Alcuni delicati interrogativi etici

Lo spunto è dato nello specifico da malattie neuromuscolari come le distrofie o le atrofie spinali, ovvero patologie che oltre ad essere progressive e significativamente invalidanti, sono anche ereditarie. Pertanto, chi ne è affetto, e desidera diventare genitore, è chiamato a dover scegliere come comportarsi qualora il nascituro dovesse manifestare la sua stessa patologia. Si tratta di un tema serio e complesso, che pone importanti interrogativi etici cui non ci si può sottrarre e che non riguardano certamente solo le malattie neuromuscolari

Diego Burigotto, "Rifrazione bn1", 2013 (particolare)

Diego Burigotto, “Rifrazione bn1”, 2013 (particolare)

Le malattie neuromuscolari (distrofie, atrofie spinali, miastenie, miopatie), di cui si occupano Associazioni come la UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare), oltre ad essere progressive e significativamente invalidanti, sono ereditarie, la qual cosa vuol dire che possono essere trasmesse come altri caratteri della persona: il colore dei capelli e degli occhi, la forma del viso, del naso o del mento, l’altezza e tanti altri ancora.
La ricerca scientifica ha permesso di calcolare con una certa precisione la percentuale di rischio che ciascuna delle diverse patologie neuromuscolari possa essere trasmessa alla prole. Questo rischio varia a seconda della patologia specifica e della composizione della coppia che ne è interessata, e si va dal 50% di probabilità di trasmettere la malattia (ereditarietà dominante), al 25% nei casi di ereditarietà recessiva (in questo schema sono forniti i dettagli specifici). Cifre ben superiori, dunque, al rischio generale di specie, individuato nel 5%, ossia la percentuale a cui è esposta una coppia di generare un figlio interessato da queste specifiche patologie quando non vi siano precedenti di esse in famiglia.

Luisa Politano è professore associato di Genetica Medica presso la Seconda Università di Napoli, ed è anche l’attuale presidente della Commissione Medico-Scientifica della UILDM Nazionale, l’organo di consulenza scientifica di tale Associazione. Ci siamo rivolti a lei per capire se esistano dati dai quali poter capire se tra le coppie interessate da patologie ereditariamente trasmissibili – e in particolare da malattie neuromuscolari – prevalgano quelle che sono orientate in termini di prevenzione, o quelle che propendono per la genitorialità, quali che siano le condizioni di salute del nascituro.
Politano, facendo riferimento alla sua personale esperienza di più di trent’anni di consultorio genetico per le malattie muscolari, osserva «che in genere le coppie “a rischio” decidono per una gravidanza “protetta”, nel senso che optano in genere – specialmente per le malattie muscolari più gravi – per una diagnosi prenatale del feto affetto ed eventuale interruzione di gravidanza».
Tuttavia questo dato potrebbe essere fuorviante, poiché, verosimilmente, una coppia che porterebbe avanti la gestazione quali che fossero le condizioni di salute del nascituro, non avverte l’esigenza di fare esami prenatali diversi da quelli previsti di routine per qualsiasi gravidanza, o di richiedere una consulenza genetica. Quest’ultima ipotesi trova una conferma quando, osservando la composizione dei nuclei familiari che fanno riferimento alla UILDM, troviamo sia quelli in cui è presente una sola persona con disabilità, sia quelli in cui sono presenti più persone con disabilità.
Ma le coppie interessate da patologie genetiche che, nel momento in cui decidono di avere un figlio, intraprendono un percorso di prevenzione delle proprie malattie sono intenzionate a disconoscere il diritto alla vita delle persone con disabilità? Pensano che la stessa vita del/la partner disabile sia indegna di essere vissuta? Decisamente no! Prova ne sia che molte di loro sono attive nella promozione della vita piena, integrata, consapevole e completa delle persone con disabilità. A parlarci, si scopre che loro hanno ben presente la dignità di vita delle persone con disabilità, ma conoscono altrettanto bene anche le fatiche che la disabilità comporta, e che, potendo scegliere, quelle fatiche vorrebbero risparmiarle ai propri figli.

Le tecniche di prevenzione – le diagnosi prenatali, l’aborto terapeutico, la procreazione medicalmente assistita e la selezione pre-impianto* – sono legittimate sotto un profilo etico e giuridico dalla constatazione che embrioni e feti sono indistinti dal corpo materno e costituiscono un tutt’uno con esso. La mancanza di individualità fa sì che essi non siano considerati persone in senso proprio (si parla, a tal proposito, di “persone potenziali”). La circostanza poi che non si possa disporre di essi senza che tali disposizioni ricadano direttamente sulla donna, ha portato ad escludere che soggetti terzi – diversi dalla donna interessata – possano decidere riguardo alla sua maternità. Infatti, disporre del corpo di qualcuno senza il suo consenso costituisce violenza.
La bioetica è una materia complessa che richiede competenze e capacità di analisi che di solito le persone comuni non possiedono. Per questo non stupisce che siano ancora tanti coloro che non sanno distinguere tra “persone potenziali” e “persone reali” (o “persone in atto”), e pensano che trovarsi in una fase di sviluppo della vita o in un’altra sia esattamente la stessa cosa.
Ma è davvero così? Se essere qualcosa in potenza ed esserlo realmente fosse la stessa cosa, allora – tanto per fare un esempio – dovremmo poter trattare tutti i minorenni come fossero maggiorenni, poiché tutti i minorenni sono “maggiorenni in potenza”. Potremmo vendere loro alcolici, dar loro la patente, farli votare, stipulare con loro contratti di lavoro e sanzionarli se non li rispettano, avere con loro rapporti sessuali qualunque sia la loro età reale… Se quindi consideriamo improprio trattare un minorenne in questo modo, è semplicemente perché essere qualcosa in potenza o esserlo realmente sono due cose ben distinte. E ciò ci consente di affermare che l’impiego delle tecniche prenatali di prevenzione delle patologie ereditarie non danneggia alcuna “persona in atto”.

Alcune persone con disabilità pensano che le tecniche prenatali di prevenzione delle malattie non costituiscano un progresso per l’umanità, ma siano invece gli strumenti attraverso i quali le donne (le coppie) possono impunemente discriminare le persone con disabilità. Pertanto vorrebbero che l’uso di queste tecniche fosse vietato o, quanto meno, fortemente limitato. Sorvolano sulla natura degli embrioni e dei feti (dove sarebbe la discriminazione, se i nascituri non sono “persone in atto”?). Sorvolano sulla circostanza che quei divieti ricadrebbero direttamente sul corpo delle donne e sulle loro vite. Pensano che la loro buona causa li autorizzi a disporre del corpo delle donne anche senza il consenso di queste ultime (l’istituzione del divieto serve proprio a silenziare la parola delle donne). Si relazionano al corpo della donna come fosse un “luogo pubblico” del quale è legittimo fruire con criteri di uguaglianza… e in effetti, se la donna fosse un bar, non ci sarebbe niente da obiettare. Non considerano che le donne dispongono del proprio corpo discrezionalmente, perché ne detengono la proprietà esclusiva, e che, pertanto, ciò non costituisce una discriminazione nei confronti di nessuno, giacché nessuno può accampare diritti sul loro corpo.
Suscita amarezza che tra costoro ci sia anche qualche donna con disabilità. È difficile ipotizzare che un giorno riusciremo a far cessare la violenza sulle donne, finché ci saranno persone che pensano che il corpo della donna possa essere gestito come una cosa pubblica.

Uno degli errori più frequenti in cui si incorre nel trattare questi temi, consiste nel prendere in considerazione un’unica variabile – in genere la condizione di salute del nascituro -, e nel trattare le altre come ininfluenti o secondarie. Questo modo di ragionare, infatti, impedisce di cogliere che sulla scelta della coppia possono incidere una quantità imprecisata e imprecisabile di fattori.
Può incidere lo stato di salute del rapporto di coppia: se c’è già qualche increspatura, la disabilità di un figlio rischia di trasformarla in “crepaccio”. Può essere determinante la condizione occupazionale dei genitori, la loro situazione economica, le loro convinzioni etiche e/o religiose, la presenza o meno di una rete informale di supporto (nonni, zii, vicini, volontari che possono dare una mano), la circostanza che in famiglia ci siano persone anziane da accudire o altre persone non autosufficienti, la situazione dei servizi pubblici territoriali di assistenza, le difficoltà ingenerate da un lutto o da una perdita recente, il timore dei genitori che la carenza o la mancanza di servizi per le “famiglie disabili” finisca per trasformarli in ammortizzatori sociali, l’indisponibilità a lasciare il lavoro per prestare assistenza continuativa a un figlio, i dati sul rischio di una sistematica violazione dei diritti umani a cui sono esposti i/le caregiver[assistenti di cura, N.d.R.].
Eppure non si può affermare che, in una materia come questa, esista una condotta preferibile, perché ogni coppia ha le sue caratteristiche, la sua storia, le sue sensibilità, e la scelta adatta ad alcune potrebbe rivelarsi disastrosa per altre. Chi, per un qualunque motivo, ritiene che la vita sia inviolabile sin dal concepimento, oppure pensa che la presenza di una patologia fetale non sia una ragione valida per interrompere una gravidanza, fa benissimo a fare scelte in armonia con il proprio sentire. Chi invece, esaminando la propria personale situazione, non se la sente di portare a termine un percorso intrapreso, fa altrettanto bene a fermarsi. La decisione delle une non delegittima quella delle altre e viceversa. Infatti, parlare di prevenzione delle patologie ereditarie non significa disporsi ad orientare la scelta delle donne (delle coppie), in qualunque senso si intenda orientarla. Significa invece riconoscere l’autorità etica delle donne stesse in tema di maternità, rispettare la loro libertà e il loro corpo, fornendo loro, con onestà intellettuale – qualora ne facciano richiesta -, le informazioni necessarie per decidere in modo consapevole.

*In Italia il cosiddetto “aborto terapeutico” è previsto dall’articolo 6 della Legge sull’interruzione volontaria di gravidanza (Legge 194/78), ed è ammesso, anche dopo i primi novanta giorni di gestazione, quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna; oppure quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna. La procreazione medicalmente assistita (PMA) è disciplinata dalla Legge 40/04, norma significativamente modificata da molteplici pronunciamenti della Corte Costituzionale, volti ad eliminare i tanti elementi di illegittimità contenuti nell’enunciato originale. In tal senso, oggi possono accedere alla PMA e alla diagnosi genetica preimpianto (PGD) anche le coppie fertili affette o portatrici di patologie genetiche (Sentenza 96/15) ed è stato inoltre eliminato il divieto assoluto di selezione degli embrioni (Sentenza 229/15).

Sociologa, componente del Coordinamento del Gruppo Donne UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare). La presente riflessione è già apparsa nel sito dello stesso Gruppo Donne UILDM, con il titolo “La prevenzione delle patologie neuromuscolari” e viene qui ripresa, con minimi riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.

L’Autrice della presente riflessione suggerisce anche la lettura di Virna Domenici, Liberi nella scelta, un caso di selezione embrionale, in sito del Gruppo Donne UILDM, 26 maggio 2016 (ultimo aggiornamento 7 luglio 2016).

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