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Non mi piacciono le “gabbie accessoriate”

Stefano Sardelli, "Fuori dalla gabbia" (particolare)

Stefano Sardelli, “Fuori dalla gabbia” (particolare)

C’è chi sostiene che la presenza della disabilità, unita ai pregiudizi e alle discriminazioni sociali che solitamente si associano ad essa, induca le persone disabili a vivere la sessualità in modo completamente differente dalle altre, talmente differente da richiedere interventi e percorsi separati e dedicati. Esisterebbe, insomma, una sorta di “sessualità disabile”, intesa come sessualità delle persone con disabilità, alla quale sarebbe necessario rispondere con prestazioni speciali, diverse da quelle pensate per tutte e tutti.
Possiamo chiamare questo approccio “modello della separazione”.

Personalmente soffro di una specie di riflesso condizionato, e quando qualcuno o qualcuna mi viene a dire che le persone con disabilità devono fare le cose in luoghi separati e con servizi dedicati, a me viene da rispondere «anche no!».
Mi dicono, ad esempio: «Le persone con disabilità dovrebbero studiare in scuole speciali appositamente costruite per loro» e l’«anche no!» parte in automatico. Le persone con disabilità dovrebbero vivere in luoghi e spazi dedicati? «Anche no!». Le persone con disabilità dovrebbero viaggiare su mezzi pubblici diversi da quelli utilizzati dalle altre persone? «Anche no!». Rispondere in questo modo è per me un impulso irresistibile, un po’ come per Roger Rabbit (il goffo coniglio animato del noto film Chi ha incastrato Roger Rabbit) completare il curioso motivetto Ammazza la vecchia col flit.
Perché non mi piacciono i percorsi, i servizi e i luoghi separati? Perché li considero un prerequisito per la segregazione dei soggetti più deboli della società. Una “gabbia accessoriata” per le persone disabili non smette di essere “gabbia” solo perché accessoriata. Forse al suo interno le persone disabili potranno anche trovare qualcuna delle risposte ai propri bisogni, ma quel luogo dedicato e separato impedirà che esse diventino, e siano considerate, parte integrante della società.
Allora bisognerebbe trovare il modo di rispondere ai bisogni senza ghettizzare nessuno e nessuna. E se questo vale in campo educativo, in quello abitativo, in quello dei trasporti pubblici ecc., perché mai non dovrebbe valere in materia di salute sessuale? Le persone con disabilità dovrebbero esprimere la propria sessualità attraverso interventi e percorsi separati e dedicati? «Anche no!», protesta risoluto il “coniglio animato” che è in me.

Tradurre in termini concreti questo modo di pensare vuol dire partire dal presupposto che, pur non negando le differenze e le difficoltà incontrate dalle persone con disabilità in campo sessuale, anche la loro sessualità può essere tranquillamente inquadrata e affrontata nell’àmbito della sessualità umana. Ma se questo è il presupposto, allora i servizi e le prestazioni prospettate da chi sposa questo approccio dovranno essere necessariamente rivolti non alle sole persone con disabilità certificata, ma a qualunque persona si trovi in una situazione di salute sessuale tale da richiedere un dato tipo di intervento. Possiamo chiamare questo approccio “modello dell’inclusione”.
Per capire come sia possibile descrivere la disabilità e la salute senza “categorizzare” le persone, basta consultare l’ICF, la Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute, definita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) nel 2001. Questo strumento non serve a “catalogare” le persone, bensì ad illustrare il loro stato di salute. Con esso l’OMS ha voluto descrivere il funzionamento umano nel suo complesso, non la sola disabilità. Infatti l’ICF è un “modello universale”, capace di includere tutti gli stati di salute degli esseri umani, le caratteristiche personali di questi ultimi e il loro contesto ambientale.
Questo modello non distingue tra persone disabili e non, ma definisce un continuum multidimensionale lungo il quale ci collochiamo tutti e tutte.

Ritornando dunque al tema “sessualità e disabilità”, chi vuole muoversi nel rispetto delle indicazioni dell’OMS poc’anzi accennate, non può distinguere tra una “sessualità delle persone con disabilità” e una “sessualità delle altre persone”, può solo convenire che per tutte le persone esiste un’unica sessualità, ed è quella umana. La circostanza che la sessualità umana si possa esprimere in modi diversi, e che alcune persone (non solo disabili) possano incontrare ostacoli nell’esprimerla, non deve far dimenticare che – in qualunque modo essa si concretizzi – sempre di sessualità umana stiamo parlando.
Ciò, ovviamente, non significa che l’innegabile discriminazione sessuale subita dalle persone disabili, proprio a causa della loro disabilità, non vada riconosciuta e superata (nel momento in cui l’ICF prevede di considerare i fattori ambientali e personali, la loro rilevanza è chiaramente esplicitata), significa invece che se decidiamo di proporre dei servizi o delle prestazioni in questo campo dobbiamo sforzarci di proporre soluzioni inclusive.
Detto ancora più chiaramente: ognuno e ognuna è libero/a di rivendicare tutti i servizi e le prestazioni che ritiene lecite e utili, purché l’intervento venga pensato in relazione alla situazione di salute sessuale riscontrata e non a gruppi di persone “catalogate” in base alle certificazioni di handicap o invalidità. Pertanto, se, ad esempio, si vuole promuovere un servizio di “assistenza sessuale”, questo andrà rivolto a chiunque abbia un certo tipo di difficoltà sessuale. In questo modo, se il servizio verrà attivato, anche le persone con disabilità che dovessero averne bisogno potranno fruirne, ma, non trattandosi di un servizio separato e dedicato, esse saranno maggiormente tutelate dal rischio di segregazione.

È importante, infine, considerare il diverso impatto che i due modelli – quello della “separazione” e quello dell’“inclusione” – potrebbero avere in àmbito relazionale e culturale. Infatti, se già adesso molte persone con disabilità incontrano delle difficoltà a intraprendere e a mantenere relazioni intime (sessuali e/o affettive), dobbiamo chiederci cosa succederebbe se davvero dovesse passare il messaggio che la loro sessualità è così diversa da richiedere una categoria a sé stante e servizi speciali.
Io credo che se le persone disabili riterranno di proporsi e presentarsi come “diverse”, allora dovranno anche mettere in conto che questa scelta comunicativa potrebbe indurre molti e molte a trattarle da “diverse”. Che a questo tipo di comunicazione, infatti, consegua tale esito è abbastanza scontato. Se invece, pur non negando le differenze, esse sceglieranno di sottolineare la loro comune appartenenza al genere umano, anche le persone con le quali si relazioneranno saranno invogliate ad accoglierle come simili.
Quella “logica di separazione”, che nelle (buone) intenzioni di chi la promuove dovrebbe portare al vantaggio immediato di ottenere servizi e prestazioni esclusive, si rivela a mio parere un boomerang sotto il profilo relazionale e culturale. Vale la pena di esporsi a un contraccolpo simile?
In ossequio al motto Nulla su di Noi senza di Noi, scelto dal movimento mondiale delle persone con disabilità, possiamo convenire che solo queste ultime sono legittimate a decidere in merito. Agli altri e alle altre non resta che attendere l’importante responso, e rispettarlo. “Conigli animati”, permettendo…

Componente del Coordinamento del Gruppo Donne UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare). Il presente testo (titolo originale “Proporsi come persone speciali oppure no, questo è il problema”) fa parte di un più ampio servizio pubblicato dal Gruppo Donne UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare), intitolato “Un’idea inclusiva di sessualità” e curato dalla stessa Simona Lancioni. Viene qui ripreso, con minimi riadattamenti al diverso contesto, per gentile concessione.

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