Il dogma dell’istituzione e l’abbandono dei caregiver

«Nel 2015 – scrive Lelio Bizzarri – ogni cittadino, anche con gravissima disabilità, dovrebbe avere diritto di vivere nel proprio nucleo familiare e nella comunità cui naturalmente appartiene, sostenuto da servizi a sostegno della sua autonomia e integrazione. Ove poi la condizione di disabilità sia così grave da necessitare dell’assistenza continuativa di un familiare, è assolutamente urgente e necessario fornire tutti i supporti assistenziali, tecnologici, medici e psicologici a chi si occupa della persona malata e a tutto il nucleo familiare»

Caregiver familiare con il figlio gravemente disabile

Un caregiver familiare insieme al figlio, persona con grave disabilità

Grazie all’opera di denuncia del movimento dei caregiver familiari [i caregiver sono gli assistenti di cura familiari. Si veda il blog di riferimento “La Cura Invisibile”, N.d.R.], ormai da diverso tempo sono note le difficoltà delle persone con disabilità gravissima e dei familiari che se ne occupano. La carenza di servizi di assistenza di base e specialistica, di mezzi di trasporto idonei, di alloggi provvisti di dispositivi di abbattimento delle barriere architettoniche, nonché di misure atte a consentire l’integrazione scolastica e la socializzazione, hanno determinato una condizione di cronico abbandono che ha messo i familiari di fronte a una “scelta-non scelta”, sempre e comunque dolorosa, vale a dire tra la necessità di inserire il parente con disabilità in una residenza protetta – che poi in tanti casi così “protetta” non si rivela proprio) e quella di dover svolgere tutte le funzioni di cura e assistenza che sarebbero proprie di un’équipe di operatori, nonché di coprire la stragrande maggioranza delle ore di assistenza sia di giorno che di notte.
È ampiamente documentato che chi sceglie questa seconda “opzione” molto spesso si trova a dedicare completamente le sue giornate (e le sue nottate) al/alla figlio/a, sacrificando l’attività professionale, lo studio, il tempo libero, la relazione coniugale, eventualmente la cura degli altri figli, il tempo dedicato alla cura della propria salute e dell’aspetto fisico, le ore di sonno… e poi fatica tanta fatica.
Si è detto inoltre come i caregiver familiari si trovino a doversi fare carico anche dell’attività riabilitativa o di interventi di carattere infermieristico, imparando ad eseguire procedure complesse e che normalmente richiederebbero studio, pratica e un’abilitazione professionale.

Uno degli aspetti più drammatici – non sottolineato abbastanza, a mio avviso – è che spesso i genitori di persone con disabilità gravissima si trovano a dover mettere in atto procedure di pronto soccorso sui loro stessi figli, in quanto affetti da patologie che mettono periodicamente e repentinamente a rischio la vita stessa. Proviamo a immaginare cosa significhi trovarsi più e più volte nella situazione in cui un nostro familiare abbia un malore che mette a rischio la sua vita e di dover mantenere il sangue freddo necessario per eseguire correttamente procedure salvavita in pochi secondi. Difficile capire cosa si può provare fino in fondo, ma certo è facile intuire come lo stress e la paura siano elevatissimi. Per di più questi traumi hanno l’effetto di rievocare il dolore e l’angoscia sperimentati al momento della diagnosi della patologia o della lesione che ha determinato la disabilità cronica, infierendo su una ferita psicologica che difficilmente si rimargina definitivamente.
Dopo il primo evento traumatico, si innesta uno stato di allarme costante, teso a rilevare ogni avvisaglia di crisi e ad intervenire tempestivamente.

Mulo che trasporta dei computer, affiancato da due uomini

Spesso, con una deliziosa immagine ripresa anche su queste pagine, Giorgio Genta ha paragonato il lavoro del caregiver familiare a quello di un mulo da soma

Il DSM-5 [quinta edizione del “Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders”, ovvero la più recente versione del Manuale Diagnostico e Statistico dell’APA, l’Associazione Americana degli Psicologi e Psichiatri, N.d.R.] individua fra le cause del disturbo da stress post-traumatico (PTSD) anche l’avere assistito ad eventi che hanno messo a rischio la vita di una persona cara o, addirittura, l’averne appreso la notizia attraverso il racconto di qualcuno (Criterio A).
Anche se non esistono purtroppo ricerche sistematiche che dimostrino una prevalenza più elevata di questo disturbo nella popolazione dei caregiver familiari rispetto a quella generale, i clinici sono ormai concordi nel rilevare la presenza dei sintomi tipici del PTSD quali flashback, sensazione di torpore, ansia, senso di colpa, paura, depressione e irritabilità (Barry J. Jacobs, The Emonational Survival Guide for Caregivers. Looking after Yourself and Your Family while helping an Aging Parent, New York, Guilford Press, 2006; Shelley Cohen Konrad, Posttraumatic Growth in Mothers of Children with Acquired Disabilities, in «Journal of Loss and Trauma», 2006, 11/1, pp. 101-113).
Considerando inoltre che i traumi possono essere ripetuti (a volte persone con gravissima disabilità possono essere sul punto di perdere la vita anche più di dieci volte durante l’arco della loro esistenza), c’è da considerare la possibilità concreta che nei casi più estremi i caregiver sviluppino un disturbo osservato in persone sottoposte a traumi severi, prolungati e ripetuti, soprattutto di natura interpersonale (prigionia e tortura; abuso infantile cronico; maltrattamenti prolungati delle donne da parte dei partner). Si tratta del cosiddetto disturbo da stress post-traumatico complesso, costrutto clinico sovrapponibile a quelli di disturbo post-traumatico di personalità e a quello di disturbo da stress estremo non altrimenti specificato, oltreché, marginalmente a quello di depressione post-traumatica*.

Purtroppo, in assenza di ricerche epidemiologiche sistematiche, siamo ancora nel campo delle ipotesi che devono essere confermate. Soprattutto va delineata correttamente la fenomenologia dei disturbi sviluppati dalla popolazione dei caregiver familiari. Un’operazione quale quella di calare tal quale un disturbo rilevato in una categoria di soggetti su un’altra popolazione sarebbe una forzatura poco utile dal punto di vista teorico e terapeutico. Tuttavia, esistono elementi fondati per un interessamento della categoria professionale degli psicologi, i quali dovrebbe prendersi l’onere di verificare l’ipotesi che questi disturbi clinici siano correlati alla condizione di caregiver di persone con disabilità gravissima e, soprattutto, di individuare gli elementi che possano fungere da fattori protettivi e i piani di trattamento più idonei.
Ombra di persona che spinge una persona in carrozzina, su sfondo violaBisogna infatti sottolineare – onde evitare di stigmatizzare tutti i caregiver come pazienti psichiatrici predestinati – che nonostante ci siano tutte le condizioni più gravose e un elevato livello di sofferenza psicologica, non è scontato un decorso in senso psicopatologico. Gli elementi che impediscono il precipitare verso l’esordio di patologie psichiatriche sono tra gli altri: una spiccata predisposizione alla resilienza (cioè a fronteggiare efficacemente le difficoltà più estreme); il sostegno intrafamiliare; una buona rete di sostegno informale (amicizie, conoscenze, vicinato, parentela al di fuori del nucleo familiare); il supporto dei servizi.
Di contro, i vari casi di cronaca che riportano omicidi-suicidi commessi da genitori di persone con disabilità, sono la punta dell’iceberg che sollecita un intervento celere e sistematico.

Un altro aspetto tragico è relativo al fatto che gli eventi traumatici di cui sopra possono verificarsi anche alla presenza di altri familiari, che possono rimanere a loro volta traumatizzati. Così scrive Fabiana Gianni, caregiver familiare e blogger del «Fatto quotidiano», in un suo articolo del 20 giugno scorso, intitolato Disabilità: pensieri di una care giver: «Ieri alle 15,30 le sorelle di Diletta giocavano e lei guardava la Tv. Sento una specie di singhiozzo. Ormai il mio livello di allerta è alle stelle e lancio la voce: chi è che ha il singhiozzo? Intanto con una falcata mi lancio in camera di Diletta. Le altre mie bambine dietro di me. Diletta è in piena crisi convulsiva. Sta soffocando. Non scendo nei particolari che sarebbero la forzatura del dolore. Perché non è il dolore che voglio raccontare. Vorrei invece trasmettervi uno squarcio di vita e condividere qualche riflessione: mentre attuavo la procedura necessaria in questi momenti, ho colto in un momento la voce delle mie bambine che si consolavano tra loro. Otto e undici anni. Mi ha colpito molto una frase: “Noi abbiamo paura è normale, ma la vita è anche dolore e se noi ora abbiamo paura tra poco ne avremo meno».
Lo stress e la fatica, inoltre, possono innescare conflitti e attriti intrafamiliari basati sulle divergenze in merito alle soluzioni più idonee per conciliare la vita della famiglia con i bisogni particolari del familiare disabile.
Senza arrivare al rischio estremo psicopatologico, è evidente che esiste un carico di sofferenza che inficia la qualità della vita della persona con disabilità, dei caregiver e di tutto il nucleo familiare.
Un altro aspetto, infine, che esaspera lo stato d’animo di molti caregiver familiari è che molto spesso – piuttosto che incontrare sostegno ed empatia per il loro impegno – vengono ritenuti “responsabili” per le loro difficoltà e quelle del congiunto. Nel nostro Paese, infatti, esiste ancora una cultura molto forte dell’istituzionalizzazione, nonostante le battaglie condotte sia nel mondo della disabilità che in àmbito psichiatrico. È durissimo a morire il dogma che afferma che le persone con un grave handicap intellettivo, motorio o psichiatrico debbano essere necessariamente ricoverate in apposite strutture, essendo incompatibili con la vita nel proprio contesto familiare e sociale. Idea rafforzata e confermata dalle carenze di servizi territoriali in un tragico circuito vizioso che trasforma il pregiudizio in profezia auto-avverante.

Caregiver con persona disabile

Un’altra caregiver familiare mentre assiste un proprio congiunto con disabilità

I caregiver familiari, “rei” di avere messo in discussione questo dogma, sono pertanto tacciati di essere persone che si sono autoprocurate le difficoltà che devono affrontare. Questo biasimo strisciante e diffuso, che trapela nei colloqui con i responsabili dei servizi, ripreso purtroppo anche da familiari che hanno fatto scelte differenti e da rappresentanti del mondo delle associazioni a tutela dei diritti dei disabili, mortifica i genitori che si dedicano costantemente ai loro figli (così come i fratelli e le sorelle), li costringe continuamente a mettere in discussione le loro decisioni e a dubitare che esse possano comportare più sofferenza che sollievo. Inoltre, li spinge a sentire di dover essere impeccabili nella cura della persona con disabilità, in quanto ogni disagio viene vissuto con sentimenti di colpevolizzazione. L’isolamento relazionale, la mancanza di solidarietà e di supporto concreto, il biasimo e l’assenza di empatia sono fattori peggiorativi che indirizzano in senso depressivo il malessere dei caregiver e li inducono ad approcciare il loro compito senza darsi tregua, né concedersi spazi e tempi di recupero fisico e mentale.
Il caregiver familiare è esposto, così, ad andare incontro al cosiddetto Burden, che è uno stato di stress cronico con disturbi del sonno, dell’attenzione, della concentrazione, difficoltà mnestiche [della memoria, N.d.R.], facile irritabilità, somatizzazioni, sbalzi di umore, agitazione, forte apprensione, facilità ad ammalarsi, come riferito da Laura Pedinelli Carrara, psicologa, nel suo articolo Il caregiver familiare e il Burden, pubblicato dalla testata online «MedicItalia».

In conclusione, nel 2015 il principio secondo cui ogni cittadino, anche con gravissima disabilità, ha diritto di vivere nel suo nucleo familiare e nella comunità a cui naturalmente appartiene dovrebbe essere consolidato attraverso l’erogazione di servizi a sostegno della sua autonomia e integrazione nei vari livelli del vivere sociale. Ove la condizione di disabilità sia così grave da necessitare dell’assistenza continuativa di un familiare, è assolutamente urgente e necessario fornire tutti i supporti assistenziali, tecnologici, medici e psicologici a chi si occupa della persona malata e a tutto il nucleo familiare. Questa urgenza è dettata da un imperativo di umanità e per garantire una reale cittadinanza di tutti. Chi poi si stia chiedendo quali sarebbero i costi di un programma di prevenzione del Burden e del disturbo da stress post-traumatico (così come di tutte le altre patologie mediche) nei caregiver familiari, dovrebbe anche chiedersi quant’è il costo, in termini umani, economici e sociali, del crollo psicofisico di una persona che è il fulcro e il collante di un nucleo familiare già profondamente provato dalle difficoltà poste dalla disabilità.

*L’Autore della presente riflessione mette a disposizione su tali temi ulteriori riferimenti bibliografici, che possono essere richiesti direttamente alla nostra redazione (info@superando.it).

Psicologo e psicoterapeuta, persona con disabilità motoria. Gestisce un proprio sito.

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