Violenza sulle donne: come non rappresentarla

Immagini sbagliate, donne generalmente belle come testimonial, sconfinamenti nel morboso e nel sensazionalistico: sono purtroppo numerosi i pericoli e gli errori che si possono commettere – anche da parte delle stesse associazioni di donne e sia pure in buona fede – quando si parla di violenza sulle donne, con o senza disabilità

Profilo di donna al buio. Sullo sfondo la luna pienaQuando si parla di violenza sulle donne – con o senza disabilità – un aspetto della comunicazione sul quale anche le associazioni di donne commettono – sia pure in buona fede – frequenti errori è quello delle immagini. È infatti abbastanza facile vedere campagne contro la violenza sulle donne che mostrano corpi e volti di donne tumefatti, donne in atteggiamento difensivo che si riparano in qualche modo, donne spettinate ridotte in un angolo con i vestiti strappati ecc.
Ebbene, riguardo a queste immagini si può osservare che esse mostrano ciò che – presumibilmente – vede l’aggressore, e non il punto di vista della donna aggredita.
In secondo luogo, come ha ben illustrato in numerose occasioni Giovanna Cosenza, docente di Semiotica presso l’Università di Bologna, «non si combatte la violenza con immagini che la esprimono. Né si fanno uscire le donne dal ruolo di vittime se si insiste a rappresentarle come vittime.» (G. Cosenza, «Stai zitta, cretina». E come sempre, le campagne contro la violenza esprimono violenza, in «Dis.Amb.Iguando», 24 novembre 2011).

Un altro errore frequente è quello di scegliere come testimonial contro la violenza solo donne belle, come se per promuovere una causa fosse necessario utilizzare la bellezza, o come se a subire violenza fossero solo le donne avvenenti. Non è così. Paradossalmente si potrebbe suscitare l’effetto di rendere la violenza seducente, o di rafforzare il pregiudizio secondo cui le donne che non corrispondono a certi canoni estetici non siano toccate da questo fenomeno.
Forse bisognerebbe provare ad uscire dai binari delle immagini scioccanti o seducenti, incentrandosi di più sulla narrazione (molto interessante, sotto questo profilo, è Ferite a morte, un progetto teatrale realizzato a suo tempo da Serena Dandini), oppure spostando l’attenzione sull’aggressore (che è ancora poco rappresentato), o, ancora, su un simbolismo inconsueto: come non emozionarsi, ad esempio, davanti a One billion rising for justice, danza globale promossa nel 2013 da Eve Ensler?
Realizzata anche in molte città d’Italia, questa danza ha permesso che migliaia di donne e di uomini insieme potessero esprimere un no collettivo alla violenza utilizzando tutto il corpo. Gioia e vitalità contro la violenza: geniale!

Infine, nel raccontare i dettagli delle violenze, è importante essere chiari, completi e precisi, ma non scadere nel morboso e nel sensazionalistico. Occorre inoltre, ed è importantissimo, prestare attenzione alla riservatezza della vittima e, dunque, evitare di rivelare particolari che potrebbero renderla riconoscibile (nei casi in cui è richiesto l’anonimato), e rintracciabile (qualora sia accolta in un luogo protetto).

Componente del Coordinamento del Gruppo Donne UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare) e responsabile del Centro Informare un’H di Peccioli (Pisa). Il presente testo costituisce un estratto di quanto esposto in occasione del convegnoViolenza di genere e disabilità. Dalle storie di discriminazione alle azioni per contrastarla”, Empoli (Firenze), 8 ottobre 2013 ed è già apparso nel sito del Gruppo Donne UILDM. Viene qui ripreso, per gentile concessione.

Per approfondire l’argomento trattato nella presente Opinione, oltre ai testi pubblicati in questo stesso giornale e qui a fianco indicati, suggeriamo la consultazione di Contro la violenza sulle donne, pagina del Gruppo Donne UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare), che contiene numerosi documenti in tema di violenza nei confronti delle donne con disabilità (ultimo aggiornamento 1° dicembre 2015).

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