Non è solo un problema di “diritti che costano”

«Il progetto delle Case Famiglia di Roma – scrive Fausto Giancaterina – è sostanzialmente immutato dal 1996 e sembra oggi faticare molto a rispettare quotidianamente due fondamentali requisiti: buona qualità del benessere delle persone e sostenibilità del sistema gestionale. Ma se ci si limita a ripetere che “i diritti costano!”, si rischia di far credere che il problema sia unicamente economico, lasciando immutate le criticità dell’attuale sistema, e aggravandone così i tratti più negativi»

Ingresso della Casa Famiglia di Villa Glori a Roma

Una Casa Famiglia di Roma

Da un po’ di tempo, quando si parla di Case Famiglia per persone con disabilità a Roma, sento ripetere con una certa enfasi: «I diritti costano!». Si tratta di un chiaro e imperativo messaggio rivolto a chi ha il dovere di allargare i cordoni della borsa, ma che in realtà non lo fa, non permettendo – si dice – di dare stabilità e sicurezza ai diritti delle persone con disabilità, ma anche a tutti coloro che sono impegnati nel Progetto Residenzialità di Roma.
Quest’ultimo – avviato nel 1996 – ha raggiunto il numero di oltre 54 Case Famiglia, ma dal 2009 – praticamente – è fermo, poiché da allora non ne è stata aperta più nessuna. In termini di paragone, Torino, nel 2012, aveva 360 Case Famiglia.
Per quanto poi riguarda i costi (retta pro-capite a totale carico del Comune di Roma):
1996: strutture a media intensità assistenziale 160.000 (= 82,63 euro); strutture ad alta intensità assistenziale: 210.000 lire (= 108,46 euro).
2015: strutture a media intensità assistenziale: 105,11 euro; strutture ad alta intensità assistenziale: 144,15 euro.

La situazione
Il progetto di Case Famiglia a Roma è rimasto sostanzialmente immutato per tutto questo tempo e attualmente sembra che faccia molta fatica a rispettare quotidianamente due fondamentali requisiti: buona qualità del benessere delle persone e sostenibilità del sistema gestionale. Non riesce cioè a trovare quel «ragionevole accomodamento» – come da Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità – tra qualità, sostenibilità e avvio di nuove opportunità di habitat sociale per chi da anni attende l’esigibilità di questo diritto (ripeto: dal 2009 – praticamente – a Roma non è stata aperta nessuna nuova Casa Famiglia).
Ma se il messaggio che viene ripetuto in modo perentorio e secco è che «i diritti costano!», si rischia di far credere che il problema sia unicamente economico, si rischia di fossilizzarsi su una richiesta di aumento delle risorse, lasciando praticamente immutate le criticità dell’attuale sistema, e aggravandone così i tratti più negativi.
«Quanto più amministratori e tecnici cedono alla fascinazione di questi abbagli (che tutto dipenda dalle risorse economiche, oppure dall’attesa dell’idea salvifica), tanto più la conseguenza a cui si espongono è quella di trovarsi schiacciati in una condizione di immobilismo (Non si può fare niente!) oppure di ripiegare verso scelte unicamente riparative» (Cristiano Gori, Valentina Ghetti, Giselda Rusmini e Rosemarie Tidoli, Il welfare sociale in Italia. Realtà e prospettive, Roma, Carocci, 2014, p. 270).
Mettere dunque in moto un esclusivo meccanismo di progressivo aumento dei costi – è bene ripeterlo – rende tutto più difficile nel produrre significativi cambiamenti nella vita delle persone, nella sostenibilità e nella generalizzazione del modello “Case Famiglia”. Una regressione preoccupante, del resto, sta già accadendo in altre Regioni, che hanno drasticamente abolito questo modello di convivenza familiare in favore di residenze con gruppi fino a venti persone.

Una questione prima di tutto strutturale e gestionale
Occorre essere più decisi e convincenti nelle proposte da fare all’Amministrazione Pubblica e richiedere prioritariamente – o almeno contestualmente alle varie analisi e proposte di adeguamento dei costi – la messa in campo di un’immediata e robusta revisione e manutenzione del sistema strutturale e gestionale.
Al momento attuale, infatti, cresce la spesa, ma non la qualità della vita! Una buona metà delle 340 persone residenti nelle Case Famiglia di Roma sono a carico totale delle Case Famiglia stesse, vale a dire che non frequentano Centri di Riabilitazione o Centri Socio-Educativi. Gli altri frequentano tali strutture alcuni per cinque giorni alla settimana, altri da uno a tre giorni alla settimana.
Il rischio, quindi, è lo scivolamento verso un sistema assistenziale passivizzante, con buon accudimento, forse, ma assai poco adatto a promuovere e a garantire il diritto all’autonomia e all’inclusione sociale. Ma lo scivolamento verso una rassegnata e camuffata istituzionalizzazione non può essere accettato e soprattutto non può essere accompagnato dall’alibi che tanto le persone con disabilità complessa non sono suscettibili di miglioramento e di cambiamento.
No, quindi, al “mini-istituto camuffato da Casa Famiglia” e no a programmi che di fatto possono diventare totalizzanti oltre che esponenzialmente costosi!

Una proposta forte e coraggiosa
A parere di chi scrive, serve la progettazione di una filiera di sostegno coerente ed efficace, che renda attuabile, con il mutare delle esigenze, delle potenzialità e delle difficoltà della persona, tutte le variazioni necessarie per garantire l’accesso a ogni opportunità di benessere (e quindi anche all’abitare in contesti di normalità), permettendo il raggiungimento del livello più alto possibile di “bene-essere”, di inclusione sociale e lavorativa. In una parola: di esercitare pienamente il diritto di cittadinanza (Costituzione Italiana – Convenzione ONU).
Si tratta, pertanto, di attivare – subito – proposte coraggiose, ovvero:
– un ragionevole studio per proporre modelli sostenibili e diversificati (non sono le persone a doversi adeguare alla struttura, ma la struttura a doversi adeguarsi alle persone);
– un programma annuale di apertura di nuove Case Famiglia, per dare il diritto alla residenza a chi è in difficoltà e aspetta da anni, visto che – come già detto – il Progetto Residenzialità è praticamente fermo da anni.

Piste di lavoro
1. Azioni politiche congiunte:
° Revisione in ottica sociosanitaria della Legge Regionale del Lazio 41/03 [“Norme in materia di autorizazione all’apertura ed al funzionamento di strutture che prestano servizi socio-assistenziali”, N.d.R.], in particolare nella parte riguardante le disabilità (in attuazione dell’articolo 3 septies del Decreto Legislativo 229/99).
In attesa, poi, di revisione della normativa, stipula di accordo tra Regione (ASL) e Comuni sul rispetto delle leggi che obbligano l’attuazione dell’integrazione sociosanitaria (ad esempio avviando una prima sperimentazione a Roma).
° Attuazione del servizio unico sociosanitario distrettuale da inserire organicamente nelle “Case della Salute”: deve svolgere il compito di Punto Unico di Accesso e di Unità Valutativa Multidimensionale per la definizione dei progetti di vita personalizzati su base sociosanitaria.
In attesa, attivare, sul modello operativo del “budget di salute” (articolo 51 della Proposta di Legge della Regione Lazio regionale sul sistema integrato dei servizi) un accordo/convenzione tra ASL e Amministrazione Comunale di Roma su:
– valutazione multidimensionale (scheda S.Va.M.Di.) e co/costruzione da parte di tutti gli attori di progetti di vita personalizzati, valutazione e revisione periodica degli stessi;
– riconoscimento a Roma del principio della responsabilità prevalente sui progetti di vita e sulla gestione delle residenze, in quanto Ente Pubblico costituzionalmente preposto a garantire i diritti delle persone con disabilità e a garantire l’attuazione della Convenzione ONU.

2. Modelli di residenzialità:
° Diversificazione ulteriore degli attuali modelli, partendo dalla necessità di renderli il più possibile adeguati ai progetti di vita personalizzati.
° Sperimentare comunità familiari che ospitino fino a un massimo di quattro soggetti, rispondendo agli stessi bisogni individuati per le Case Famiglia e differenziandovisi perché l’asse educativo ruota attorno alla presenza stabile di una coppia.
° Sperimentare affidamenti familiari singoli.
° Sperimentare tipologie di strutture analoghe a residence, per dare sostegno a genitori anziani con figli disabili e mantenere unito, se richiesto, il nucleo familiare.
° Sperimentare “convivenze assistite”: piccoli-medi nuclei di convivenza autogestita o a bassa presenza assistenziale di operatori, facenti capo a un’équipe territoriale socio-sanitaria di riferimento; risorse da ricercare con la messa in comune delle risorse personali, sia economiche, sia di ore di assistenza personale o domiciliare (SAISH-Servizio per l’Autonomia e l’Integrazione Sociale della Persona Disabile).
° Adottare l’obbligo di attivare strutture diurne, gestite dallo stesso organismo accreditato per la Casa Famiglia o in accordo con organismi gestori della stesso territorio corrispondente a quello dell’ASL. Queste strutture richiedono l’obbligo di una programmazione di uscita quotidiana e sistematica dalla Casa Famiglia. Attuano inoltre programmi per promuovere autonomia e inclusione sociale (dal lavoro, all’inclusione sociale, alle attività sportive, ricreative ecc.). E ancora, accolgono altre persone con o senza disabilità. Interagiscono infine con la comunità locale dove hanno sede, organizzando programmi che facilitino la partecipazione della comunità stessa, nelle molteplici espressioni di gruppi organizzati, associazioni di volontariato, parrocchie ecc. Tutto questo, e molte altre geniali idee, potranno certamente aiutare a superare il pericolo di uno scivolamento silenzioso della Casa Famiglia in mera struttura assistenziale e aiuteranno gli operatori con opportunità creative a diversificare la loro stessa operatività, riducendo il più possibile la ripetitività, rinforzando la motivazione e il senso del loro lavoro.
° Regolamentare l’utilizzo sistematico e più ampio possibile di persone del volontariato nelle Case Famiglia, nell’ottica di promuovere relazioni positive allargate, ma anche di provvedere all’alleggerimento dei costi.

In conclusione
Con forza esigiamo di avviare un processo di manutenzione dell’attuale Progetto Residenzialità di Roma, per richiamare l’attenzione sulle esigenze delle persone che fanno fatica a tenere il passo, ma anche dei professionisti, per sostenerli nel dare senso al loro lavoro, per restituire loro una soddisfazione operativa che non li faccia stritolare dalla routine quotidiana o non li faccia cadere nel più cupo burn out!
«Manutenzione – ha scritto Andrea Canevaro – come capacità di stare, anche invisibili, nell’imperfetto perfettibile. La compagnia dell’imperfetto esige mediatori, umani e materiali, per formare continuamente una rete, da percorrere, da rattoppare quando si strappa, da rinforzare sapendo “fare nodo”, sapendo scomparire nell’intreccio, e riapparire per proseguire».

Già dirigente dell’Unità Operativa Disabilità e Salute Mentale del Comune di Roma. Oggi consulente dell’Opera Don Calabria di Roma.

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