Autismo: puntare sulla vita e non sulla sopravvivenza

«Una persona con autismo – scrive Rosa Mauro – non può e non deve rimanere “figlio per tutta la vita”, deve avere la possibilità di crescere, di scegliere di rimanere nella propria casa, con l’aiuto necessario, qualunque sia il suo specifico disturbo. E contro la pericolosa tendenza all’abuso di farmaci, dobbiamo sempre ricordarci di puntare sulla vita e non sulla sopravvivenza, tramite studi e obiettivi che aiutino il cammino individuale delle persone con autismo»

Giovane adulto con autismo

Un giovane adulto con autismo

Tempi “strani”, questi, per chi soffre di disturbi dello spettro autistico e per chi se ne occupa in prima persona. Non si è mai parlato tanto di questo argomento, come ora, eppure ciò non sta portando i risultati sperati, dalla Legge sull’autismo ad altri aspetti che, lo confesso, mi stanno molto a cuore, data l’età di mio figlio [persona con autismo, N.d.R.].
Penso alle terapie per l’autismo soprattutto in età adulta, terapie che dovrebbero condurre all’inclusione sociale e a una qualità di vita soddisfacente per le persone che vivono una tale condizione: sembra invece che si passi da una prassi riabilitativa, sia pure “a macchia di leopardo”, a un confinamento in strutture volonterose – a volte – ma prive di una finalità reale e di obiettivi certi.
Il segnale di un mutamento in peggio della “terapizzazione” dell’autismo è nell’aumento progressivo della “farmacologizzazione”, praticata non solo nei Centri Diurni e Residenziali, ma suggerita anche come rimedio definitivo per le famiglie, a fronte di un aumento comprensibile dell’ansia e dell’aggressività nell’adolescenza e nella maturità.
Mentre nei bambini e nei ragazzi si tenta di applicare sistemi alternativi, quali la comunicazione aumentativa, negli adulti quasi ci si rassegna a coprire i sintomi del disagio neurodiverso con farmaci che spesso peggiorano sensibilmente la qualità della vita degli individui.
Sembra quasi una sostituzione del bisogno dell’individuo autistico con i bisogni di chi li assiste, come ha scritto acutamente su queste stesse pagine Gianfranco Vitale, sull’abuso di farmaci presente nei Centri Diurni e Residenziali.
Questo atteggiamento può finanche apparire comprensibile: come genitore di un ragazzo quasi adulto, mi rendo conto infatti che gestire le crisi di rabbia è pesante e ai limiti della sopportazione. E tuttavia siamo davanti a un approccio non corretto, perché ci fa dimenticare la necessità della persona con autismo di esprimersi e di vivere una vita soddisfacente, compatibilmente con la sua particolare neurodiversità.
In parole povere, quello su cui dobbiamo puntare è la vita e non la sopravvivenza, e questa sarebbe garantita da studi e obiettivi che aiutassero il cammino individuale delle persone con autismo.

Come splendidamente spiegato nel libro di Temple Grandin e Richard Panek Il cervello autistico. Pensare oltre lo spettro, tutti conosciamo i punti di debolezza di molte forme di autismo, ma non ne conosciamo i punti di forza.
È importante che si conoscano le difficoltà di gestione di un adolescente o di un uomo con autismo, in particolare non verbale, perché in questo modo non si lasceranno sole le famiglie nella gestione di questo compito. Ed è altrettanto importante che ci si ricordi sempre che ci troviamo in presenza di un essere umano, non sacrificabile ai sedicenti interessi scientifici, né alle necessità di un personale non sufficiente e troppo spesso non preparato.
Gli operatori che si occupano di autismo all’interno dei Centri Diurni e Residenziali devono essere formati a gestire le situazioni di emergenza e devono essere in numero sufficiente per riuscire a farlo. Inoltre, tali strutture devono possedere risorse studiate appositamente per stimolare e rasserenare chi vi risiede; non devono e non possono divenire “comodi lager, in cui rinchiudere coloro che secondo molti non si conformano al nostro standard neurotipico.
Si tratta di studiare necessari compromessi tra il nostro mondo e il loro, e questo certo può prevedere spazi diversificati, per esempio con un minore contenuto sensoriale o che tengano conto delle loro specifiche esigenze. E occorre fornire fondi alle famiglie perché ottengano un aiuto qualificato, nel rispetto della persona con autismo, delle sue esigenze e del suo mondo interiore.

Una persona con autismo non può e non deve rimanere “figlio per tutta la vita”, deve avere la possibilità di crescere, di scegliere di rimanere nella propria casa, con l’aiuto necessario. E ciò qualunque sia la specificità dell’autismo: verbale, non verbale, soggetto ad attacchi di ansia o orientato verso il DOC [Disturbo Ossessivo Compulsivo, N.d.R.].
Come fare, per esempio, con le persone non verbali? Mi rendo conto che potrei attirarmi le ire degli animalisti, ma è strano che gli animali, anche loro non verbali, trovino tanti più difensori rispetto ai ragazzi con autismo che non usano le parole. Ci sono studi che si affannano a spiegarci l’intelligenza dei cani, dei gatti, delle balene e degli elefanti. E anch’io li apprezzo: solo che non riesco a comprendere perché questo non spinga molte più persone a proteggere, difendere, aiutare coloro – come i nostri figli – che non si esprimono attraverso la comunicazione verbale.
Vi sono leggi per tutelare gli animali e gli abusi su di loro, e in proporzione vi sono molte più denunce per maltrattamento di animali che per maltrattamento delle persone con autismo!
Dove sono le leggi per proteggere i nostri figli dall’abuso di farmaci? Dove sono le leggi che, con un finanziamento adeguato, possono rendere obbligatorio il trattamento cognitivo comportamentale, relegando finalmente la terapia farmacologica come ultima possibilità, con dimostrazione del fallimento delle altre?

Quante domande, in un tempo in cui sembra che vi sia tanta attenzione sull’autismo! Credo che si debbano cominciare a concentrare gli interventi su una questione fondamentale: come possiamo tutelare davvero l’individualità e la qualità della vita delle persone con neurodiversità? E ancora: siamo pronti a creare un mondo per loro e con loro?
Non mi aspetto, ovviamente, una risposta che nemmeno io ho: ma una riflessione sì. E seria.

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