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Vestiti, comodità e rappresentazione di sé

Figurine di carta da ritagliare

Figurine di carta da ritagliare

Una linea di abbigliamento pensata su misura per le persone con disabilità, questa l’idea imprenditoriale di Ernesto Simionato, ex sarto professionista settantaduenne e disabile egli stesso, che dopo molti anni è tornato ad impugnare forbici e metro nel suo laboratorio. L’obiettivo è quello di dare vita ad abiti creati in base alle esigenze di vestibilità di persone sulla sedia a rotelle, modificati nel taglio e in accorgimenti quali cerniere al posto dei bottoni, per facilitare al massimo chi li indossa e consentire la massima autonomia anche a chi ha limitazioni di movimento.
In diversi articoli che hanno accompagnato la diffusione della notizia sono state riportate le parole di Gabriele Piovano, consigliere della CPD di Torino (Consulta per le Persone in Difficoltà), partner dell’iniziativa, che in merito alla difficoltà di reperire abbigliamento comodo e facilmente indossabile afferma in un articolo comparso sulla testata «Vita»: «Nessuno ne parla mai, invece è un tema caldo nella vita dei disabili motori»; e aggiunge: «Questo accade perché ognuno finisce con l’arrangiarsi come può. La maggior parte si rassegna ad una vita di sciatteria. E farsi vestire è quanto di più umiliante si possa immaginare per una persona adulta».
Come Coordinamento del Gruppo Donne UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare), abbiamo dunque deciso di interrogarci in merito, sia sull’opportunità di capi di abbigliamento appositamente studiati per le persone con disabilità, sia, più in generale, sulle parole di Piovano e sul fatto che vestirsi e prendersi cura di sé con l’aiuto di altre persone possa essere o meno umiliante. (F.A.)

«Oddio non ho niente da mettermi!»
di Valentina Boscolo

Quella del mio titolo è sicuramente una frase ricorrente nelle case in cui vivono le donne, non importa di che età. L’aspetto estetico è per molte di noi fondamentale, ma quel «non ho niente da mettermi» può essere tremendamente vero per chi vive una disabilità fisica che compromette in maniera importante il corpo e la sua naturale conformazione.
Spesso mi capita di vedere uomini e donne disabili che in nome della vestibilità e della praticità sono completamente sciatti, al limite della trascuratezza, ed è una cosa che mi infastidisce e addolora nel contempo.
Da ragazzina giustificavo queste persone, dicendomi che forse non avevano chi potesse curarsi adeguatamente di loro, crescendo ho capito che mortificare il corpo ha molteplici significati. Infagottarsi infatti in maglioni sformati, tute di pile e abbinare i colori come se fossimo al buio, non è solo sintomo di disinteresse, ma anche un voler negare una corporeità che ci ripugna e ci fa sentire costantemente inadeguati e assolutamente “non piacevoli”.
Personalmente, fin da bambina, la mia famiglia, e in particolare mia madre (che è anche sarta e magliaia), mi ha sempre vestita con cura e gusto, trasmettendomi in questo modo l’amore per un corpo imperfetto, ma pulito e valorizzato. Così facendo, ho imparato ad avere senso estetico e ad ammirare chi si ama indipendentemente dal corpo che possiede.
Tutti noi possiamo essere belli se dedichiamo un po’ del nostro tempo alla scelta di un bell’abito, di una collana o di un maglione accattivante. Non è questione di denaro.
C’è da dire che avendo una madre sarta, ho spesso aggirato le difficoltà nel trovare abiti adatti a me: i pantaloni troppo bassi, i vestiti troppo fascianti ecc., e per chi non ha questa risorsa vestirsi bene può essere difficile, ma non impossibile. Ora online ci sono tante linee di abbigliamento dedicate al mondo della disabilità, che sicuramente sono preziose in moltissimi casi.
Personalmente credo che sia nel caso di abiti confezionati, sia in quello degli abiti sartoriali, non bisogna mai trascendere nel grigiore impersonale in nome di una praticità e autonomia che, però, possono essere mortificanti.

Tamara de Lempicka, "La sciarpa blu", olio su tela, 1930

Tamara de Lempicka, “La sciarpa blu”, olio su tela, 1930

Illusione o realtà?
di Oriana Fioccone

Tutti gli anni, con il cambio della stagione, viene il momento anche del cambio degli abiti; si aprono gli armadi, si tirano fuori le maglie e i pantaloni degli anni passati, si controllano, si valutano e, alla fine, o si tiene tutto, oppure viene voglia di buttare tutto e di comprarsi tante cose nuove. Spesso, però, ci si chiede: «Perché dovrei farlo? Dove devo andare?».
Tempo fa avevo letto un articolo che si occupava di una linea di abbigliamento creata appositamente per i disabili, sostenendo che, spesso, si vedono persone disabili che non si curano del proprio aspetto esteriore, perché gli abiti in vendita creano dei problemi ad essere indossati dalle persone che non hanno un corpo esattamente perfetto e fanno fatica a vestirsi da sole.
Di sicuro questo fatto incide, ma, secondo me, influisce molto di più il modo di pensare; non mi si venga a dire che ci si veste per piacere a se stessi, ci si veste per piacere agli altri, per apparire nel modo migliore in questa società che mette al primo posto l’aspetto esteriore.
È un arrendersi agli ordini della massa? Probabilmente sì e lo si vede anche da quello che si indossa: ai miei tempi, si usavano pantaloni strettissimi chiamati fuseaux, adesso si usano gli stessi pantaloni strettissimi, ma si chiamano leggings; nel passaggio da un nome all’altro, i pantaloni si sono allargati o ristretti a seconda delle varie mode, tutto in ossequio alla nostra società del consumismo.
Un altro elemento che condiziona in misura notevole la cura che si ha di se stessi è avere un motivo per cui ci si vuole vestire bene; se si deve uscire per andare a lavorare, oppure per andare a scuola, oppure per incontrare delle persone e divertirsi, si hanno maggiori ragioni per fare attenzione al proprio abbigliamento, per cambiarsi gli abiti, per truccarsi.
Quando invece si deve rimanere a casa, perché passa un’infermiera per una medicazione, viene il dottore per visitarti, arriva la fisioterapista, si è attaccati a un respiratore, si fa fatica a stare seduti, il tempo è brutto, e quindi non si può uscire, oppure fa troppo caldo e anche in questo caso non si può uscire, non si ha un accompagnatore o  per mille altri motivi, chi sa dirmi perché si dovrebbe avere voglia di curare il proprio aspetto esteriore?
Perché chiedere alle persone che già ti aiutano per mille altre cose indispensabili e vitali, di cercare di infilarti una maglia che, forse, ti starebbe meglio, ma che è meno pratica da indossare? Si cerca sempre di fare nel modo più veloce possibile, poiché ci vuole già tanto tempo per altre incombenze. Invece di farsi truccare, ci si fa imboccare…
Tutto cambia quando si dipende totalmente dagli altri. Pessimismo? No, purtroppo, semplice realismo. E smettiamola col dire che i disabili hanno “tanta forza interiore”, che, con coraggio, accettano la loro condizione e sono da esempio per gli altri. Col cavolo, sono sicura che, se si potesse scegliere, non interesserebbe essere un “esempio”.
Devo riconoscere che ci sono quelli che “sembrano” viverla meglio; se è vero, sono da ammirare, ma, al contrario, ci sono anche quelli che brontolano, litigano, si arrabbiano.
Chi ha varie possibilità di scelta, fa in fretta a dire: «Ma dai! Tutti hanno dei problemi. Basta avere pazienza. Devi porti degli obiettivi e vedrai che riuscirai a raggiungerli». Invece no, è vero che tutti hanno dei problemi, però ricevere cento botte dalla vita, oppure riceverne dieci, mi sembra molto diverso; sempre molte sono, però una cosa è essere massacrati, e un’altra è essere sfiorati. Inoltre raccontare la realtà non è semplicemente lamentarsi.
Ecco, rivendico il “diritto al lamento”; forse è anche questa una forma di lotta.
Ma da dove ero partita? Dall’abbigliamento comodo e alla moda? E poi sono finita nel modo di pensare. Non so se un abbigliamento più comodo possa aiutare a cambiare una mentalità. Con tutta sincerità lo spero, perché anche dentro di me è ancora presente un briciolo di vanità, che mi spinge a comprare maglie o pantaloni illudendomi che mi stiano bene “fuori” e augurandomi che mi facciano stare bene anche “dentro”.

 

Immagine tratta dall’Archivio Thayaht & RAM, 1920

Immagine tratta dall’Archivio Thayaht & RAM, 1920

Un armadio pieno di scelte
di Francesca Arcadu

“Curare la sua bellezza, abbigliarsi […] le permette di appropriarsi della sua persona” cioè di “scegliere e creare il proprio Io” (Simone de Beauvoir, Il secondo sesso, 1949-50, trad. it., p. 311).

La notizia sembra interessante: una linea di abbigliamento pensata per disabili, lanciata di recente sul mercato da un ex sarto piemontese. In genere, però, quando leggo le parole «pensato per disabili», ho la tendenza a storcere il naso in preda a una diffidenza frutto di anni e anni di comunicazione nella quale il mondo delle persone con disabilità viene immaginato come un universo parallelo che richiede soluzioni particolari e particolarmente escludenti. I posti al cinema per disabili, i percorsi per disabili, i giochi per disabili… L’intento è senz’altro positivo, ma di solito la resa è triste, perché ci relega a soluzioni speciali che evidenziano ancora di più l’appartenenza a un mondo altro e in genere poche volte tengono conto di gusti, libertà di scelta, personalità dei destinatari.
Questa volta, però, nel riflettere sugli abiti studiati su misura per persone con disabilità, che magari si muovono su una sedia a rotelle, ho cercato di liberarmi da quel riflesso condizionato, per valutare gli aspetti funzionali e positivi dell’idea. Quindi, per esempio, cerniere al posto di bottoni e asole, velcro al posto di cerniere, abiti dal taglio destrutturato per una vestibilità potenziata e semplificata.
Ma il pensiero della ricerca di una maggiore vestibilità, in un attimo, mi ha portato alla mente alcune amiche robuste, con diversi chili di troppo, con le quali spesso parliamo della difficoltà ad indossare i capi di abbigliamento disponibili nei negozi, in particolare nelle grandi catene di che hanno come riferimento “donne immaginarie”, dalle microspalle e microvita, dalle braccia lunghissime e lunghissime gambe. Praticamente delle “donne-elfo”, o delle fate dei boschi.
I discorsi con le mie amiche non disabili, di solito, partono dal problema della taglia per arrivare alla comodità, alla vestibilità – i pantaloni a vita bassa dopo i 40 anni sono impensabili – ma anche alla lotta con alcune cerniere doppie, che se non hai la vista di falco e le mani salde, non riesci proprio ad infilarle. Le difficoltà legate alla scelta dell’abbigliamento non le hanno solo le persone disabili, quindi, e immaginare linee più comode, portabili e facilmente indossabili potrebbe soddisfare una più ampia fascia di persone, senza per questo dover “settorializzare” l’offerta o limitarla ad una sola categoria.
Il ragionamento, però, per quanto mi riguarda, si è focalizzato più sulle parole di Gabriele Piovano, consigliere della CPD di Torino (Consulta per le Persone in Difficoltà), riportate dalla rivista «Vita». Piovano, infatti, egli stesso persona con disabilità, nel presentare la linea di abbigliamento, a proposito delle difficoltà a trovare e indossare abiti comodi, afferma che «farsi vestire è quanto di più umiliante si possa immaginare per una persona adulta» e ancora che la maggior parte delle persone disabili «si rassegna ad una vita di sciatteria».
Questo è il vero nocciolo della questione, a mio parere. Il riconoscimento del proprio corpo, della propria diversità, dei propri bisogni e soprattutto il riconoscimento della propria personalità, dei propri gusti, della libertà di essere se stessi/e, con tutte le difficoltà che ci portiamo dietro.
Il lavoro da fare è su di sé, ed è un lavoro che passa anche attraverso il concetto di umiliazione, perché chi la definisce tale, nega la complementarietà tra un corpo che ha bisogno di aiuto e un altro che offre e completa quell’aiuto, permettendogli di esprimersi e di rappresentarsi. Un rapporto – quello delle persone con disabilità con le persone che le aiutano – che dev’essere visto come occasione piuttosto che umiliazione o privazione. È molto più umiliante, per una persona disabile, non avere nessuno che possa aiutarla a compiere le azioni precluse dal proprio deficit. È più umiliante essere privati del diritto di accedere nei luoghi pubblici e partecipare alla vita sociale, essere privati del diritto di rappresentarsi ed essere rappresentati dignitosamente nell’immaginario collettivo, come soggetti attivi diversi gli uni dagli altri, non come categoria. Questo si, che è realmente umiliante!
Penso che la rassegnazione a una vita di sciatteria non nasca spontanea nelle persone disabili, almeno quelle che appaiono tali, ma piuttosto sia il frutto dall’immagine riflessa dall’esterno, che ci rappresenta come persone con una diminutio incolmabile, uomini e donne che dovrebbero vestirsi in tuta per stare più comode, persone che tanto non si sposano, non hanno relazioni sentimentali, persone che difficilmente lavorano e che escono solo per andare a fare visite mediche. Questa, spesso, è l’immagine riflessa dal mondo esterno, che molti di noi hanno subìto nei commenti dei conoscenti, nelle domande anche benevole di chi ci conosce, di chi spesso si stupisce se molte donne con disabilità vanno regolarmente dal parrucchiere, si mettono lo smalto abbinato al trucco e usano abiti colorati e alla moda. Sì, parliamo del 2016 e dei paesi e delle città nei quali viviamo. Certo, rispetto a venti-trent’anni fa le cose sono cambiate, ma sono certa che molti e molte di noi persone disabili hanno aneddoti sconvolgenti in merito a questo tipo di domande e pregiudizi, seppur benevoli.
L’abbigliamento ci racconta, ci rappresenta, è una potente arma semiotica che parla per noi e ci consente di narrare ciò che siamo. E allora, forse, è il caso di andare un po’ oltre la mera comodità di un abito, interrogandosi su quale sia la libertà di una persona con disabilità di esprimere se stessa attraverso la cura di sé, lo stile e la scelta dei capi da indossare.
Sono certa che l’intento del signor Simionato sia legato alla sua età e al necessario bisogno di comodità e autonomia, rispettabilissimo e condivisibile, ma se le motivazioni e la diffusione di una “moda per disabili” passano attraverso un messaggio che parla della relazione di aiuto come “umiliazione”, anteponendo la comodità al bisogno di esprimere se stessi, allora no, grazie, preferisco gli abiti pensati per le “donne-elfo”.

Componenti del Coordinamento del Gruppo Donne UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare), nel cui sito il presente testo, curato da Francesca Arcadu, è già apparso con il titolo “‘Ma come mi vesto?’ Riflessioni su abiti, comodità e rappresentazione di sé”. Lo riproponiamo per gentile concessione, con minimi riadattamenti al contesto, riprendendo anche le medesime immagini scelte dal Gruppo Donne UILDM.

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