Persone e basta, senza aggettivi

«Possiamo vedere – scrive Silvia Lisena, riflettendo sullo spettacolo teatrale “Amalia e basta” – che oltre alla protesi, oltre alla sedia a rotelle, oltre al cane-guida, oltre agli altri ausili, ci siamo noi. Noi come Persone. Noi e basta. Noi che siamo, inevitabilmente, diversi dagli altri, così come gli altri sono diversi tra loro. Comprendendo che, alla fine, la vera diversità è legata al nostro essere, e che essa rappresenta noi e la nostra unicità. Non un limite, bensì un punto di forza»

Silvia Zoffoli in una scena di "Amalia e basta"

Silvia Zoffoli in una scena di “Amalia e basta”

Dopo avere letto più volte, anche su queste pagine, dello spettacolo di Silvia Zoffoli Amalia e basta, mi è scattata la curiosità di vederlo, ed è ciò che ho fatto recentemente, al Teatro Fontana di Milano, invitando due amiche ad accompagnarmi.
Prima di tutto, per altro, vorrei spendere due parole per elogiare la cortesia e la disponibilità del responsabile della biglietteria, Umberto Biscaglia, che ci ha accolto e portato ai nostri posti, e l’accessibilità del Teatro Fontana, provvisto di ascensore per scendere al piano della biglietteria e di rampa per accedere alla platea.

Pochi minuti dopo esserci sedute, mentre gli altri spettatori stavano ancora arrivando, Silvia Zoffoli era già sul palco nei panni della protagonista.
Comincia lo spettacolo e la storia di Amalia, hostess in un museo e appassionata di arte, pian piano diventa anche la nostra, quando, a un certo punto, viene svelata la sua disabilità, la sordità, che entra in scena così, d’improvviso, impetuosa, di fronte alla difficoltà di comunicare con gli altri.
Cambia la voce, e qui si vede tutta la bravura della Zoffoli, che riesce perfettamente ad alternare la parlata sciolta, diretta e libera dei pensieri di Amalia, che fluiscono e si rivolgono allo spettatore in una sorta di monologo interiore, e la parlata lenta che Amalia è costretta ad utilizzare a causa della sordità, quando interagisce con gli altri personaggi (interpretati tutti in scena dalla stessa Zoffoli).
La protagonista rievoca la sua vita, i suoi momenti felici nell’amicizia con Chiara, ma anche i problemi che sorgono con l’adolescenza, quando si vergogna della protesi che porta e che cerca ostinatamente di nascondere tenendo i capelli sciolti – anche qui ho notato la bravura della protagonista a far conciliare l’alternanza tra passato e presente attraverso l’uso dei capelli -: evita di andare nei luoghi rumorosi, sfugge agli appuntamenti, tutto per non rivelare la sua debolezza che la rende diversa dai suoi coetanei. La questione di fondo, infatti, consiste nel riuscire a trovare qualcuno che la accetti per come è. E com’è Amalia? Chi è Amalia?

Personalmente ritengo che Amalia possa benissimo incarnare molte persone con disabilità – indipendentemente da quale essa sia – che incontrano, prima o poi nella loro vita, questa crisi. Che le spinge ad assumere un atteggiamento, per certi versi, paradossale: cercano l’omologazione, pur essendo arrivate alla consapevolezza della loro diversità. E la cercano, ancor più paradossalmente, tra gli altri “diversi”, a partire da chi condivide lo stesso handicap, fino ad arrivare a chi condivide una situazione di disagio non relativa a un handicap.
Come se la diversità fosse, appunto, uno di quei “segni particolari” che compaiono sulla carta d’identità. “Segni particolari: non udente/non deambulante/non vedente”, con quella particella di negazione che rappresenta già a priori un limite. E la soluzione, quindi, potrebbe essere quella di unirsi ad altre persone che sono anch’esse marcate dal “non”: perché la matematica insegna che meno per meno fa più, e il “più” è la normalità, l’uguaglianza.
Mi è poi venuto in mente che in fondo come soffre una persona con disabilità, soffrono anche le persone che si sentono diverse per altre ragioni, ad esempio i figli di genitori divorziati o tutti coloro che per qualche ragione si sentono “diversi”. Ma la disabilità, che è correlata alla diversità, è e può mai essere considerata solo un limite o una condizione di sofferenza? Deve per forza inserirsi, in modo ostinato, affannato, quasi disperato, in qualcosa d’altro?
La crisi d’identità di Amalia diventa sempre più angosciante, fino a quando la ragazza arriva a un’importante consapevolezza, smettendo di cercare un aggettivo che la descriva perché c’è e ci può essere soltanto un sostantivo: Amalia. Lei è Amalia. Amalia e basta.

Il messaggio dello spettacolo non riguarda affatto solo la disabilità: questo dare valore alla persona al di là degli aggettivi, questo arrivare ad “accettarsi per quello che si è”, vale per tutti, è universale. E tuttavia, a me personalmente ha acceso una nuova consapevolezza: la disabilità è una condizione di vita. C’è, esiste, ed è inutile nasconderla o, in alcuni casi, minimizzarla. La disabilità può provocare, talvolta, una situazione di sofferenza per svariati motivi, così come può costituire, spesso, un limite più o meno grande.
La disabilità, inevitabilmente, sottolinea una condizione di diversità, che non cambia. Ciò che può e che dovrebbe cambiare è il modo in cui noi la vediamo. Ogni giorno possiamo decidere di vederla come qualcosa che crea sofferenza, timore, diffidenza, vergogna, senza mai accettarla veramente, agognando un’apparente uguaglianza. Oppure possiamo vedere che oltre alla protesi, oltre alla sedia a rotelle, oltre al cane-guida, oltre agli altri ausili, ci siamo noi. Noi come Persone. Noi e basta. Proprio come Amalia. Noi che siamo, inevitabilmente, diversi dagli altri, così come gli altri sono diversi tra loro. Comprendendo che, alla fine, la vera diversità è legata al nostro essere. È quasi normalità. E non è affatto una cosa negativa: anzi, rappresenta noi e la nostra unicità. Non è un limite, bensì un punto di forza.

La presente riflessione di Silvia Lisena è già apparsa nel sito del Gruppo Donne UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare), con il titolo “‘Amalia e basta’: il trionfo della diversità com,e unicità” e viene qui ripresa, con alcuni riadattamenti al diverso contesto, per gentile concessione.

Amalia e basta
«Un soggetto intrigante e poco frequentato (l’ipoacusia), sviluppato con toni di verità e una partecipazione emotiva che rivela una sorprendente, simpatetica contiguità col tema trattato, attraverso un’apprezzabile modulazione dei diversi registri verbali»: sono parole dei componenti di una delle giurie che hanno finora premiato lo spettacolo teatrale Amalia e basta, scritto, diretto e interpretato da Silvia Zoffoli e prodotto dall’Associazione Culturale Falesia Attiva, classificatosi secondo, ad esempio, al premio per la drammaturgia Teatro e Disabilità del 2011, vincitore, nel 2012, sia nella categoria dei monologhi a Sipario-Autori Italiani, sia tra i testi teatrali a InediTO Colline di Torino e più recentemente trionfatore anche nell’àmbito di OFFerta Creativa 2014, progetto della Regione Emilia-Romagna a cura di Teatrinrete (Teatro delle Temperie, Teatro dell’Argine e Compagnia Gli Incauti).
Amalia, protagonista della storia, lavora come hostess di museo e una giornata in cui le sembra che il tempo non passi mai diventa l’occasione per ripercorrere le tappe fondamentali della sua vita, quelle cioè di una giovane come tante, che però è sorda dalla nascita. Ed è con la sua disabilità “invisibile” – diversità con cui confrontarsi sia rispetto agli udenti, sia rispetto agli altri sordi – che Amalia si misura, facendo emergere vari risvolti, talora tragicomici, e riuscendo infine ad accettarsi appunto come “Amalia e basta”.
«Rispetto alla sordità – ha dichiarato Silvia Zoffoli, della quale il nostro giornale ha recentemente pubblicato un’ampia intervista – oggi c’è ancora molta ignoranza: nell’uso comune, ad esempio, resiste non di rado l’utilizzo del termine “sordomuto” per indicare chi, invece, è semplicemente sordo. In realtà la disabilità uditiva è complessa, declinata in differenti forme, modi ed esistenze. Questo testo nasce da un intenso percorso di ricerca, in cui il mio unico criterio guida è stato mettermi in ascolto empatico di molte storie e persone, le più diverse fra loro. Probabilmente in Amalia c’è un po’ di ognuna di esse. Io non posso definirmi un’esperta di sordità né faccio teatro “per sordi”: ho semplicemente sentito la necessità di raccontare, attraverso il teatro, un personaggio che stimoli il pubblico a conoscere una realtà più vicina di quanto si possa immaginare e quello che ho voluto sottolineare è il valore dell’unicità della persona, che non è riducibile a un solo “aggettivo”». (S.B.)

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