L’“epifania” in una lacrima

«Nella vita di una persona – scrive Rosa Mauro – le “epifanie” possono essere diverse, anche quando un figlio non è più piccolo, anche quando è un ragazzo con autismo di diciotto anni compiuti, che compie un passo nel mondo delle emozioni. Dedico questo racconto a tutti coloro che pensano all’autismo come a un mondo chiuso in se stesso, e che manca di comprensione emotiva con il nostro mondo»

Testa di statua con una goccia che scende da un occhioNella vita di un genitore esiste un solo primo passo del proprio figlio. È così che ci viene detto, e come le prime parole, dicono che è la cosa più importante che ci possiamo aspettare da lui… Ma non è così. Le “epifanie”, nella vita di una persona, possono essere diverse, anche quando un figlio non è più piccolo, anche quando è un “ragazzo particolare”.
Sono qui per raccontare dell’ultima “epifania” di mio figlio Giovanni, e per chi non conosce il termine epifania, esso significa manifestazione di qualcosa di nuovo nella nostra mente o intorno a noi. Le “epifanie” giungono sempre inaspettate e sono precedute da eventi apparentemente banali. Nemmeno questa fa eccezione.

Avevo deciso di andare a vedere a Roma la mostra di un’amica, presso i Musei Capitolini, e Giovanni – anche un po’ inaspettatamente – è voluto venire con me. Così ci siamo messi in movimento, io, lui e mio nipote che guidava la macchina, e siamo arrivati ai Musei Capitolini.
Giovanni non è rimasto particolarmente impressionato, e nemmeno ce lo aspettavamo; già sembrava strano che fosse voluto venire, non manifesta in genere curiosità verso i musei, è un tipo più pratico. Ma non ha urlato come fa di solito nei luoghi ampli che hanno una buona eco, e questo era un buon risultato.
Siamo arrivati nella saletta della mia amica, e lei ha cominciato a farci “sentire” le statue, per meglio dire i busti, che avevano realizzato. Anche Giovanni ha toccato i busti, e anche questo è stato un po’ insolito, di solito non è così disciplinato.
La mia amica mi ha mostrato il ritratto di suo padre, che aveva scolpito, un’opera che ho ammirato molto – grazie Rosella! – e abbiamo continuato il giro.
E poi siamo arrivati a lei. Un busto di donna che rappresentava il dolore. I tratti erano contratti per la sofferenza, e una lacrima solcava il volto, non una lacrima tonda e innaturale, ma quella scia che si forma quando piangiamo senza riuscire a trattenerci. Quando l’ho toccata, ho pensato che era una lacrima particolarmente realistica.
Poi abbiamo fatto toccare a Giovanni. Gli abbiamo parlato del dolore, e gli abbiamo fatto toccare la lacrima. Le sue mani hanno esplorato il volto, e poi quella lacrima che dall’occhio scivolava giù. E lui ha baciato la statua, con tenerezza, sulla guancia. Ha riconosciuto la verità di quell’emozione, e ha reagito di conseguenza, perché quel viso scolpito ha condotto l’emozione, il dolore, all’interno della sua mente e della sua coscienza emotiva.
Ero a pochi centimetri da lui, quindi l’ho vista bene, questa “epifania” di mio figlio. Questo passo nel mondo delle emozioni, anzi della loro rappresentazione.
Poi è tornato il solito Giovanni, è diventato irrequieto, siamo andati al bar per terminare il tutto con una cioccolata calda, un ginseng e una fetta di torta (sono golosa quanto mio figlio).
Però era successo. Occhi e mani hanno condotto il cervello verso una scoperta importante, e questo è avvenuto in un ragazzo con autismo di diciotto anni compiuti.

Dedico questo racconto a chi crede che questi ragazzi, al compimento del diciottesimo anno, non apprendano più nulla. Lo dedico a tutti coloro che pensano all’autismo come a un mondo chiuso in se stesso, e che manca di comprensione emotiva con il nostro, di mondo.
Lo dedico anche all’artista di quel busto, che non c’era, ma che ringrazio per avere regalato a Giovanni la sua emozione chiusa nel marmo.
E lo dedico anche a tutti coloro che di Giovanni si occuperanno. Non arrendiamoci: dentro una persona con un pensiero differente c’è un mondo che non dobbiamo stancarci di cercare e di osservare. Che magari si esprime con un bacio che noi, cinici osservatori ormai indifferenti della nostra stessa umanità, non troveremmo il coraggio di dare.
Giovanni, e i ragazzi come lui, hanno in consegna forse quella parte migliore che la nostra mente distratta ha lasciato cadere per strada. Ricordiamocelo, quando pensiamo a loro come a dei “fardelli da sopportare” e non a delle risorse da utilizzare.
Ricordiamoci che sono rimasti gli unici a saper consolare una statua.

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