La violenza interroga i modi di stare in relazione

«La violenza – scrive Simona Lancioni, soffermandosi approfonditamente su una recente pubblicazione monografica dedicata alla violenza sulle donne con disabilità -, chiunque ne sia il bersaglio e quando non si configura come un atto di difesa, sottende sempre l’idea di possesso, la persuasione che degli altri e – più spesso – delle altre si possa disporre discrezionalmente. La violenza interroga i modi di stare in relazione. Occuparsi di violenza, vuol dire occuparsi di questo»

Donna in carrozzina con le mani sul voltoLa vie en rose. Donne con disabilità: inventare e gestire percorsi di uscita dalla violenza: è questo il titolo della ricca monografia pubblicata qualche tempo fa da «HP-Accaparlante» [se ne legga anche la presentazione sempre nel nostro giornale Disabilità e violenza, N.d.R.], la rivista del CDH (Centro Documentazione Handicap) di Bologna, pubblicazione che ha raccolto gli atti dell’omonimo workshop nazionale svoltosi a Milano il 1° dicembre 2014, incentrato sul tema della violenza nei confronti delle donne con disabilità.
La monografia è dedicata al compianto Franco Bomprezzi, già per anni direttore responsabile di «Superando.it», «giornalista a rotelle», come amava definirsi egli stesso, «l’amico e compagno di strada» (come lo definisce Martina Gerosa nel suo intervento introduttivo), scomparso il 18 dicembre 2014, e che di quell’evento avrebbe curato la moderazione, se solo la malattia gli avesse concesso di farlo.
«Non mi è mai passato per la testa di usare violenza fisica nei confronti di una donna, e non perché vivo in sedia a rotelle. Potrei riuscirci anche da qui, su questo non ho dubbi. È proprio perché l’idea di possesso, di proprietà sulla donna, non mi appartiene, non fa parte del mio bagaglio di viaggio nell’esistenza. So di non possedere del tutto neanche me stesso, dal momento che il corpo non sempre risponde ai comandi del cervello o del cuore. Figurarsi se posso immaginare una sorta di dominio su un essere diverso da me», aveva scritto Bomprezzi nell’estate del 2013 (in Dedichiamo il Ferragosto alle donne?, testo citato nella monografia), e coglieva l’aspetto centrale della riflessione sulla violenza: la violenza, chiunque ne sia il bersaglio, e quando non si configura come un atto di difesa, sottende sempre l’idea di possesso, la persuasione che degli altri e – più spesso – delle altre si possa disporre discrezionalmente. La violenza interroga i modi di stare in relazione. Occuparsi di violenza, vuol dire occuparsi di questo.

Curata da Martina Gerosa, Giovanna Di Pasquale e Valeria Alpi, “vestita” con una singolare copertina dell’illustratore Attilio Palumbo, e sdrammatizzata dalle sagaci e impietose vignette di Furio Sandrini alias Corvo Rosso, l’opera ospita le voci di quanti – uomini e donne, disabili e non – hanno accolto la sfida di cimentarsi con un tema ancora poco frequentato. Tanto poco frequentato che davanti alla domanda «dove si può orientare una donna con disabilità vittima di violenza?»” – rivolta dalla disability & case manager Martina Gerosa, una delle tre curatrici della monografia, allorquando, nella primavera del 2013, aveva intercettato una richiesta d’aiuto da parte di una giovane donna con disabilità che manifestava sofferenza per le condizioni in cui era costretta a vivere nell’ambiente familiare -, l’unica risposta ricevuta dalla moltitudine di esperti interpellati (psicologi, assistenti sociali, medici, ricercatori e formatori) era stata «un imbarazzante silenzio».

Foto di donna che mette le mani in avanti

«Non è certo il silenzio – scrive Simona Lancioni – la risposta di cui hanno bisogno le donne con disabilità vittime di violenza»

E non è certo il silenzio la risposta di cui hanno bisogno le donne con disabilità vittime di violenza. Nel momento in cui «ci sono arrivate segnalazioni di donne portatrici di disabilità vittime di violenza domestica, impossibilitate a fuggire a causa delle loro difficoltà e per questo costrette a subire terribili maltrattamenti», osserva Nadia Muscialini, presidente dell’Associazione Soccorso Rosa di Milano e già responsabile del Centro Antiviolenza Ospedaliero presso l’Azienda Ospedaliera San Carlo Borromeo di Milano, e i consueti protocolli e le linee guida si sono rivelati inadeguati ad affrontare l’urgenza e la complessità dei casi in questione, allora è stato necessario valutare e trovare percorsi alternativi, «ma per fortuna si incontra sempre qualcuno che è disposto a fare innovazione e a sperimentare strade nuove».
Speranza, innovazione, flessibilità, creatività, interventi personalizzati, multidisciplinari e interistituzionali, protezione e accoglienza delle vittime, unite ad una grande umanità, prevenzione e presa in carico: sono i concetti chiave del suo intervento. Concetti che dovrebbero diventare punti di riferimento per chi è chiamato ad operare in questo campo.

Ma prima ancora di dare una risposta, la violenza di genere è necessario riconoscerla. E per riconoscerla è essenziale acquisire che le donne con disabilità sono donne. È il disconoscimento dell’appartenenza di genere la prima forma di violenza a cui sono soggette le donne con disabilità.
Valeria Alpi, altra curatrice della monografia, caporedattrice di «HP-Accaparlante», spiega molto bene come sono considerate le donne con disabilità: «La donna con disabilità non è una donna, è una persona disabile. Punto e basta. Dovrà passare la vita a gestire la sua disabilità, ma non a gestire la sua femminilità. Ma se non si parte dall’educazione al proprio corpo, alla propria espressione della sessualità, come si può riconoscere la violenza?».

C’è poi anche il problema dell’accessibilità dei centri antiviolenza, delle case rifugio, delle caserme (presso le quali presentare le denunce), dei tribunali, ma anche – non è scontata – dei pronto soccorso, dei consultori e, ancora, delle campagne informative e di sensibilizzazione, dei numeri di telefono e degli sportelli antiviolenza… Càpita infatti che, anche quando ci si ricorda di pensarci – e non sempre ci si ricorda -, ci si fermi all’accessibilità per persone con disabilità motoria.
Un gradino, una porta stretta si vedono, e capire che possono essere d’ostacolo è abbastanza intuitivo. Più complesso è invece far comprendere che a volte l’ostacolo è costituito da una mancanza (ad esempio: della segnaletica, della sottotitolazione e dell’audiodescrizione dei filmati, del marcato contrasto cromatico, di un accesso ai servizi alternativo alla chiamata telefonica, dell’interprete della lingua dei segni …).

Disegno che rappresenta lo scaricabarile

«Un po’ dappertutto – secondo il sociologo Raffaele Monteleone – i servizi lavorano per competenze d’intervento molto separate; questa separazione a volte si trasforma nel gioco dello scaricabarile: “se sei un disabile non certificato forse non devi parlare con me”, “se sei una donna vittima di violenza forse non devi parlare con me”…»

Interrogata su quali siano i formati e i supporti più adatti a realizzare una campagna di sensibilizzazione al tema della violenza nei confronti delle donne disabili, accessibile anche a donne con disabilità sensoriali, Laura Raffaeli, presidente dell’Associazione Blindsight Project, ha risposto così: «Documenti accessibili (soprattutto i pdf) come vuole la “Legge Stanca” [Legge 4/04, N.d.R.], e pertanto fruibili anche da chi usa screen reader [letteralmente: “lettore di schermo”, un’applicazione software, solitamente usata da persone cieche, ma non solo, che identifica e interpreta un testo in formato digitale e lo traduce tramite la sintesi vocale, o attraverso un display Braille, N.d.R.]. Audiovisivi di qualsiasi formato, ma necessariamente con sottotitoli, audiodescrizione e trascrizione in testo accessibile, come vuole la Convenzione ONU [sui Diritti delle Persone con Disabilità, N.d.R.]. Eventuali siti web costruiti anch’essi in conformità alla “Legge Stanca”, e lo stesso vale per le applicazioni e tutto ciò che riguarda l’informatica, lo spettacolo e il web».

Vi è una tendenza, da parte dei professionisti, ad affrontare i problemi complessi con forme di “riduzionismo specialistico”, ma questa è una modalità che non consente di dare risposte adeguate a questo tipo di problemi, precisa, introducendo ulteriori elementi su cui lavorare Raffaele Monteleone, docente di Politiche Sociali presso il Laboratorio di Sociologia dell’Azione Pubblica “Sui generis” dell’Università di Milano-Bicocca: «I servizi un po’ dappertutto (a nord come a sud) lavorano per competenze d’intervento molto separate; questa separazione a volte si trasforma nel gioco dello scaricabarile: “se sei un disabile non certificato forse non devi parlare con me», “se sei una donna vittima di violenza forse non devi parlare con me”. Ma sappiamo, per esperienza, che quasi tutte le situazioni che prevedono interventi da parte dei servizi sono, nel caso delle donne con disabilità vittime di violenza (ma non solo), delle situazioni assolutamente al confine, molto poco standard nella loro ordinarietà. Ecco, le politiche pubbliche dovrebbero costruire contesti e strumenti per intervenire in modo personalizzato: non si possono assumere i punti di partenza delle persone come eguali perché non lo sono affatto, e questa oltretutto rappresenta una forma di discriminazione istituzionale». Gli attuali sistemi istituzionali di presa in carico non considerano e non valorizzano le capacità degli individui e, pertanto, si rivelano incapacitanti. Le organizzazioni tendono ad offrire sempre gli stessi servizi e a non cambiare. Per superare questa situazione è necessario concepire le organizzazioni «come mezzi e non come fini in sé, mettendo al centro la complessità delle vite delle persone che dovrebbero sostenere e supportare».
Considerazioni, quelle di Monteleone, che sembrano riecheggiare l’imperativo categorico kantiano: «Agisci in modo da trattare l’umanità, tanto nella tua persona quanto nella persona di ogni altro, sempre nello stesso tempo come un fine, e mai unicamente come un mezzo».

Donna aiuta giovane in carrozzina a salire per dei gradini

La maggior parte delle donne con disabilità raccomandano con forza di rendere più accessibili i servizi generali di supporto alle vittime di violenza

L’esigenza di stabilire chi debba fare cosa si presenta nel momento di valutare se sia «meglio (e più facile) avere nuovi servizi specializzati nella violenza sulle donne con disabilità, oppure estendere l’accessibilità dei servizi generali di supporto contro la violenza sulle donne e/o la specializzazione nella violenza di genere dei servizi generali di supporto per le persone con disabilità».
Questa fondamentale domanda è stata posta da Massimiliano Rubbi, componente della redazione di «HP Accaparlante», a Sabine Mandl, una delle direttrici del Progetto Access to Specialised Victim Support Service for Women with Disabilities who have Experienced Violence, svolto in quattro Paesi dell’Unione Europea (Austria, Germania, Islanda e Regno Unito) dal 2013 al gennaio del 2015, e guidato dall’Istituto Ludwig Boltzmann per i Diritti Umani di Vienna.
Così ha risposto Mandl: «Dalle nostre esperienze, ci sono due elementi: la maggior parte delle donne raccomanda con forza di rendere i servizi generali di supporto alle vittime più accessibili (ridurre una grande quantità di barriere: es. ambientali – ascensori, bagni accessibili, sistemi di guida – e di accesso all’informazione – sito web, opuscoli anche in audio, lingua dei segni o scrittura semplificata, ecc.) e più consapevoli e sensibilizzati (personale formato su violenza e disabilità, più donne con disabilità che lavorano nei servizi…). Peraltro le donne hanno sottolineato pure l’interesse al fatto che, in aggiunta, occorrano anche “servizi specializzati per donne che hanno subito violenza”, es. in Austria, come “esempio di buona pratica”, NINLIL. Le donne hanno anche evidenziato che le organizzazioni per le persone con disabilità (centri residenziali, centri di cura, laboratori per persone con disabilità ecc.) e le organizzazioni di utenti dovrebbero essere più consapevoli della violenza specifica di genere e stabilire meccanismi per la protezione e la prevenzione della violenza. Le donne hanno affermato che al momento le donne con disabilità che subiscono violenza non sono supportate a sufficienza né dai servizi di supporto alla vittima (concentrati principalmente sulla violenza domestica verso le donne non disabili) né dalle organizzazioni per le persone con disabilità (non concentrate sulla violenza specifica di genere)».
Il messaggio, dunque, è chiarissimo: prima la risposta inclusiva – le donne con disabilità devono poter accedere agli stessi servizi antiviolenza realizzati per tutte le donne -, poi, in aggiunta, le altre risposte (servizi specializzati e dedicati, e coinvolgimento delle organizzazioni di persone con disabilità).

Sociologa. Il presente approfondimento è già apparso nel sito del Gruppo Donne UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare), con il titolo “Violenza sulle donne con disabilità, il filo del discorso”, e viene qui ripreso, con alcuni riadattamenti al diverso contesto, per gentile concessione.

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