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Unioni civili e disabilità: discriminazione vs discriminazione?

Donna con disabilità insieme al marito non disabile

Come già accaduto in passato, anche in queste settimane il dibattito in corso sulle unioni civili sta completamente rimuovendo l’ipotesi che uno dei partner sia una persona con disabilità, con ciò che ne deriva in termini di potenziale accesso a benefìci, sostegni, supporti

Le prossime settimane si preannunciano pervasive su ciò che finirà per sembrare un tormentone: quello delle unioni civili. Come spesso accade, l’iperbole di una questione cresce, sale, diviene congestizia, appare come unica questione nazionale, genera confronti da stadio e diverbi da osteria, pur su situazioni estremamente delicate e sensibili, giunge addirittura ad essere l’indicatore della civiltà di un Paese.
Scontri trasversali e viscerali che possono sfaldare maggioranze o mettere in crisi i Governi. Ricordiamo – in un Paese dalla scarsa memoria – che l’analogo dibattito sui DICO (acronimo per “DIritti e doveri delle persone stabilmente COnviventi”) fu uno dei motivi della caduta del già traballante Governo Prodi nel 2008.
Sembra che questa volta il Governo faccia “sul serio” e intenda seguire il trend di altri Paesi dell’Unione, regolamentando finalmente le «unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze». Il virgolettato non è un vezzo, ma riprende testualmente il titolo dell’unico Disegno di Legge al momento depositato al Senato: il DDL 2081 attualmente all’esame della Commissione Giustizia di Palazzo Madama a firma Monica Cirinnà e altri, e ampiamente sparpagliato sulla carta stampata, nei talk show, nei social (dove analfabeti di ritorno per qualche giorno assurgono a dotti civilisti).

Lungi da chi scrive esprimere in questa sede una qualsiasi espressione di favore o dubbio riguardo agli intenti dei proponenti o di orientamento a favore delle unioni civili fra persone dello stesso sesso.
Il Disegno di Legge 20181 consta di 23 articoli tutti (a parte l’ultimo) molto densi sotto il profilo tecnico e civilistico. Il tutto – se approvato – impatterebbe non solo nelle unioni civili fra «persone dello stesso sesso», ma anche più in generale sulle convivenze stabili.
Nella sostanza, si equiparerebbero anche alle unioni civili fra persone dello stesso sesso e alle coppie unite da “contratto di convivenza” (quasi) tutti i diritti e i doveri previsti nei casi di coniugio “convenzionale”.
Questo, come detto, investe àmbiti civilistici estremamente delicati, come i diritti successori nel caso di decesso di uno dei partner, o i diritti per l’inserimento nelle graduatorie per l’assegnazione di alloggi di edilizia popolare, ma anche doveri come quelli della reciproca assistenza o dell’obbligo di mantenimento o alimentare. Il partner – riconosciuto in un’unione civile – ha il diritto di agire nella domanda di interdizione, di inabilitazione o di amministrazione di sostegno, come pure avrebbe diritto a rapportarsi a pieno titolo con i sanitari che assistano il partner o con la struttura carceraria in cui questi sia detenuto.

Il tutto è assai interessante, ma anche in questo caso – come era accaduto nel 2008 con i DICO poi abortiti – il Legislatore sta completamente rimuovendo l’ipotesi che uno dei partner sia una persona con disabilità, con ciò che ne deriva in termini di potenziale accesso a benefìci, sostegni, supporti.
In nessun passaggio, ad esempio, il Disegno di Legge Cirinnà menziona il diritto per il partner (stesso sesso o meno, poco ci importa) ad accedere a permessi, congedi o forme di flessibilità lavorativa o diritti di scelta della sede di lavoro, o rifiuto al lavoro notturno, nel caso in cui si assista una persona con disabilità.
Ma tale rimozione è ancora più evidente nel collaterale dibattito sulla cosiddetta stepchild adoption (digressione: è assai bizzarro che nella culla del diritto si adottino lemmi anglofoni forse solo per rimuovere ipocritamente tensioni idealistiche). Dietro questa formula c’è una disposizione già vigente da ben trentadue anni. È infatti del 1983 la Legge 184, che ammette l’adozione del figlio del (nuovo) coniuge. L’adozione viene però vagliata dal Tribunale, viene richiesto il consenso del genitore biologico, viene soppesato l’effettivo interesse per il figlio, che deve sottoscrivere il consenso (se maggiore di 14 anni) o esprimere la sua opinione (se di età tra i 12 e i 14). A questo si aggiunge la consueta – e spesso pesante – valutazione del Tribunale sulla capacità educativa, sull’idoneità affettiva, sullo status personale ed economico e, non ultimo, sullo stato di salute di chi richiede l’adozione. Insomma, è tutt’altro che un’amabile passeggiata.
Il Disegno di Legge Cirinnà intenderebbe estendere tale opportunità anche alle coppie formate da persone dello stesso sesso. E questo è uno dei motivi di maggiore scontro in queste ore, divergenze sulle quali non entreremo in queste colonne.

E tuttavia questo non ci esime da un’amara constatazione di fatto, che è la risultante della raccolta pluriennale di storie di vita che molti nostri Lettori potrebbero riportare: le enormi, spesso insormontabili, difficoltà per le persone con disabilità o per coppie con un partner con disabilità, magari nemmeno ingravescente, nell’ottenere affidi e, vieppiù, adozioni. Quel concetto di “salute” che molti Tribunali valutano è troppo spesso confuso con la disabilità ed è pregiudizio che diviene motivo di reale discriminazione. Era forse questa discussione l’occasione per alcune puntualizzazioni? Forse sì.
La stessa discriminazione che fino ad oggi colpisce gli omosessuali la subiscono da decenni, con altre declinazioni, anche le persone con disabilità. Ma per queste ultime non sembra profilarsi soluzione alcuna. Anzi, il tema non sembra essere nelle agende politiche né all’orizzonte.

Direttore editoriale di «Superando.it».

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