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Così possiamo garantire il diritto al lavoro per i nostri figli

Persone con disabilità intellettiva al lavoro

Persone con disabilità intellettiva al lavoro

Nell’articolo intitolato Non è l’isola di Peter Pan, pubblicato il 22 gennaio scorso da «Superando.it», Rosa Mauro, mamma di Giovanni, giovane affetto da autismo, lamentava la mancanza di attenzioni e di opportunità inclusive nella nostra società nei confronti di chi ha questo tipo di disabilità.
Anch’io sono mamma di un ragazzo ormai trentacinquenne con handicap intellettivo e coordino un’Associazione di genitori di figli con disabilità, che ha l’obiettivo di tutelare e sollecitare il rispetto del diritto al lavoro per tutte le persone che, nonostante il loro handicap, hanno capacità lavorative, ancorché limitate, ma comunque spendibili nel mondo del lavoro.

Ciò che lamentava la signora Mauro non è circoscritto al solo autismo (che io non conosco approfonditamente), ma è comune a tutti i tipi di handicap, soprattutto intellettivi. Sono quelli che fanno più paura alle persone (e soprattutto alle aziende), perché non li si conosce, perché si pensa che possano manifestarsi con comportamenti destabilizzanti cui non si è in grado – e soprattutto non si ha voglia – di far fronte e quindi si preferisce rifiutarli tout court.
Ciò è senz’altro vero per molte persone il cui handicap è particolarmente grave, ma non lo è per chi ha un handicap lieve o che può diventare lieve, se compensato da un contesto che sa accogliere: quante persone ho visto in questi anni che erano stati dichiarate incollocabili a una prima sommaria valutazione e che poi hanno trovato una loro collocazione lavorativa, idonea alle loro capacità, in un ambiente che ha saputo valorizzarle e renderle perfettamente produttive e integrate e felici!
Tutto ciò mi fa dire che non è un’utopia o un sogno di noi mamme pensare che si possa fare, ma credo anche che non si arrivi a nulla, se ci facciamo prendere dal pessimismo, dalla rassegnazione, dal vittimismo. Per ottenere un diritto, occorre sempre combattere, anche se crediamo che certi diritti siano ormai acquisiti e possiamo dormire sonni tranquilli. Non è così: non bastano le leggi dello stato, i trattati internazionali, le convenzioni sui diritti delle persone con disabilità. Ognuno nel suo piccolo, forte di tutti i contorni legislativi, deve chiederne e pretenderne il rispetto e l’attuazione concreta e non mollare finché non la si ottiene. Ma dobbiamo avere prima di tutto noi genitori (o noi associazioni), che siamo i “primi sindacalisti” dei nostri figli, le idee ben chiare sugli obiettivi che vogliamo raggiungere, sugli strumenti che servono per raggiungerli e a chi dobbiamo chiederli.

È operando in questo modo che fin dagli Anni Ottanta molte associazioni di familiari di persone con disabilità intellettiva di Torino e Provincia si sono unite in un coordinamento per portare avanti tutte insieme (l’unione fa la forza) le loro rivendicazioni, per una sempre migliore qualità della vita dei propri figli e conseguentemente anche della loro.
Ad esempio, sul fronte lavorativo avevamo capito che molti ragazzi e ragazze inserite nei Centri Diurni per disabili intellettivi avevano delle capacità e delle potenzialità che in quel contesto non potevano migliorare e portare a quell’autonomia, anche economica, a cui tutti hanno diritto se la disabilità di cui sono portatori lo consente. Abbiamo quindi iniziato a chiedere al Comune di Torino, competente allora in tema di assistenza per le persone con disabilità e di formazione professionale per le persone normodotate, di istituire – all’interno dei Centri di Formazione Professionale – dei corsi mirati a dare delle competenze lavorative anche ai giovani con una lieve disabilità intellettiva che non avevano le capacità di seguire i normali corsi di formazione professionale riservati ai giovani normodotati: sono nati così i corsi prelavorativi, che avevano – e hanno tuttora – come obiettivo primario quello di verificare sul campo, e non solo teoricamente, le reali capacità e potenzialità dei ragazzi inseriti, attraverso momenti di lavoro in aula e di rinforzo di competenze sempre più elevate, ma soprattutto attraverso lunghi percorsi di tirocinio in aziende vere.
Ciò che adesso è una prassi consolidata per qualsiasi giovane è nata proprio per verificare la tenuta lavorativa di queste persone, per dar loro una chance di mettersi alla prova, agli operatori di capire come aiutarli al meglio e alle famiglie cosa nel futuro avrebbero potuto aspettarsi e dovuto chiedere.
A questi corsi se ne sono aggiunti negli anni altri con obiettivi più professionalizzanti: aiuto segreteria, addetto alla grande distribuzione, addetti alla ristorazione, settori in cui meglio i nostri ragazzi riescono ad esprimere le loro potenzialità.

È proprio da una corretta analisi e valutazione delle reali potenzialità dei ragazzi con handicap intellettivo – o in questo caso con autismo – che occorre partire per impostare un progetto di vita che abbia qualche possibilità di concretizzarsi come l’abbiamo pensato. Il cammino verso l’autonomia e la piena integrazione sociale – di cui il lavoro è una parte importante ma non la sola – è lungo e tortuoso, con momenti soddisfacenti, ma anche con regressioni frustranti: può durare anni e talvolta non finisce mai. Ma bisogna provarci ed è giusto e doveroso che la società ci dia tutti gli strumenti per capire quali sono le loro capacità, aiutarli a potenziarle e accompagnarli alla fine di questo percorso formativo o verso la conquista del lavoro (se vi sono le condizioni oggettive) o verso altre soluzioni che siano comunque soddisfacenti e rispondano alle reali esigenze della persona e al suo diritto a vivere una vita piena e integrata nel tessuto sociale.
Il fatto di entrare in un percorso assistenziale invece che lavorativo non dev’essere visto come una sconfitta, se quello è il percorso più idoneo per la persona: quante persone ho visto rifiorire ed essere più tranquille e felici in un ambiente che non chiedeva loro cose che non potevano dare!
Ma ho anche visto tanti giovani rifiorire quando hanno conquistato il tanto sospirato lavoro dopo anni e anni di formazione, di tirocini, di borse lavoro, di frustrazioni. Tutte cose che comunque li hanno aiutati a crescere, tutte esperienze da non rinnegare, ma da utilizzare per diventare migliori.

Per tornare al tema del lavoro, in Italia abbiamo una buona legge che in teoria dovrebbe tutelare le persone con disabilità, sia nel loro diritto a una piena integrazione nel mondo produttivo normale, sia nel loro diritto ad avere un lavoro mirato alle loro capacità [Legge 68/99, N.d.R.]. Ma anche questa legge da sola non garantisce l’esigibilità del diritto e quindi, nostro compito all’interno dei vari territori, è quello di controllare e pretendere che vengano messe in atto tutte le soluzioni atte a garantire l’attuazione della legge stessa e soprattutto la tutela dei “più deboli tra i deboli”, come sono per l’appunto le persone con una disabilità intellettiva.
Sono le Regioni, nel loro ruolo programmatorio, che devono deliberare soluzioni che garantiscano ciò che la legge impone: il Fondo Regionale Disabili, ad esempio, dev’essere lo strumento principe per poter fare un collocamento di qualità, ma anche i Fondi Europei possono essere fonte di finanziamenti per progetti di integrazione delle persone con disabilità. Chi controlla all’interno dei vari territori che ciò avvenga effettivamente? Che anche chi ha una disabilità più complessa possa trovare le giuste risposte alla sua giusta domanda di lavoro? Questo dovrebbe essere il compito delle associazioni: programmare insieme agli Enti progetti che diano opportunità di formazione e di inserimento lavorativo delle persone disabili e controllare che ciò avvenga e che siano in numero sufficiente per rispondere alle esigenze dell’utenza.

In Regione Piemonte, sono anni che lavoriamo così per quanto riguarda la disabilità intellettiva, perché molte associazioni hanno optato non per gestire dei servizi, ma esclusivamente per seguire la tutela del diritto al lavoro. I risultati si sono visti soprattutto negli anni passati in cui ancora la crisi non aveva fatto scempio di posti di lavoro disponibili. Ora tutto è più difficile anche per i nostri ragazzi con disabilità intellettiva: infatti, molte aziende che avevano sottoscritto una la convenzione con le Province per assumere anche persone con disabilità intellettiva hanno in corso procedure di mobilità e quindi non sono più soggette all’obbligo di assunzione e nemmeno possono essere sede di tirocinio.
Dal canto suo, la Pubblica Amministrazione, che dovrebbe essere la prima in regola con la Legge 68/99, ha utilizzato in questi anni la spending review come scusa per non assumere: fortunatamente la Legge 125/13 ha superato tale strumentalità [se ne legga ampiamente anche nel nostro giornale, N.d.R.], obbligando la Pubblica Amministrazione stessa ad assumere personale disabile a tempo indeterminato, in deroga al blocco delle assunzioni e anche in caso di soprannumerarietà. Adesso devono entrare in gioco le associazioni di tutela perché sono convinta che senza una pressante sollecitazione dal basso le Pubbliche Amministrazioni non si muoveranno autonomamente per adempiere ai loro obblighi.
La Regione Piemonte, da anni inadempiente su questo fronte, ha capitolato e anche a seguito del pressing che in questi anni abbiamo portato avanti, ha stipulato la convenzione per la copertura (ahimè, in dieci anni) dei posti a cui è obbligata: altra nostra vittoria è l’impegno a non assumere solo persone con disabilità fisica (i più “appetibili”), ma anche persone con disabilità intellettiva.

L’attuale periodo di crisi non deve farci abbassare la guardia, anzi. Dovremo continuare la nostra opera di sensibilizzazione verso le imprese su ciò che i nostri ragazzi sono in grado di fare e di stimolo alle Istituzioni, soprattutto alla nuova agenzia che dovrà gestire il collocamento dopo l’abolizione delle Province, affinché ci aiuti in questo percorso e non rischiamo di perdere tutto ciò che faticosamente abbiamo conquistato in questi anni. È un lavoro lungo, di pazienza e conoscenza delle leggi e degli strumenti che abbiamo a disposizione, di conoscenze e alleanze, ma è un lavoro che dobbiamo fare come associazioni di genitori.
Queste sono le azioni che, a mio avviso, bisogna intraprendere affinché, come auspica Rosa Mauro, le parole non restino cose riempite di nulla. Il mondo dell’autismo lo conoscete bene voi genitori e quindi nessuno meglio di voi può essere “sindacalista dei vostri figli” e pretendere l’attenzione e il rispetto dei diritti: diritto al lavoro se ci sono le condizioni o, in caso contrario, diritto ad un’assistenza a loro misura.

Coordinatrice del GGL (Gruppo Genitori per il Diritto al Lavoro delle Persone con Handicap Intellettivo) di Torino (emanuela.buffa@tiscali.it).

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