno nel mare delle relazioni di aiuto, la scrittura non professionale – non scritta da professionisti – permette di ampliare una ricerca forse a volte troppo chiusa nei suoi schemi e nelle sue virtù e di ascoltare tutte le voci per ampliare gli orizzonti, per guardare oltre l’orizzonte. Andare con i professionisti oltre i professionisti.
Il compito impossibile dell’arte dell’educare ci chiede di navigare anche in mare aperto, a vista, raccogliendo le tracce scritte di chi vive in prima persona la disabilità: dal genitore e dal romanziere o narratore che ha fermato il suo sguardo su questo tema. Le tracce, a differenza di quanto altri sono pronti ad affermare, ci sono e non sono poche: chi naviga non si fermi alla superficie.

In conclusione, per utilizzare ancora una volta le parole della scrittrice Parrella, proprio la letteratura in senso ampio è il “botanico” che ci aiuta nel mare magnum della disabilità. La relazione di aiuto è un’arte. E l’arte è fatta di tecnica, ma soprattutto di creatività. Per quanto con il tempo possiamo imparare, non impareremo mai tutto.

Presidente della Comunità Capodarco di Roma.

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